lunedì 23 maggio 2011

Inni alla notte (con musica)


Alla fine è arrivata la notte. E la città ha regalato parole. Avete idea di quante parole sono state dette, lette e cantate  in una sola notte? Nemmeno il rombo delle Rosse le ha fatte tacere. (Neanche il raduno delle Lambrette). Sono state annunciate, accompagnate,  amplificate e si sono moltiplicate  all’infinito perché, dopo, davanti a un frizzantino fresco, hanno continuato a girare.

Tenera è la notte di parole! E rara. Di solito si preferisce dormire (se chiedete in giro ve lo confermeranno), oppure parlare sussurrato, o intendersi con altri modi e maniere. Ma per chi ama  rifarsi le orecchie (una variante del rifarsi gli occhi) e sostituire il rumore di fondo con parole speciali, allora una notte (e una biblioteca) fanno davvero la festa.

Perché “ il cielo era così pieno di stelle, così luminoso, che a guardarlo veniva da chiedersi: è mai possibile che vi sia sotto questo cielo gente collerica e capricciosa?...”

Perché “È bella di notte la città…Le persone si perdonano i vizi. La luce del giorno accusa, lo scuro della notte dà l’assoluzione……Nessuno chiede conto di notte…Di notte la città è un paese civile”.
 “Senti… mi vien la pelle d’oca” dice una signora seduta ad ascoltare i narratori della notte  in zona Holden sui gradoni rossi. Mentre suona un clarinetto. “Dolce e chiara è la notte e senza vento e queta sopra i tetti e in mezzo agli orti posa la luna..”. “C’ho il libro dal tempo della scuola… sarà anche impolverato. Non va micca bene”.

È una notte in Italia che vedi,  questo darsi da fare questa musica leggera, così leggera che ci fa sognare.

Elena Bellei
Ricordando Tenera è la notte - letture ad alta voce per restare svegli (14 maggio 2011)

lunedì 16 maggio 2011

Il salotto del martedì - 10 maggio 2011 - La tigre bianca

È possibile essere dalla parte di un assassino?
Il dibattito sul libro di Aravind Adiga inizia da questo interrogativo.
Pare proprio che sia possibile! L’autore crea le premesse per considerare Balram, protagonista, nonché assassino, un personaggio positivo.
Dopo aver sopportato miseria, fatica e soprusi, si ribella alla sua condizione di servo-schiavo, su cui tentano di fare ricadere un crimine che non ha commesso, capro espiatorio della “casta” a lui superiore; l’unico modo che trova per uscirne è la rapina e l’omicidio del padrone.
È un libro di formazione, in cui il protagonista racconta la sua storia a ritroso, dalle ambizioni di ragazzo che non vuole essere bloccato dalla paura come i compagni e - unico - sale a “vedere il forte”, al privilegio di frequentare la scuola, grazie a suo padre, che considera lo studio l’unico modo “per essere uomo”. Diventerà autista della famiglia più in vista del villaggio e si trasferirà a Delhi, la sua scuola allargata. Qui osserva, impara, valuta fino a diventare assassino per difendere la propria libertà.
Approderà, fuggendo, a Bangalore, la città simbolo di uno sviluppo diverso, che permette movimento e libertà. Il finale del libro sembrerebbe pessimista, in quanto pare che omicidio e rapina siano l’unica forma di riscatto e successo, frutto della legge che ormai prevale secondo il protagonista: la legge della giungla.
In realtà è presente anche il desiderio di riscatto, attraverso l’istruzione e la bellezza, tanto che Balram coltiva il sogno di fondare una scuola che privilegi la poesia, ma sia anche realista: “una scuola senza Buddha e senza Gandhi”, che renda i ragazzi come suo nipote consapevoli delle loro capacità.
Il libro ci presenta un’India diversa dagli stereotipi classici, una società ancora chiusa nelle caste, falsamente democratica, preda di corruzione e violenza. Scritto in forma epistolare (il protagonista immagina di inviare le sue lettere al ministro cinese che verrà in visita a Bangalore) il testo ha un taglio quasi giornalistico e crea attesa attorno all'avvenimento che “cambierà la storia”.
Vi è un occhio attento, estremamente realistico sulla “nuova India”, che ci ha indotto, nel gruppo, a ragionare sulle scelte di sviluppo che stanno facendo India e Cina, sulle analogie, sulle differenze, sui “modelli” a cui si riferiscono.
Interessante la considerazione del protagonista, che si chiede ad un certo punto: “I poveri sognano di diventare ricchi e i ricchi che cosa sognano?”.
(Resoconto a cura di Edda Reggiani)

giovedì 5 maggio 2011

Il salotto del martedì - verso "La tigre bianca", di Aravind Adiga

Se avete letto Cuccette per signora di Anita Nair, ricorderete la stazione di Bangalore, in cui fino al 1998 sopravviveva l'antiquata usanza dei posti in treno riservati alle donne.
Beh, la Bangalore di cui si tratta in questo romanzo (Aravind Adiga, La tigre bianca, Einaudi) è tutta un'altra cosa. Centro mondiale della tecnologia e dell'outsourcing, la città è un grande cantiere a cielo aperto, piena di giovani che, nei grattacieli di vetro, “fanno delle cose al telefono per gli americani”. È la nuova India, quella che sta diventando, al fianco della Cina, una delle maggiori potenze economiche mondiali: la Luce, cui il protagonista riesce ad arrivare sfuggendo al mondo delle Tenebre, cioè ai raccapriccianti villaggi di fango in cui vivono i “ragni umani”.
L'autore, che è un giornalista trentenne, vincitore nel 2008 del Booker Prize, costruisce il libro attorno ad un'efficace metafora: la tigre che parla col dragone, l'imprenditore indiano autodidatta che scrive sette lettere al primo ministro cinese, raccontandogli il lato oscuro della nuova “shining India”. Per far questo, il protagonista descrive la sua ascesa sociale, che è però, contemporaneamente, anche una discesa negli abissi della corruzione. Perché il guaio è che questa rivoluzione indiana è accompagnata dalla violenza, dal sopruso, dall'inganno di una falsa democrazia, in cui gli ultimi riescono a sopravvivere solo conformandosi alla legge della giungla. E l' “imprenditore” che racconta come è riuscito a raggiungere il successo, per quasi tutto il libro non è un uomo d'affari, ma un servo. “In questo paese una manciata di uomini ha addestrato il restante 99,9 per cento a vivere in un perenne stato servile”.
Il tutto descritto con stile sarcastico e tagliente: una lettura interessante, anche se lascia l'amaro in bocca.



Matilde Morotti

martedì 3 maggio 2011

Un libro, un film - 28 aprile 2011 - Quel che resta del giorno

Stevens, protagonista di Quel che resta del giorno, è il modello di una figura al tramonto: il maggiordomo incaricato di gestire tutti gli aspetti pratici della grande residenza di un influente membro dell’aristocrazia britannica. Il viaggio attraverso la campagna inglese, offerto dal nuovo padrone americano, diventa quindi l’occasione di riflettere su una professione che ha assorbito ogni istante della sua vita.
Ciò che caratterizza un grande maggiordomo è, secondo Stevens, la sua dignità. Sebbene una definizione accurata di questo valore non sia facile da individuare (vi sono infatti dedicate ampie pagine), a un grande maggiordomo sono richiesti assoluta lealtà e obbedienza verso il padrone e il massimo impegno e coerenza nell’adempimento del proprio lavoro, qualunque esso sia. Questo ideale è perfettamente incarnato da Stevens.
Le qualità vantate da Stevens sono tuttavia perseguite con eccessiva coerenza, rivelando un atteggiamento ottuso che imprigiona il maggiordomo nella sua vita professionale. Stevens è infatti “cieco” sia nei confronti della storia (gli errori di Lord Darlington) che dei sentimenti (i tentativi di Miss Kenton nei suoi confronti). Questa doppia “cecità”, sia verso il padrone che verso i sottoposti, rappresenta la staticità di una società classista di cui Stevens e Lord Darlington sono immagini fedeli.
Quando Stevens mette a fuoco tutto ciò, è ormai troppo tardi: Lord Darlington ha fallito e Miss Kenton si è accasata. Che cosa dunque resta del giorno? Una profonda solitudine, contro cui Stevens è abbastanza corazzato per non tramutarla in disperazione, in perfetta coerenza con il proprio ruolo. D’altra parte, la vita di Miss Kenton gli mostra che esistono molti modi di essere coerenti, tutti assolutamente dignitosi.