martedì 29 marzo 2011

Un libro, un film - 24 marzo 2011 - Le notti bianche

Le notti bianche di San Pietroburgo sono lo sfondo su cui si staglia l’infinita gamma di stati d’animo che caratterizza i personaggi di Dostoevskij. Il protagonista è un uomo profondamente solo, che si relaziona con la folla e con gli edifici senza costruire alcun tipo di relazione individuale. L’unica via d’uscita da questa solitudine è rappresentata dalla sua fantasia: è qui che gli sconosciuti divengono amici, le case acquisiscono un’identità e la città accoglie il sognatore come un suo legittimo membro.

L’abituale routine dei sogni cittadini è interrotta dall’esplosione della primavera, cui il protagonista assiste durante una passeggiata in campagna. Al contrario della città, la campagna esibisce una realtà “naturale”, in cui la fantasia non è più necessaria. La campagna sta alla città come la folla impersonale sta alla giovane Nasten’ka, che non a caso viene incontrata dal protagonista di ritorno dalla sua escursione fuori porta.

Anche Nasten’ka, come il protagonista, è una sognatrice. Tra i due ci sono però alcune essenziali differenze: la realtà da cui Nasten’ka vuole fuggire è molto concreta, e prende le sembianze di un’opprimente nonna che la tiene legata a sé con una spilla. Anche il sogno d’amore della ragazza è concreto, per quanto evanescente. Al contrario, i sogni del protagonista danno sempre forma a storie totalmente fittizie, senza alcun vincolo con la realtà fisica. L’incontro con Nasten’ka provoca un cambiamento in questi sogni. Essi diventano ora realizzabili, quantomeno in linea di principio: ciò che il protagonista desidera è l’amore di una persona in carne ed ossa, con cui può dialogare e fantasticare progetti.

Il sogno del protagonista si sfascia nel momento in cui quello di Nasten’ka si realizza, lasciando dietro di sé un «attimo di vera beatitudine». Non è chiaro se questa felicità momentanea fosse dovuta all’amore verso Nasten’ka o direttamente verso il proprio sogno; quanto è chiaro è che il vuoto lasciato dal fallimento di un sogno non potrà essere colmato da una realtà inospitale, ma soltanto da un nuovo sogno.

Un’intervista “impossibile” di Oreste del Buono a Fëdor Dostoevskij può essere ascoltata ai seguenti link:
http://www.youtube.com/watch?v=rAbhQbfo1ZM
http://www.youtube.com/watch?v=5dRSdCO7Usw

sabato 26 marzo 2011

Leggere con Ugo Cornia - verso "Da un castello all'altro" di Louis-Ferdinand Céline


All’inizio mentre leggevo questo Da un castello all’altro, che non avevo mai letto prima, mentre avevo letto tante altre cose di Celine che avevo sempre trovato grandiose, memorabili e al tempo stesso impossibili da ricordare, per cui se hai la fortuna di esserti segnato le pagine ritorni sempre a rileggerle, dieci volte, venti volte, e così via, leggendo mi dicevo: mah, sto libro, è sempre Celine con la sua scrittura, però mi sembrava un po’ un casino in cui facevo fatica ad orientarmi, e un po’ una lunga lamentazione e recriminazione. Allora aspettavo che succedesse qualcosa, e poi invece, per esempio quando lui va a curare la vecchia signora Nicois e inizia quella storia dell’acqua e dei barconi, e troviamo uno che si definisce così “oltre che guardone sono fanatico dei movimenti di porti, di tutti i traffici dell’acqua… di tutto ciò che viene voga accosta… ero ai moli con mio padre… otto giorni di vacanze al Treport… cos’è che si è potuto vedere… entrate uscite dei piccoli pescatori…”, e già qui inizia ad aprirsi un mondo, quando il mondo naturale e normale diventa una specie di grande cinema, e tu sei inchiodato alla tua seggiola a contemplare la bellezza delle cose. Poi poco più in là arriverà Caronte e la sua nave di trapassati, e così via. Ma quando arrivano subito dopo i corridoi Hohenzollern, maniaci di corridoi sottopassaggi gallerie, lì mi dicevo: come al solito anche questo libro è un grande capolavoro, Lilì e il gatto Bebert per esempio: “Da una svolta all’altra mi perdevo… ve lo dico, confesso… Lilì o Bebert mi ritrovavano… le donne hanno l’istinto dei dedali, torti e traversi ci si ritrovano… il senso animale… è l’ordine che le sconcerta… l’assurdo gli va… il bislacco è loro normale… la Moda… per i gatti: solai, mesci-mesci, vecchi granai… le dimore da Racconti fantastici, li attirano irresistibili”... “la perversità degli atomi… le bestie uguale… prendete Bebert… mi faceva cucù dagli abbaini… brrt, brrt… la baia… lo vedevo più… se ne fotteva di me… i gatti, bambini, signore, sono un mondo a sé Lili andava dove voleva in tutto l’Hohenzollern Castello… da un dedalo di corridoi all’altro”. E anche la cagna Bessy.

Lì ho capito che erano le solite righe scritte con un genio infinito.


Ugo Cornia, conduttore del gruppo di lettura

martedì 22 marzo 2011

Il salotto del martedì - 15 marzo 2011 - "Cecità", di Josè Saramago


Non si diventa ciechi da un momento all’altro e la cecità non è un male contagioso. Ma, nel romanzo di Saramago, accade esattamente il contrario: la cecità colpisce inesorabile nel giro di un attimo, un attimo prima ci vedi, un attimo dopo non ci vedi più. Questa cecità epidemica, da cui prende le mosse il racconto, è già un evento problematico, e perciò racchiuso in una metafora: non si tratta di una normale cecità, ma di occhi perfetti, su cui cala una cortina bianca lattiginosa, “uno splendore luminoso”, “un’illusione di luce”.
A questo proposito l’autore afferma che si tratta di un romanzo realistico, di un realismo un po’ particolare perché ricorre all’allegoria, cioè a un modo di raccontare in cui si fa ricorso a metafore e simbolismi.
Dopo i primi improvvisi casi di cecità, gli eventi precipitano a ritmo incalzante: dapprima l’isolamento in un ex manicomio, un isolamento che si trasforma in breve in una segregazione, cui segue la progressiva degradazione morale, la fame, lo stupro, la morte; una “discesa all’inferno” non voluta, ma neppure contrastata, certamente sofferta.
La vicenda prende le mosse dal “giorno dopo”, quando l’imprevisto si è già verificato, è accaduto qualcosa che paralizza la scienza, il senso comune, e i provvedimenti, nonché aggravare la situazione, si rivelano vani.
“Tutta la sporcizia di cui trabocca l’inferno di Cecità non si trova solo lì, c’è anche intorno a noi, basterebbe vederla”; nella discussione queste parole ci avvicinano un po’ alla meta: se la cecità “buia” è propria di chi anche volendo non può vedere, quella “bianca” corrisponde simmetricamente alla cecità di chi non vede pur potendo.
Il manicomio separato dal resto del mondo da mura di protezione fa venire in mente per spontanea associazione i campi di concentramento nazisti, e altre esperienze equivalenti che nel mondo non mancano. Ma il richiamo risulta per molti aspetti poco convincente: i nostri personaggi non si trovano lì per motivi politici o per razzismo, come accadde ad Auschwitz; essi non si sentono colpiti da folle ingiustizia, condividono, anzi, i motivi cautelari di salute pubblica che hanno imposto la loro quarantena. Ignorano semmai che tale provvedimento ha motivi poco nobili, è stato preso in tutta fretta per il timore di incorrere in penalizzazioni elettorali. Comunque sia, è interessante osservare che nel passaggio dallo spazio della medicina a quello del potere politico quello che è solo un dubbio scientifico (il contagio), un sospetto, e come tale suggerirebbe un atteggiamento cauto, prende la forma di una rapida risoluzione amministrativa: che poi, anziché contagio, sia solo casuale simultaneità, nel qual caso non c’è quarantena che valga, poco importa. Il medico intravede il rischio, il ministero si aggrappa al principio dell’interesse pubblico, una cosa sola è certa: la quarantena potrebbe durare “quarant’anni”, una condanna a morte.
Però il morbo non si arresta, “quanti ciechi occorrono per fare una cecità”? La questione non è ovviamente statistica, non basta che il numero dei ciechi diventi superiore a quello dei vedenti; ma non basta forse nemmeno che qualche vedente continui a vederci. Nel romanzo di vedenti ce n'è uno solo, la moglie del medico, e dunque il mondo sfugge al controllo con un’accelerazione impressionante e la possibilità di sopravvivenza si fa sempre più esile. Incombe l’ombra terrorizzante di una “cecità” finale, apocalittica.
Forse anche per questo Saramago ha scelto di non dare un nome ai suoi personaggi, sono semplicemente un medico, la moglie del medico, la ragazza con gli occhiali… persone comuni, a cui non serve un nome per attraversare eventi catastrofici. Non sono semplici vittime, però, perché si dice, nel corso del processo di agnizione di un personaggio, che ciechi lo erano anche prima di diventarlo.
Tante cecità, dunque, ciascuna nutrita di indifferenza, sospettosa, sorda ai bisogni degli altri e del mondo, concentrata su qualche tornaconto personale. In questo senso l’esperienza della segregazione potrebbe essere letta come una serie di prove, attraverso le quali diventa possibile recuperare la vista, un senso di umanità perduta.
Date le condizioni disumane del manicomio, la sopravvivenza impone alla piccola comunità di organizzarsi. In questo modo, almeno fino a quando il numero dei ciechi si contiene entro limiti sostenibili, resistere è possibile.
C’è anche la netta impressione, a onor del vero, che le figure femminili mostrino e conservino una cecità meno devastante, sia prima che l’arrivo dei “ciechi malvagi” (accaparratori, stupratori, delinquenti) faccia precipitare gli eventi a livelli di depravazione inaudita, sia perché sono loro, le donne, a mostrarsi capaci, sia pure in extremis, di quello scatto di dignità che, solo, può porre fine alla segregazione e, con l’aiuto della fortuna, aprire le porte della prigione. Forse per questo sembrano godere di una maggiore benevolenza da parte del narratore; un riconoscimento di “genere”, che dà credito all’ennesima constatazione che le donne sembrano percepire maggiormente l’evenienza del “male” prodotto dall’indifferenza e, forse per questo, dimostrano una più accorta apertura alla speranza.
Ma cos’è questo romanzo? Un racconto fantastico? Una favola allegorica? Un romanzo utopistico? Forse è ozioso perdere tempo per attribuirgli l’etichetta di un genere, perché, si fa notare, a prescindere dall’interpretazione dell’allegoria iniziale, la si accetti o la si ignori, il racconto possiede un taglio realistico e politicamente impegnato. D’accordo, soprattutto in questi giorni. Tuttavia all’orecchio non cessa di ronzare il dubbio che ciò che accade nel mondo abbia a che vedere in qualche modo con quell’allegoria, con quella “cortina fumogena” che non viene dal nulla e che sarebbe sperabile che producesse solo in sede di elaborazione letteraria le estreme conseguenze del suo potenziale distruttivo.
Fuori dal manicomio le cose non vanno meglio, al contrario: se dentro, in qualche modo, una sia pur minima parvenza di organizzazione aveva garantito la sopravvivenza dei ciechi, fuori c’è l’anarchia: la città (il suo fantasma) è percorsa da orde che assaltano botteghe, supermercati, edifici pubblici, chiese, alla ricerca, gli uni contro gli altri, di cibo e riparo (ma allora, osserva qualcuno, aveva ragione quel filosofo dell’homo homini lupus). È un mondo abbandonato dagli uomini e da Dio. Qualcuno, in un ultimo barlume di luce sacrilega, ha bendato gli occhi delle statue e cancellato con un colpo di vernice quelli dei dipinti di una chiesa: “chi non vede non merita di vedere”.
Dov’è la salvezza? A che cosa aggrapparsi?
In questa desolazione, in un momento in cui la disperazione ha raggiunto l’apice, c’è un cane che non aggredisce ma offre la sua amicizia in cambio delle lacrime che la donna gli lascia bere. Si tratta del breve conforto di un attimo, poi? Altri tormenti, altre visioni da incubo, poi una pioggia che giunge a spazzar via un po’ di tanto sporco e sofferenza, infine nello stesso ordine con il quale sono diventati ciechi, tutti riprendono a vedere.
Ma non siamo sicuri che si tratti di un “lieto fine”, rimane quella domanda: si può diventar ciechi se già prima non lo si era? E che cosa questa “discesa all’inferno” ha cambiato nei personaggi? È vero che hanno imparato qualcosa, nel senso che sapere che esiste il mal di testa non è lo stesso che soffrire di emicrania, però non è dato sapere se alla fine ci vedano come prima di diventare ciechi, o in un altro modo, e tanto meno se quest’altro modo sia o no anch’esso una forma di cecità. Forse una risposta è contenuta in Saggio sulla lucidità, che riprende Cecità, titolo originale: Saggio sulla cecità.
A questo punto bisognerebbe rileggere il libro, che in prima lettura è di grande impatto emotivo, ma meno facile di quanto sembri. Meriterebbero un’adeguata osservazione il linguaggio, lo stile e soprattutto gli interventi della voce narrante che sono numerosissimi e posseggono una gamma assai vasta e illuminante di registri linguistici. Ma il tempo è scaduto.
[a cura di Mirna Ferrarini]

lunedì 21 marzo 2011

Un libro, un film - verso 'Le notti bianche' di Fëdor Dostoevskij

Un giovane uomo, solitario e romantico, incontra una notte, in una Pietroburgo deserta, una ragazza in lacrime per una pena d’amore.

La sua timida audacia conquista la donna che, dopo una prima titubanza, si lascia consolare (nonostante il giovane sia per lei un perfetto sconosciuto) e accetta di essere accompagnata verso casa. I due si ripromettono di rivedersi l’indomani nello stesso posto. Entrambi mantengono la promessa. Ma Nastenka cerca un confidente, non un amante, mentre il giovane si innamora di lei fin dal primo momento e la sua indole romantica lo induce a credere che quel magico incontro possa essere l’inizio di una lunga storia d’amore.

L’uomo si definisce un sognatore, parla di sé in terza persona, confessa di soffrire di solitudine, di non avere amici, di non avere mai veramente vissuto se non nei momenti che divide con lei.

“Un sognatore non è un uomo – dice – ma un essere neutro. Si stabilisce il più delle volte in un cantuccio inaccessibile, come se volesse fuggire perfino la luce del giorno…”.

E ancora…“Non posso tacere quando il mio cuore parla… Non posso vivere senza sognare… In sogno creo interi romanzi… Nella mia vita c’è così poca realtà”.

Nastenka, dal canto suo, racconta la povera esistenza di orfana costretta a vivere accanto alla vecchia nonna cieca che la tiene segregata e stretta alla sua gonna con una spilla. Ma anche lei ha un sogno d’amore e di fuga al quale vuole restare fedele come a una promessa, un sogno che dopo un’attesa paziente (un anno esatto) giura a se stessa che diventerà realtà.

Un anno è passato e la fedeltà vacilla, Nastenka cede alle insistenze amorose del giovane e insieme i due fanno progetti. Ma cosa sono pochi giorni d’amore al confronto con una così lunga e devota attesa?

L’uomo che Nastenka veramente ama ritornerà e il sognatore resterà stordito dal dolore… “Subito il giovane si accostò. Dio, quel grido! Come cominciò a sussultare. Come strappò la sua mano (Nastenka) alla mia stretta per correre da lui… Io rimasi quasi immobile a guardarli più morto che vivo… Poi li perdetti di vista…”.

E noi con lui li perderemo di vista e non ci resterà che chiederci se i due vivranno per sempre… (come in ogni autentica finzione) felici e contenti.

Sotto il cielo stellato che apre meravigliosamente il racconto vivono uomini capricciosi e iracondi, si chiede il protagonista quasi a dubitarne. Ma questa è una domanda da giovani, ci fa sapere la voce narrante. Certo sotto quel cielo vivono assieme ai capricciosi e ai collerici anche i sognatori. Cosa resta dei sogni e dei desideri dopo la loro realizzazione, quando questi cessano di essere tali e non più materia per sognatori? E cosa resta dei sogni quando la vita stessa ti farà sapere che non saranno mai realtà? Lasceranno presto spazio ad altri sogni e altri desideri? Si tramuteranno in una irremovibile nostalgia? “Non credere che io ricordi la mia umiliazione Nastenka, né che offuschi con una nuvola nera la tua tranquilla serenità. Non credere che io voglia rattristare il tuo cuore con amari rimproveri… Sia sereno il tuo cielo. Sereno e luminoso il tuo caro sorriso. Sii benedetta per quell’attimo di gioia, di felicità che hai dato a un altro cuore solitario riconoscente. Dio mio. Un attimo di vera beatitudine. È forse poco per riempire la vita di un uomo?”.

Elena Bellei, conduttrice del GdL 'Un libro, un film'

venerdì 11 marzo 2011

Il salotto del martedì - verso "Cecità" di Josè Saramago

Provate ad immaginare di essere un uomo che in una qualunque città, all'ora di punta, mentre è fermo al semaforo con la sua auto, improvvisamente si accorge di aver perso la vista. Scatta il verde, ma la macchina non parte. L'uomo urla la sua disperazione: è diventato cieco.
Inizia così "Cecità", del portoghese premio Nobel Josè Saramago ("Memoriale del convento", “Storia dell'assedio di Lisbona”, “L'anno della morte di Ricardo Reis”, “Il Vangelo secondo Gesù Cristo”).
Da quel momento, la cecità (che non è la comune mancanza della vista, ma un morbo sconosciuto che immerge chi ne è colpito in un biancore color latte) si diffonde come una pandemia. In un certo senso, tutta la storia si sviluppa da questa domanda iniziale: "Che cosa succederebbe se... diventassimo tutti ciechi?”. Come Saramago stesso ha spiegato, il suo intento era collocare “un gruppo umano in una situazione di crisi assoluta”. È una specie di esperimento sociologico, in cui si studia il comportamento del gruppo in relazione con gli altri gruppi: quali rapporti stabiliscono gli esseri umani tra di loro, in che modo si adattano a condizioni di vita sempre più bestiali, quali condizionamenti scompaiono?
Inutile dire, conoscendo il pessimismo antropologico di Saramago, che quello che rapidamente s'instaura è una specie di universo concentrazionario, in cui domina la legge della sopraffazione. Questo libro ci presenta in forma allegorica un'umanità degradata e feroce, incapace di vedere e distinguere le cose su una base di razionalità. Ma non era così anche prima dell'epidemia? Come dice un personaggio: "Secondo me non siamo diventati ciechi, secondo me lo siamo, Ciechi che vedono, Ciechi che, pur vedendo, non vedono” (p. 276). Che cos'è, dunque, la cecità? Non sarà, forse, la malattia invisibile che si diffonde nel nostro mondo, rendendoci sempre più ciechi ai bisogni degli altri, sempre più egoisti e disperati? Se tutti ci ammalassimo di questa cecità, ci ritroveremmo ognuno a fare la guerra a tutti gli altri. Sentiamo ancora la voce di Saramago: “Quello che racconto in questo libro, STA SUCCEDENDO IN QUALUNQUE PARTE DEL MONDO IN QUESTO MOMENTO”.
Insomma un romanzo inquietante, tutto domande, senza risposte. Ma non tutto è male. C'è un angelo, in questo inferno: la moglie del dottore, l'unica che vede (ha finto di essere cieca, per stare vicino al marito). È lei a guidare il primo gruppo di ciechi; è lei, assieme alle altre donne, a rappresentare la sopravvivenza della ragione e dell'umanità in questo viaggio agli inferi con miracoloso ritorno.

[a cura di Matilde Morotti]

mercoledì 9 marzo 2011

Leggere con Ugo Cornia - 2 marzo 2011 - La cantina

“I pomeriggi del sabato io li ho sempre vissuti come un momento quanto mai pericoloso per tutti, la scontentezza nei confronti di se stessi e degli altri, e l'improvvisa consapevolezza di essere in effetti individui sfruttati e condannati per sempre a condurre un vita senza senso producevano quell'atmosfera alla quale le persone si abbandonavano per lo più con una radicalità spaventosa [...]Quando cessa il lavoro, cominciano le malattie, compaiono improvvisamente dei dolori, il famoso mal di testa del sabato, il cardiopalmo del sabato pomeriggio, repentini deliqui, esplosioni di collera. Per tutta la settimana le malattie sono tenute a bada, placate dal lavoro o anche da una semplice occupazione, ma il sabato pomeriggio si ripresentano e l'essere umano perde subito il proprio equilibrio” (p. 68-69).


Con la lettura di questo brano Ugo Cornia comincia l'incontro con il gruppo, dopo la lettura de La cantina di Thomas Bernhard.

Il ricordo dei sabati pomeriggio ci introduce in questo 'capitolo' della produzione autobiografica di Bernhard, che si articola in cinque volumi, e lo rivela come artista della esagerazione e della ripetizione.
Infatti un primo aspetto che viene messo in evidenza dai presenti, a cui Cornia lascia la parola, è lo stile: le continue ripetizioni nella narrazione sono risultate per alcuni la condizione per una lettura scorrevole mentre ad altri hanno comunicato noia e ritorno egocentrico su se stesso da parte dell'autore.

Da notare anche l'uso del corsivo che viene introdotto per sottolineare le situazioni e i personaggi a cui l'autore ritiene di attribuire un peso maggiore nel corso della narrazione. Un esempio è la ricorrenza, in corsivo, dell'affermazione 'direzione opposta' che segnala una svolta importante nella vicenda narrata: il giovane Thomas decide di abbandonare il ginnasio e di cercare un'occupazione che sia collocata in un luogo diametralmente opposto rispetto alla scuola nella città di Salisburgo.

È questa una vera e propria fuga, che allontanerà il giovane da ciò che vuole distruggerlo – 'io sono fuggito in preda ad un'angoscia mortale dentro l'ufficio di collocamento, capovolgendo nel giro di pochi minuti tutto dentro di me e opponendomi a tutto': dalla 'micidiale cappa della scuola e delle sue costrizioni didattiche' , 'non volli più essere una delle migliaia e centinaia di migliaia e di milioni di vittime della macchina per imparare', per cominciare finalmente un'esistenza utile.

Questo cambio di direzione rappresenta la vittoria dello scrittore su se stesso; il pessimismo che alcuni hanno colto nella lettura del libro, sembra così contraddetto da questa ricerca della felicità e nell'abbandono dell'idea del suicidio che aveva accompagnato tutti i suoi anni di studio. In questo, si è evidenziato il delinearsi di un percorso di individuazione dell'uomo oltre il tempo e lo spazio; uno sforzo di esserci pur nel degrado sociale e nella noia esistenziale.

'Gli altri esseri umani li trovai nella direzione opposta' ed è proprio nella cantina di Karl Podlaha nel quartiere di Scherzhauserfeld che il giovane Bernhard conosce la forma peggiore di degrado sociale : 'vado nell'anticamera dell'inferno' ma paradossalmente è proprio qui che da 'uomo libero' Bernhard ritrova non solo il piacere di incontrare gli altri, quelli del mondo reale, ma anche il piacere della fatica, quella che si sopporta perché è utile a sé e agli altri, ed il piacere di studiare non aride discipline, ma metodi professionali per la gestione del commercio.

Un altro concetto che è stato sottolineato nella lettura del libro è la definizione di verità riportata nel libro:
“Ciò che viene descritto mette in luce qualcosa che corrisponde sì alla volontà di verità di colui che lo descrive, ma non corrisponde alla verità, perché la verità è assolutamente incomunicabile”.
Con una sorta di adesione alla filosofia nichilista, si riconosce che la verità è solo nella percezione dell'attimo senza nessuna possibilità di comunicazione.

Ed allora non ci stupisce ma ci affascina la conclusione del volume che restituisce valore al quotidiano nella sua ripetizione, nella sua continua ricerca della felicità e nello sforzo di trovare se stessi.
“Si scoprono le carte, un poco alla volta. L'idea era quella di rintracciare l'esistenza, la propria non meno delle altre. Noi ci riconosciamo in ogni uomo, chiunque egli sia, e siamo condannati ad essere quest'uomo fin quando dura la nostra esistenza. Noi siamo tutte queste esistenze e tutti questi esistenti insieme e andiamo alla ricerca di noi stessi, però non ci troviamo per quanto tenaci siano i nostri sforzi. Abbiamo sognato la sincerità e la chiarezza, ma tutto ciò è rimasto un sogno. Abbiamo spesso rinunciato e spesso ricominciato, e ancora molte volte rinunceremo per poi ricominciare. Ma tutto è lo stesso”.

Nelle contraddizioni, nelle ripetizioni mai identiche a se stesse, si esprime il senso della letteratura che in quanto arte si manifesta anche dove 'tutto è lo stesso'.

In conclusione ha ripreso la parola – o meglio “ci ha rimesso la voce” - Cornia, per leggere un brano tratto da un altro volume dell'autobiografia, Un bambino, dove la strampalata famiglia del protagonista è descritta come una specie di famiglia circense, sempre in equilibrio su una fune.