martedì 26 aprile 2011

Legger con Ugo Cornia - 20 aprile 2011 - W o Il ricordo d'infanzia

Quante storie sono contenute in W o il ricordo d’infanzia? Ci sono l’incontro di Gaspard Winckler all’Hotel Berghof, i ricordi d’infanzia dell’autore, la descrizione della società W. Considerata indipendentemente, nessuna di queste è una vera e propria “storia”: la vicenda di Gaspard Winckler s’interrompe quando dovrebbe cominciare, alla partenza per W; la descrizione della società W è una sorta di saggio; i ricordi d’infanzia sono frammenti tra loro scollegati. Qual è il tratto d’unione intorno a cui si intrecciano questi testi?

“W” è il titolo di una storia scritta dal protagonista nel corso della sua infanzia. Questa storia descrive le caratteristiche di un regime sportivo in un’isola della Terra del Fuoco. Analogamente a molti dispotismi storici, anche a W sembra essere in vigore la supremazia del più forte. In realtà, la vita su W è più che altro regolata dal caso: gli atleti devono infatti fronteggiare una vasta serie di ostacoli arbitrari e casuali, che rendono l’esito delle sfide imprevedibile anche quando le forze in gioco sono impari. La supremazia del più forte è in definitiva soltanto un’illusione destinata a sfociare nel disincanto, come la maggior parte delle utopie, sia infantili che adulte.

All’inizio, l’autore afferma di non avere ricordi d’infanzia. Il viaggio a W consiste quindi in un loro recupero. Quasi tutti i ricordi d’infanzia sono “corretti” da una lunga serie di note e di ricordi posteriori, che rivelano come i loro contenuti non corrispondano quasi mai all’effettivo svolgimento degli eventi. Questo significa forse che quei ricordi d’infanzia fossero falsi? No, perché un ricordo non può mai essere vero o falso; può semmai essere perduto o posseduto. Il recupero della memoria, che sia della realtà o dell’immaginazione, è ciò che conferisce senso a questo libro.

venerdì 22 aprile 2011

Un libro, un film - verso 'Quel che resta del giorno' di Kazuo Ishiguro

Stevens è convinto in cuor suo di aver servito l’umanità consacrando la vita al servizio di un grande uomo. A Darlington Hall, lussuosa dimora dell’impeccabile Lord Darlington, è davvero passata la Storia.

Ma nel corso di un viaggio solitario, spostando lo sguardo su orizzonti inediti, Stevens rivede sotto una luce nuova e struggente non solo il proprio passato ma anche il tragico epilogo della guerra per il suo paese e per l’Europa intera.

Le ragioni del viaggio appaiono da prima agli occhi di Stevens esclusivamente professionali (riportare a Darlington Hall Miss Kenton, la governante che in altri tempi prestò servizio nella prestigiosa dimora inglese). Ma il suo andare altrove non sarà che un tentativo di illuminare, prima che sia troppo tardi, “quel che resta del giorno”, metafora di un momento della vita in cui la comprensione tardiva e la ricerca affannosa di qualcosa perduto per strada si tramuta in tormento o in resa.

Ma cosa è perduto? Kazuo Ishiguro sceglie la figura del maggiordomo Stevens e dunque di un servitore, per raccontare una vicenda che si dipana all’ombra degli aventi della grande Storia. Ma un servitore di quale causa? Di una sua personale (e felice) causa per cui lottare è cosa giusta? Per una causa ideale, personale e universale insieme, che nobilita i gesti del servire?

È difficile dirlo e addirittura comprenderlo perché la realtà è deformata se la si guarda riflessa dagli argenti di Darlington Hall, ossessivamente lucidati, e rischia di perdere di verità sotto il peso delle convenzioni formali. Tanto da divenire essa stessa forma e non contenuto, vuoto rituale e non ragione e non sentimento. Cosa resta del cuore più autentico, cosa resta dell’ideale più alto, cosa resta della nostra stessa vita se (chissà perché e in quale punto della strada) si perde la via. È possibile ripartire da lì, dove ci si è lasciati confondere?

Resta infine un profondo rimpianto, una coscienza ferita che (chissà) proprio grazie a quella stessa ferita si rende più vigile, più vulnerabile al fresco della sera, più sensibile alla luce del crepuscolo. E resta in questo caso un grande romanzo.

Elena Bellei, conduttrice del GdL 'Un libro, un film'

lunedì 18 aprile 2011

Il salotto del martedì - 12 aprile 2011 - "Giorni d'amore e inganno"




Le impressioni che ci comunichiamo sul romanzo di Alicia Giménez- Bartlett sono, inizialmente, un po' freddine. Dopo aver affrontato Saramago, questa sembra in effetti una lettura in tono minore, qualcosa di simile ad un romanzo rosa o ad una specie di “Grande Fratello” in salsa messicana. Si sente che l'autrice è una giallista: ti vengono in mente quei polizieschi in cui il delitto è avvenuto in una stanza chiusa dall'interno. Questa dialettica dentro-fuori ci colpisce come una particolarità del libro, ambientato in un grazioso villaggio con fiori e villette, attorno al quale si raggruma una sanguigna realtà di miseria, sesso e infine sequestri e morte. È il Messico, come luogo di passioni, baratro a cui ti affacci e devi decidere se buttarti o no. Dentro il grazioso villaggio vivono quattro coppie, ognuna formata da un uomo-lavoratore (un ingegnere impegnato nella costruzione di una diga) e dalla moglie, che ovviamente non ha un'occupazione retribuita, a parte il compito di aspettare pazientemente per tutta la settimana il ritorno del guerriero. È una situazione artificiale, del tutto diversa dalla realtà in cui le coppie precedentemente vivevano. All'inizio tutto fila normalmente, una noia mortale. Ma ecco che, all'improvviso, un uomo e una donna, non sposati tra di loro, escono dal recinto, ed è tutto. Scoppia, del tutto immotivata, una passione travolgente, che porta la rivoluzione non solo nella vita dei due, ma anche in quella degli altri abitanti del villaggio. Niente resiste alla tempesta: la coppia più collaudata sente vacillare i propri decennali convincimenti e la propria rassegnazione all'abitudine, mentre nella coppia più giovane la moglie-bambina trova finalmente la forza di ribellarsi al marito troppo protettivo e, in fondo, svalutante (“Appoggiarsi a qualcuno ti fa sentire incapace”). Non parliamo delle coppie cui appartengono gli adulteri: la moglie di lui, donna strana, divorata da un oscuro senso di fallimento, porta fino in fondo il suo percorso di autodistruzione; invece il marito di lei, uomo solido e in fondo incolpevole, si avvia verso un futuro di solitudine. Insomma, si salvano solo i due innamorati, che, noncuranti delle macerie che si lasciano alle spalle, veleggiano verso il loro sogno di felicità. E lì il Salotto si scatena, perché questo è un tema troppo coinvolgente: queste donne e questi uomini siamo noi. Ma davvero ci si può innamorare di qualcuno dopo un paio di passeggiate? Ma davvero bisogna accontentarsi di un rapporto venuto a noia, solo perché ti hanno sempre insegnato che quello è il tuo dovere? Ma davvero l'unica via d'uscita dalla noia coniugale è trovarsi un altro uomo, cioè poi, in fondo, un altro marito che magari tra qualche anno troverai noiosissimo? E insomma, chi sei tu: Paula, o Victoria, o Susy, o Manuela? Qualcuno difende la scelta coraggiosa di chi si libera da rapporti ormai logori, qualcun altro osserva che il vero coraggio è quello di chi, giorno per giorno, lotta per tener unita una famiglia. Memorabile l'osservazione di Tarcisio: tra tante donne un po' fuori di testa, il più saggio tra i personaggi del romanzo è stato il factotum Dario, che si è liberato della legittima fidanzata ed è andato a vivere in un bordello.


a cura di Matilde Morotti


[nella foto l'autrice]

mercoledì 13 aprile 2011

Leggere con Ugo Cornia - verso "W o Il ricordo dell'infanzia", di Georges Perec

Questo romanzo (non so se si debba chiamarlo romanzo, somma di romanzi, affiancamento di testi di due o tre differenti nature, eccetera, ma per comodità chiamiamolo romanzo) e come dicevamo questo romanzo ha la caratteristica, tra l’altro dichiarata nel testo, di essere scritto intorno ad un buco. Infatti un po’ prima della metà del libro c’è questo buco, fatto di alcune pagine bianche, e al centro di queste pagine bianche c’è questo segno (…). Il segno (…) sarebbe il buco. Perec spiega che al centro dei romanzi molto spesso c’è un buco e molti che si mettono a scrivere un romanzo hanno questo buco (…) che li spinge a scrivere. Ognuno avrà il suo. Quindi la prima ipotesi che si potrebbe fare sarebbe che i romanzi sono dei tentativi di descrizione di buchi, ma Perec dice che in realtà non va così, nella realtà i buchi sono indescrivibili, forse sono anche invisibili e forse noi li sentiamo ma non possiamo metterci in nessuna prospettiva che ci permetta di guardare questi buchi, Perec dice che i buchi in realtà sono produttivi e attivi, il buco non ti lascia in pace e ti obbliga a scrivere. Nel caso che stiamo analizzando, cioè questo romanzo W o il ricordo d’infanzia, che sarebbe questo unico romanzo a buco dichiarato, il buco attivo va a situarsi in questo strano intreccio di varie storie, di cui alcune più o meno apparentemente di fantasia e altre autobiografiche, e quelle autobiografiche sono poi piene anche quelle di microbuchi e di piccole falsificazioni fantastiche (in genere chiarite in un sistema di note), mentre in quelle apparentemente di fantasia possiamo trovare continuamente delle specie di travestimenti fantastici di quello che assomiglia alla vita vera di Perec e alla sua difficoltà di ricordare e alla sua volontà di dire che non aveva ricordi di infanzia. Perché? Quindi? Non so che cosa dire e mi verrebbe da dire che quello che Perec era in grado di dire l’ha detto in modo meraviglioso con questo romanzo.
Ugo Cornia

giovedì 7 aprile 2011

Il salotto del martedì - verso "Giorni d'amore e inganno", di Alicia Giménez-Bartlett


Nota in Italia come la “Camilleri spagnola”, Alicia Giménez-Bartlett è autrice di numerosi gialli imperniati sul personaggio dell'ispettrice di polizia Petra Delicado, ma anche di romanzi psicologici che col giallo non hanno molto a che vedere. Tanto per fare un esempio, uno dei suoi libri più apprezzati è un ritratto di Virginia Woolf vista dalla sua cuoca (Una stanza tutta per gli altri). Questo Giorni d'amore e inganno (Sellerio 2008) non è un giallo, ma ricorda un po' quei racconti polizieschi che prendono lo spunto da un delitto compiuto in una stanza chiusa dall'interno. Qui non c'è un delitto, ma un amore irregolare che improvvisamente esplode in un ambiente claustrofobico, dove quattro coppie sono costrette ad una convivenza forzata. Siamo in Messico, nel villaggio in cui vivono, chiuse nel loro dorato isolamento, le mogli degli ingegneri che lavorano ad un grande cantiere. Una di loro, la più banale e insospettabile, ha una relazione col marito di un'altra e... È come se l'autrice buttasse un sasso in una palude e stesse a vedere i cerchi che si allargano sempre di più. Il pretesto della “situazione obbligata” permette di delineare i caratteri e i comportamenti dei personaggi amplificandone difetti e virtù, ma suscita anche in noi lettori dubbi ed interrogativi. Si può rivoluzionare la propria vita in nome di un'improvvisa ed inaspettata passione? Quanto contano l'abitudine e il conformismo nel far durare un matrimonio? E che cos'è l'amore, che cos'è il matrimonio? E quante sono le vie d'uscita dalla noia?

Un romanzo forte, inquietante, volutamente fuori dagli schemi.


a cura di Matilde Morotti

martedì 5 aprile 2011

Leggere con Ugo Cornia- 30 marzo 2011 - Da un castello all'altro

La lettura di questo romanzo, primo di una serie pubblicata in Italia con il titolo Trilogia del Nord, ha diviso il gruppo dei lettori: da una parte quanti hanno trovato ostica la lettura e non sono riusciti a completarla e dall'altra quanti hanno scoperto un autore ed un'opera che li ha interessati ed affascinati.

Un primo tema di discussione sono stati la lingua e lo stile di Céline. Come afferma il suo traduttore, Gianni Celati, si tratta di opere scritte in un francese piuttosto inusuale (un misto di parlate parigine dette 'argot') che ha comportato non pochi problemi di traduzione (Celati si era addirittura costruito un proprio 'dizionario' per lavorare sulle queste opere).
Caratteristica, invece, dello stile è l'interruzione delle frasi con i tre puntini di sospensione: una frantumazione del pensiero che ha reso difficoltosa la lettura ad alcuni, ma che, come evidenzia Ugo Cornia, è un efficace espediente per cambiare la prospettiva della narrazione in modo da espandere e mutare continuamente le scene ed i ricordi consegnati al lettore.

Il testo di Céline è un'invettiva contro il potere ed una denuncia delle difficoltà che l'anziano medico è costretto a sopportare quotidianamente, ma è anche una narrazione capace di creare i piccoli ritratti di personaggi e di incorniciare immagini che restano vivide nella mente del lettore. E' il caso degli animali che si dimostrano superiori rispetto all'uomo in numerose circostanze e così mentre nell'uomo "la testa è una specie di officina che funziona mica così bene come uno vuole" (p.143) i gatti dimostrano un notevole senso di orientamento anche in ambienti molto dispersivi "che Bèbert era a casa sua nel castello immenso da sopra le torrette sino alle cantine...s'incontravano Lili lui da un corridoio all'altro” (p.143). Né si può dimenticare "Bessy, la mia cagna, più tardi, nei boschi, in Danimarca...se la svignava...io la chiamavo...dài!...non sentiva!...era in fuga..." una fuga perenne fino a quando, quasi senza lamentarsi, con il muso rivolto a nord, verso la Danimarca, era morta "e in posizione veramente molto bella, come in pieno slancio, in fuga...ma sul fianco, prostata, sfinita...il naso verso le sue foreste da fuga, lassù da dove veniva, dove aveva sofferto...Dio sa!?" (p.145).

Non potevano mancare momenti di riflessione sulla guerra e sulle sue conseguenze: dall'immagine dell'esercito che dovrebbe rappresentare il potere nella sua massima forma di organizzazione e che invece si rivela nella sua pochezza ed inconsistenza, fino al ricordo che il “Ppf era il partito che reclutava di più, l'effetto delle vetrine e delle panche...se avesse dato da mangiare, in aggiunta, l'infima gavetta, avrebbe reclutato tutto il paese, compresi i crucchi...civili e marmittoni!...a un certo punto delle cose degli avvenimenti resta più che un trucco: sedersi dove si mangia...ah, poi anche i francobolli! Vi scordavo! Cercare dei francobolli, collezionare!...tutti gli uffici postali che ho visto attraverso la Germania, mica soltanto Siegmaringen, le città più grandi, i più piccoli villaggi, erano sempre gremiti di clienti, e agli sportelli delle “collezioni”...delle code e delle code, a collezionare francobolli di Hitler, tutti i prezzi!” (p.300)

La discussione si è da qui spostata su una questione interpretativa e di lettura più generale: in quale considerazione si deve tenere il proprio giudizio morale sull'autore quando si legge un libro?

Nella introduzione Gianni Celati scrive:
“Louis-Ferdinand Céline (1894-1961) è uno dei grandi innovatori letterari del suo secolo […] Più che altro è noto per un'infamante reputazione politica” ed è quindi lecito interpretare i suoi libri partendo dal suo essere stato nazista ed antisemita?
La sua scrittura è forse un modo per riscattare le sue responsabilità umane e politiche di 'convinto nazista' oppure è la semplice riflessione di un medico dal volto umano che è stato una vittima della storia?

Tra i lettori presenti sono emerse entrambe le possibili letture, ma ci ha convinti l'idea di Cornia che il valore di un libro prescinde dal suo autore e che quindi per apprezzare la lettura di un'opera è indispensabile scindere la potenza della scrittura dalle considerazioni etiche sulla vita e sulle scelte politiche dell'autore. Tenendo conto di questa prospettiva Céline è un artista che con il suo sguardo ironico unisce comico e tragico e ci propone una lettura lucida del '900.