venerdì 30 novembre 2012


Sotto lo stesso tetto – 24 novembre – La strega di mezzogiorno, Julia Franck
Dialogare con una strega per un’ora al giorno è l’unico rimedio per curare quell’incessante tormento dell’anima che induce Selma Würsich a vivere un’esistenza solitaria e a estraniarsi psicologicamente ed emotivamente dal marito e dalle figlie Martha e Helene. A sostenerlo è  la domestica Mariechen, una donna di origine slava che accudisce la madre e le figlie. Siamo all’inizio del Novecento nella Germania orientale, più precisamente nell'alta Lusazia, una regione della Sassonia. Sono proprio le parole di Mariechen a suggerire a Matteo Galli, il conduttore del secondo incontro letterario Sotto lo stesso tetto, l’interpretazione del titolo dell’opera da lui stesso tradotta: Strega appunto e non Donna di mezzogiorno come invece sarebbe il titolo originale. Questo sconfinare dell’essere umano nell’irrazionalità e nel pregiudizio sembra essere alla base della storia familiare raccontata dall’autrice Julia Franck.
Che spiegazione dare a certi comportamenti familiari? Come giustificare l’atteggiamento di Selma nei confronti delle figlie da cui sin dalla tenera età pretende solo obbedienza, disciplina e massimo impegno? Può essere un insieme di circostanze – la perdita dei figli maschi, la guerra, l’appartenenza a una religione diversa – la causa degli scompensi emotivi della madre? Martha e Helene non sanno dare una spiegazione razionale ai misteri della vita, ma cercano piuttosto di cogliere le opportunità concrete che essa offre quando la zia Fanny, una cugina della madre, le invita a trascorrere un lungo periodo a Berlino. Il trasferimento nella capitale, nei ruggenti anni Venti, segna l’inizio di una fase più spensierata e stimolante della loro esistenza sebbene non priva di preoccupazioni e difficoltà.
L’incontro casuale con Carl, un giovane e promettente studioso di filosofia, infonderà in Helene un sentimento di profonda felicità facendole credere per un istante che la vita stia volgendo al meglio. Ma la prospettiva di una vita migliore, animata da valori e progetti comuni, svanirà con la morte improvvisa di Carl, vittima di un tragico incidente stradale. Da quel momento in poi l’esistenza di Helene non sarà altro che un sopravvivere senza senso proprio come i pazienti che assiste presso un ospedale della città. La condizione di Helene, in parte ebrea, si aggraverà in seguito all'affermarsi del nazionalsocialismo che imporrà leggi antisemite. Se vorrà sopravvivere dovrà scomparire, fingersi ciò che non è. A quel punto, come per un soccorso provvidenziale, entrerà in scena l’ingegnere ariano Wilhelm che alla bionda Helene dagli occhi azzurri offrirà il ruolo di moglie e un nome, Alice Sehmisch.      
Ma Alice è soltanto una maschera innocente di Helene, già contaminata da altri. Quando Wilhelm nella prima notte di matrimonio scopre che Alice non è più vergine scatta in lui la voglia feroce di vendetta. Alice/Helene diventa ai suoi occhi un essere impuro, subordinato e sottomesso a cui è consentito solo obbedire. Da questo rapporto infelice nascerà un bambino, Peter, che successivamente, alla fine della seconda guerra mondiale, Alice/Helene, in fuga da Stettino occupata dai Sovietici, abbandonerà in una stazione ferroviaria. 
Cosa porta Alice/Helene a compiere un gesto così estremo? Un atto di autopreservazione, un desiderio di libertà o una scelta di amore per un figlio a cui non può dare ciò di cui ha bisogno? Il suo comportamento non è forse congenito alla sua famiglia di origine, iscritto in quel complesso patrimonio genetico che Helene porta con sé? 
Le risposte sono da ricercarsi in un intricato gioco di riflessioni che la Franck così sapientemente ci propone in questo affascinante libro vincitore del prestigioso premio Deutscher Buchpreis. 
 

martedì 13 novembre 2012

Il salotto del martedì - 6 novembre 2012 - Vergogna, J. M. Coetzee

Libro complesso nella sua apparente semplicità espressiva, questo Vergogna di J. M. Coetzee (Einaudi 2000), sudafricano che scrive in inglese, vincitore nel 2003 del Nobel per la letteratura.
La storia, all'inizio, è un po' banale: ci viene presentato il professor Lurie, titolare di una cattedra di Scienze delle comunicazione nella razionalizzata Cape Technical University. Gli lasciano tenere, quasi per benigna concessione, un corso all'anno sui suoi prediletti poeti romantici, ma è evidente la sua sfasatura culturale rispetto agli studenti e a tutto il mondo che lo circonda, cioè il nuovo Sudafrica post apartheid.
David Lurie ha superato la cinquantina ed è un uomo senza emozioni; reduce da una vita che lo ha deluso, anche sul piano sentimentale (è due volte divorziato), ha trovato un suo equilibrio nei tranquilli rapporti con una prostituta e si è adattato ad una “felicità” senza echi.
Su quest'uomo senza qualità piomba improvvisamente la disgrazia, sotto forma di sconvolgente impulso erotico verso una ragazzina neanche tanto speciale: una studentessa qualunque (ci chiediamo se sia nera, come il nome Melanie potrebbe lasciar indovinare).
Qualcuno osserva che il titolo originale, tradotto in italiano con Vergogna, è in realtà, significativamente, Disgrace, il che allude allo stato di disgrazia collegato alla catena colpa-vergogna-pentimento-espiazione-redenzione.
J. M. Coetzee
Dunque David commette una colpa di natura sessuale, avendo abusato di una ragazza che potrebbe essere sua figlia; in realtà non è stato un vero e proprio stupro, ma di certo il professore più anziano ha usato in modo improprio del suo potere maschile-paterno. Di questo, però, non si pente e non chiede scusa, finché una nuova e molto più grave violenza non manda in pezzi la sua vita. Rifugiatosi presso la figlia Lucy, una specie di hippy che alleva cani in una fattoria, David deve subire l'assalto di tre uomini (il gruppo etnico di appartenenza non è mai detto esplicitamente, in Coetzee) che stuprano la ragazza e gli danno fuoco. Da quel momento, David scende sempre più in basso nella scala sociale; ora è lui l' “uomo dei cani”, in una specie di nemesi storica che, rovesciando i rapporti bianco-nero, pone le basi per un nuovo mondo tutto da ricreare. Nella rigenerazione del protagonista, che in effetti alla fine del libro è un uomo completamente diverso dall'inizio, sembra avere un ruolo importantissimo la pietas verso gli animali destinati alla morte.
Con un amore in cui alcuni di noi non riescono a non sentire echi quasi francescani, David accompagna al loro destino, confortandoli, i “fratelli cani:” i vecchi, i ciechi, gli zoppi, gli storpi, i mutilati...”.
Ci interroghiamo a lungo sul senso del romanzo, soprattutto sulla “colpa” di David e sui motivi per cui Lucy, che scopriamo essere incinta in seguito alla violenza, tace e non denuncia gli aggressori. Ci sembrano illuminanti le parole della ragazza al padre, che le chiede se vuole già bene al bambino, “figlio di questa terra”. “Al bambino? No. Come potrei. Ma gliene vorrò... intendo diventare una brava mamma, David. Una brava mamma e una brava persona”. Forse Lucy vuole contribuire al difficile processo di riconciliazione, che in Sudafrica porta con sé strascichi di violenza, incomprensione, vendetta. Ecco perché non denuncia gli aggressori; e anche perché ama incondizionatamente quel luogo e quella vita e vuole viver proprio lì, a qualunque prezzo.
Una delle ultime scene ce la presenta inaspettatamente bella come in un quadro impressionista, una giovane madre baciata dal sole, tra i fiori, le api, i colori e i profumi di una terra antichissima e appena nata.
Si potrebbe discutere quasi all'infinito, tanti sono i temi, dal rapporto campagna-città alla paternità, alla storia, alla creazione artistica, all'eutanasia. Ci lasciamo con l'impressione di aver affrontato un testo duro, ma significativo come pochi.

Matilde Morotti

lunedì 5 novembre 2012

Sotto lo stesso tetto - 27 ottobre 2012 - Lettera al padre, Franz Kafka

A chi più, a chi meno, un fatto è certo: i rapporti familiari e i conflitti che prima o poi ne derivano coinvolgono tutti, indipendentemente dall’età, sesso, nazionalità, religione, estrazione sociale, epoca o paese in cui si vive. La lettura dell’opera Lettera al padre scritta dal celebre autore boemo di lingua tedesca, Franz Kafka (Praga 1883 – Kierling 1924), ci porta al cuore del difficile e irrisolto rapporto tra padri e figli, in un labirinto di accuse e controaccuse, di fraintendimenti e incomprensioni, di rimproveri e rancori mai superati.
Ma il testo di Kafka è l’espressione di un’esperienza autentica, drammaticamente vera o una rappresentazione letteraria ben riuscita? È possibile leggere questo testo in chiave ironica o solo drammatica? Cesare Giacobazzi, docente di lingua e letteratura tedesca all’Università di Modena e conduttore del primo degli incontri di lettura Sotto lo stesso tetto, ha suggerito diverse possibilità interpretative dell’opera, che sono state espresse poi a voce con la lettura di alcuni brani da parte di Lino Guanciale, attore della compagnia del Ratto d’Europa. Già dalle prime righe la lettera di Kafka appare come un tentativo del figlio di spiegare le ragioni del proprio fallimento esistenziale, di non essersi sposato, di non aver creato lui stesso una famiglia che gli avrebbe consentito di emanciparsi dalla figura paterna. Kafka individua le cause di questo insuccesso personale e familiare nei metodi educativi troppo rigidi e severi di un padre che non ha saputo dominare il proprio carattere e avvicinarsi con sincerità e affetto ai suoi figli. A prova di ciò Kafka ricorda in particolare un episodio della prima infanzia in cui l’atteggiamento di rifiuto e repressione da parte del padre sarebbe stato determinante e decisivo per la formazione del suo carattere debole e pauroso. Le successive esperienze di inesistente confronto e dialogo, di mancato sostegno e ascolto avrebbero rafforzato in lui il sentimento di insicurezza e soffocato ogni possibilità di distacco impedendogli di assumere un ruolo attivo nella vita. Siamo di fronte a un figlio davvero traumatizzato o a un parassita che vive sulle spalle del padre?
Ammesso che si tratti di una testimonianza reale, drammatica e sofferta, di chi sarebbe la colpa, del padre o del figlio? E se invece Franz non fosse altro che un figlio viziato, non abituato a prendersi la responsabilità delle proprie azioni e comportamenti? E quale invece è il ruolo della madre nelle vicende familiari? Gli interrogativi relativi a questa lettera, scritta nel 1919 e mai consegnata al padre, sembrano essere molteplici e di non facile risposta. Alle varie proposte e suggerimenti di lettura hanno corrisposto i commenti e gli interventi di un pubblico profondamente interessato e coinvolto nonché diversificato per età e approcci interpretativi.




lunedì 8 ottobre 2012

Il salotto del martedì - 2 ottobre 2012 - Il mondo di Atene, di Luciano Canfora

Luciano Canfora, Il mondo di Atene, Laterza 2011


Approfittando dei tempi più lunghi e rilassati, garantiti dalle ferie roventi di quest'estate, alcuni di noi hanno affrontato un testo molto impegnativo, Il mondo di Atene, di Luciano Canfora.
L'autore è noto: un filologo classico, professore a Bari, celebre sia per il rigore con cui padroneggia il mare sterminato delle sue fonti, sia per la vis polemica con cui di tanto in tanto anima il dibattito pubblico italiano. Ora, se c'è un argomento che in questi mesi è stato al centro delle nostre discussioni, questo è il destino della Grecia, e con esso una serie di concetti variamente interpretabili, da uno svuotamento della democrazia attraverso una sovranità limitata fino al ruolo delle competenze e al predominio delle élites tecnocratiche. Insomma, mai come oggi ci si è interrogati su quale sia la vera natura della democrazia.
Luciano Canfora, con questo libro, dà alla questione un taglio originale e stimolante, smontando i miti sorti attorno a questo sistema politico e alle sue origini storiche.
Si parte dal luogo comune che (sulla base del celebre epitaffio di Pericle) fa di Atene la culla della democrazia, scuola della Grecia e di tutto il mondo. Ma quale democrazia? In realtà i cittadini ateniesi, escludendo le donne, gli stranieri e gli schiavi, erano 20.000 su 350.000; tutti, tra l'altro, parassiti stipendiati dallo stato, che campavano a spese del tributo versato dagli alleati. Come diceva Max Weber, la democrazia ateniese altro non era che una gilda che si spartiva il bottino. Quindi quello che stato così idealizzato era un sistema basato sul controllo imperialistico delle altre città, punite in modo crudelissimo se per caso venivano meno ai doveri dell'alleanza, come dimostra il terribile episodio della strage dei Melii.
Luciano Canfora
E poi l'ostracismo, il controllo della cultura, la condanna a morte di Socrate: come si fa a parlare di libertà? Eppure Canfora riesce, in questa sua appassionata rievocazione del secolo breve che va dal 480 al 399 a. C. a dimostrare che il mito della democrazia ateniese ha una sua validità storica oggettiva e costituisce un esempio fecondo anche per società più complesse.
La nostra discussione verte dunque sul paradosso di questa città, in cui la democrazia e l'impero riuscirono a convivere. Tenendo sempre presente l'abisso che intercorre tra una democrazia diretta come quella ateniese e i nostri sistemi rappresentativi, ci siamo chiesti quanto di quell'antica esperienza serva ancor oggi a chiarirci le problematiche odierne. Anche oggi, nota qualcuno, ha un ruolo centrale l'esaltazione della competenza e questo ci ricorda che ad Atene, nel V° secolo, si verificò questo miracolo: era ben salda al comando un'élite, ma essa accettò la sfida del confronto quotidiano con l'assemblea e, non sottraendosi alla fatica di cercare e costruire il consenso, gettò le basi di un modello politico destinato a durare nei millenni. 

Matilde Morotti 

martedì 2 ottobre 2012

Gruppi di lettura 2012-2013

Due i gruppi di lettura ospitati quest'anno dalla Biblioteca Delfini: "Sotto lo stesso tetto. La famiglia nella letteratura tedesca contemporanea" e il "Salotto del martedì".


Il primo è organizzato in collaborazione con l'Associazione culturale italo-tedesca. Il gruppo si riunisce il sabato pomeriggio dalle ore 15 alle 17, una volta al mese per il periodo che va da ottobre 2012 ad aprile 2013.
La partecipazione, anche a singoli incontri, è libera e non occorre prenotazione, ma è richiesta la lettura preventiva ed individuale dei libri in discussione.


Prosegue poi la collaborazione con l'Associazione culturale di volontariato 'Natalia Ginzburg', con gli appuntamenti del "Salotto del martedì".
Il gruppo si incontra il martedì dalle 16 alle 18, con cadenza mensile da ottobre 2012 a maggio 2013. Per la partecipazione a questo gruppo è prevista l'iscrizione all'Associazione. Ci si può iscrivere al gruppo o direttamente agli incontri o in sede.
Info: http://www.universitaginzburg-mo.net/

La presentazione dei due corsi, il calendario degli incontri e i libri proposti dai due gruppi si possono leggere sulla colonna di destra. Dopo ogni incontro verrà pubblicata sul blog, a cura dei conduttori e dei partecipanti, una scheda riassuntiva che presenta il libro e dà conto degli spunti principali emersi dalla discussione.
Tutti possono aggiungere a queste schede di presentazione i propri commenti.

sabato 16 giugno 2012

Uomo e donna li creò - 9 giugno 2012 - Ave Mary

La rilettura delle Sacre Scritture svolta da Michela Murgia in Ave Mary non cerca di metterne alla prova la consistenza sintattica, né tantomeno di verificarne la plausibilità storica, ma ha l'intento, ben più "pericoloso", di sottoporle ad una serie di riflessioni che mettano in luce il ruolo subordinato e contraddittorio riservato alla donna.

Quali sono, ad esempio, le opzioni disponibili a Maria al momento dell'incontro con l'angelo? È costretta ad obbedire, o ha invece una propria autonomia da cui segue una scelta indipendente e ponderata? Anche interpretando la domanda dell'angelo come una vera richiesta, piuttosto che un'imposizione, bisognerebbe prendere atto che tutte le eventuali ragazze consultate prima di Maria sono state "censurate" e destinate all'oblio.

Un caso di esplicita disobbedienza è quello di cui si rende colpevole Eva, che viene punita in maniera esemplare. Il peccato originale diviene perciò un monito preventivo, affinché le donne rinuncino ad un desiderio di conoscenza e protagonismo che potrebbe mettere in discussione l'autorità imposta. La passività, sia che venga presentata come scelta autonoma (nel caso di Maria) o forzata (nel caso di Eva), è quindi l'unico tipo di comportamento femminile ammesso dalle Scritture.

In conclusione, le Sacre Scritture reggono oppure no alle domande di Michela Murgia? Chiaramente, le Sacre Scritture, di per sé, non sono altro che espressione e manifesto di un determinato contesto sociale; di conseguenza, quelle domande dovrebbero essere reindirizzate a chi dalle Scritture ha tratto un modello di educazione e comportamento. Sono le gravi carenze di questo modello a far sì che la riflessione sulle Sacre Scritture sia molto di più che una disputa teologica.

venerdì 8 giugno 2012

Uomo e donna li creò - verso "Ave Mary" di Michela Murgia

 Dopo il successo internazionale di Accabadora (premio Campiello 2010), la scrittrice sarda Michela Murgia pubblica con Einaudi Ave Mary, un libro che sta a metà tra il saggio di denuncia e la testimonianza intima. Tra i più letti in questo momento in Italia e già tradotto in diverse lingue, il libro nasce da un convegno che si svolse ad Austis, (un paese della Barbagia), provocatoriamente intitolato: " Donne e Chiesa: un risarcimento possibile?". Michela Murgia si muove dichiaratamente in un ambito frequentato, che l'ha vista essere "donna cristiana, animatrice parrocchiale di lungo servizio, tutto svolto nelle file dell'Azione cattolica". Ambito, (quello del simbolico religioso femminile,  frequentato anche per i suoi studi di teologia), che l'autrice ha avuto il coraggio di attraversare come un campo minato "mettendosi un paio di mutande di lamiera".
Legittimata dunque, più di altri che non hanno in curriculum il catechismo domenicale, (l’andare alla dottrina come si diceva qui) a raccontare quanto l'imprinting culturale che riceviamo da piccoli negli oratori delle parrocchie, ci condizioni, soprattutto nel rapporto tra uomini e donne, e  decisa a sostenere che se ci è stata raccontata una storia falsa è giusto tentare di correggerla. Questo libro serve allo scopo. Da cattolica illuminata si dice scarsamente interessata all'opinione ufficiale proveniente dai siti vaticani, che pure sul loro giornale l'hanno benevolmente recensita, "mi interessava l'opinione di mia zia - dice- la donna più maschilista che conosco".
Innanzitutto Maria non invecchia mai, forse neanche muore. L’avevate notato? "Nel mio paese d'origine - dice - (Cabras) dove la chiesa patronale è dedicata proprio a questa specifica raffigurazione dell'Assunta, la preghiera popolare afferma senza tentennamenti che "morta no, ma ses dormida, santamente reposende". Dormida, cioè addormentata".
Perché la Madonna non può invecchiare né tanto meno  morire? Perché la morte maschile è così ampiamente rappresentata nella cultura classica, nell’estetica cristiana, nelle raffigurazioni popolari  e più che mai nel nostro presente, e quella femminile no? Perché l’invecchiare maschile è bello e saggio e quello femminile no? L’imperativo “Non invecchiare!” (o “se invecchi non sperare di avere un briciolo di protagonismo”) in questa straordinaria operazione di marketing, cominciata con le fantasiose interpretazioni delle sacre scritture da parte dei celibatari della Chiesa, non è che a lungo andare ha condizionato le donne cattoliche e non solo quelle? Non è un caso che gli spot pubblicitari ci presentino sempre dei maschi che "invecchiano bene", "materassabili" (testuale), alla Sean Connery che ancora adesso a ottant’anni passati fanno la loro "porca figura" mentre le donne in là con l'età sono sempre alle prese con la paura che che la dentiera rimanga attaccata alla torta di noci.
E poi…Maria era una giovane donna per nulla timida, silenziosa e passiva. Interpellata dall’Angelo si prende autonomamente la sua responsabilità. Che razza di storia ci hanno raccontato? Una ragazzina di quattordici anni che si sente dire “guarda che rimarrai incinta prima di sposarti e prima di fare l’amore con tuo marito, ti va bene?” In un sistema patriarcale tribale c'era un'unica risposta a tanto scandalo: la lapidazione. Lei dice sì, un sì  libero e impegnativo, di adesione cosciente, raro anche, in un mondo (in ogni tempo e in ogni luogo)  di  "sì" femminili di sottomissione.
Madre piena di grazia, madre benedetta tra le donne,  madre inviolata, eppure tanto manipolata a uso e consumo dell’autorità, per piegare all’obbedienza tutte le donne, che a lungo andare ha perso addirittura il merito unico e sacro per cui era osannata e venerata. Rappresentata via via nei secoli senza più latte, senza più figlio, senza carne e senza colore, umiliata nella femminilità e nella sua stessa maternità cosa è rimasto di Maria? Poi c’è tutta la storia della verginità biologica, prima, durante e dopo il concepimento. Ma questa è troppo lunga da dire qui. Meglio leggere il libro.
Elena Bellei

giovedì 24 maggio 2012

Il salotto del martedì - 15 maggio 2012 - Il birraio di Preston

Andrea Camilleri, Il birraio di Preston, Sellerio

Camilleri è piaciuto a tutti, anche a chi non conosceva lo scrittore e lo riteneva solo un fortunato autore di libri d'intrattenimento. Certo, qualcuno sente la mancanza di Montalbano; però che ricchezza d'invenzione, che coralità in questo affresco siciliano fine '800.

I personaggi sono scarsamente caratterizzati, ma godibili come figurine di un'opera buffa. Buffa sì, ma venata di tragicità, perché ciò che sta dietro a questa commedia scintillante è la rappresentazione, purtroppo sempre attuale, dell'intreccio tipicamente italiano tra mafia e potere. Tra le righe leggiamo che la farsa ambientata intorno al 1870 adombra una realtà quanto mai attuale: violenza, terrorismo, omertà, legami tra politici e mafiosi. Tutto, come sempre, nascosto e negato, come dimostra l'ultimo capitolo, in cui la “realtà ufficiale” camuffa per sempre la verità, coprendola con una versione addomesticata dei fatti.

Molto particolare è sembrata la costruzione della storia, che mescola e confonde i piani temporali; questo ha disorientato qualche lettore, mentre per alcuni è stato uno stimolo a rileggere, per comprendere meglio i vari passaggi. La struttura è curata nei minimi particolari, dalla circolarità della vicenda che inizia e finisce col personaggio di Gerd, all'espediente di identificare, nell'indice, ogni capitolo con l'“incipit” di un romanzo famoso. Anche il particolare impasto linguistico non è sembrato una difficoltà insuperabile: dopo un po', ci si abitua e si riesce a capire “a senso” anche qualche espressione tipicamente siciliana, godendosi la mescolanza dei diversi dialetti come una metafora in più.

In conclusione, una lettura piacevole e stimolante, anche se non sempre facile ed immediata.

Matilde Morotti

venerdì 18 maggio 2012

Uomo e donna li creò - 12 maggio 2012 - Nemico, amico, amante...

I personaggi che popolano i nove racconti di Nemico, amico, amante... sono descritti con distacco quasi cinematografico, quando tradizionalmente ci si aspetta che da vicende " forti" emergano emozioni intense e passioni profonde. Bisogna quindi imputare ad Alice Munro un atteggiamento colpevolmente freddo, o d'altra parte lodarla per essere sfuggita a un coinvolgimento prevedibile e poco originale?

Sarebbe tuttavia un errore superficiale confondere un'emozione inespressa con un'emozione inesistente: per quanto lo stile "scientifico" di ascolto-registrazione-racconto estrometta il pathos dalla narrazione, ciò non implica in alcun modo che i sentimenti non esibiti non siano vissuti. Si potrebbe anzi sostenere che una scrittura come quella di Munro sia possibile soltanto a condizione che tutte le passioni siano state metabolizzate, e questa sorta di catarsi potrebbe addirittura essere vista come un sintomo di maggiore profondità rispetto al più tradizionale approccio "emotivo ".

Il libro di Munro potrebbe inoltre essere inquadrato in una prospettiva nord-americana, all'interno della quale le disgrazie vengono accettate senza disperazione e viene evitata, per quanto possibile, ogni forma di cerimoniosità. Un'analisi di questo tipo oltrepasserebbe però gli scopi di Nemico, amico, amante..., che si limita ad essere un esempio ben riuscito, per quanto atipico, di letteratura sulla differenza di genere.

sabato 5 maggio 2012

SPECIALE NESSUN DORMA - Verso "Luci nella notte" di Georges Simenon

In occasione della notte bianca ("Nessun dorma", 19 maggio 2012) la biblioteca Delfini sarà aperta fino a mezzanotte e ospiterà varie iniziative tra cui un "gruppo di lettura aperto", che si svolgerà in zona Holden dalle 19.30 alle 21.30, condotto dalla scrittrice e giornalista Elena Bellei.
Per chi non avesse mai partecipato a un gruppo di lettura, il "gioco" funziona così: ognuno legge il libro per conto suo, prima dell'incontro; poi ci si trova, per condividere con altri lettori i pensieri e le emozioni che la lettura ha suscitato. Elena Bellei, "maestra di gioco", introduce il libro e stimola la discussione.
La partecipazione è libera e non occorre prenotazione.
Quella che segue è una breve scheda introduttiva alla lettura, a cura di Elena Bellei.


Georges Simenon, Luci nella notte, Adelphi

La traduzione fedele di Luci nella notte (Feux Rouges) avrebbe dovuto essere per la verità “Fuochi rossi”, o “Semafori rossi”, ovvero segnali di stop, vietato passare, dare la precedenza! Molto probabilmente un deciso richiamo al giovane Steve (il protagonista) che, a causa delle sue generose bevute in compagnia di sconosciuti, perde il controllo e la bussola. Gli editori italiani (Mondadori prima e Adelphi poi) hanno preferito puntare sulla luce. Luce alla fine del tunnel. Luce/verità. Illuminazione redentrice. La luce in fondo al bosco delle fiabe che finiscono bene (cammina cammina videro una lucina…).

Feux Rouges o Luci nella notte è un romanzo breve che racconta la storia di Steve Hogan, un impiegato newyorchese che alla fine dell’estate, nel week end del Labor Day, si perde in una crisi d’esistenza. In strada, assieme a Nancy, sua moglie, per andare a riprendere i figli che hanno passato la vacanza nel Maine, Steve entra nel tunnel (così lo chiama lui), ovvero è uno di quei giorni che proprio non ce la fa a smettere di bere, evade letteralmente dalla realtà, si dimentica del presente e del suo stesso corpo e manda, a noi lettori, segnali di completo sfacelo. La storia (tutto succede nell’arco di una notte) è costruita con ritmo e convinzione. Dubbi, crisi, liti, la soggezione di Steve nei confronti della moglie (lei si direbbe una “donna tosta”), lui che butta giù parecchi bicchieri nei bar, strada facendo, la decisione di lei di non volerne più sapere, la decisione di lei di proseguire a piedi, l’incontro di Steve con un uomo (l’evaso vero, l’evaso da Sing Sing, non solo dalle responsabilità della vita)... tutto evoca scenari di tragedia incombente, non certo l’epilogo di una giornata storta. Poi il buio, i colpi di scena, la violenza e infine il risveglio. L’evaso è rinchiuso, così come tutto ciò che rischiava di scappare al controllo della coscienza. Ma non pare una resa. Perché la tensione che monta lungo tutta la storia, prima in modo sottile poi sempre più intensa, ci dà la misura della paura, del rischio e della pena che fa evolvere la situazione e anche il legame tra i due. Mentre noi lettori abbiamo fatto un bel viaggio dentro la vera letteratura.

Elena Bellei




Il salotto del martedì - verso "Il birrario di Preston" di Andrea Camilleri

Camilleri, senza Montalbano. Il birraio di Preston (Sellerio, 1995) fa parte della serie di romanzi con cui l'autore siciliano esplora il genere storico, utilizzando le notizie ricavate da un'inchiesta parlamentare sulle condizioni sociali ed economiche della Sicilia ottocentesca.

Lo spunto nasce quindi da un fatto reale, l'insurrezione popolare di fronte alla pretesa di un prefetto fiorentino di far rappresentare a Caltanissetta, a una quindicina d'anni dall'unificazione, lo sconosciuto melodramma Il birraio di Preston. Da questo episodio l'autore è partito per costruire (usando le sue parole) “una ragnatela a rovescio”.

Dice Camilleri in un'intervista: “Io parto dal punto centrale e da questo nasce una serie di diramazioni che finiscono col formare il romanzo. Ora non è detto che quello che io ho cominciato a scrivere sia il nucleo centrale del libro, può darsi che scrivendo si sposti, non sia più tanto centrale”.

Un metodo compositivo tutto particolare, per cui la voce narrante insegue il vorticare dei personaggi e degli eventi e il lettore può, a piacere, cambiare l'ordine di successione dei vari capitoli, creandosi un libro tutto suo. Ne deriva una molteplicità di punti di vista, che mima l'inafferrabile volto del reale e ne cattura l'aspetto variopinto e teatrale (non a caso il romanzo è stato ridotto e adattato per la scena). Una composizione complessa, ma estremamente godibile, tenuta insieme da tematiche tipiche di Camilleri: il motivo pirandelliano dello scambio (come nella Biografia del figlio scambiato), l'amara coscienza dell'immutabilità delle cose, la dicotomia tra la verità ufficiale, spesso abilmente “accomodata”, e quella effettiva.

Il tutto reso con un impasto linguistico originalissimo, in cui l'incontro-scontro tra l'italiano e i vari dialetti sembra simboleggiare le incomprensioni tra regioni diverse, agli albori dell'Unità.

Matilde Morotti

venerdì 4 maggio 2012

Uomo e donna lì creò - verso "Nemico, amico, amante..." di Alice Munro

Alice Munro, considerata la più grande scrittrice contemporanea del Nord America, nasce nel 31 in Ontario, Canada. Suo padre è allevatore di volpi e di polli e la madre insegnante. Comincia a scrivere quando è adolescente e pubblica la sua prima novella (La dimensione di un’ombra) ai tempi dell’università, quando lavora come cameriera. Nel 1951 lascia l’università per sposare James Munro, padre delle sue tre figlie. La sua prima collezione di racconti è del 68: La danza delle ombre felici, che la fa conoscere e le fa vincere il premio letterario Governor General’s Award. Il successo si ripete nel '71 con i racconti Vite di ragazze e donne. Con Chi ti credi di essere? pubblicato nel 78, vince di nuovo il Governor General’s Award. 

Molte delle sue storie sono ambientate nella Contea di Huron nell’Ontario e in molti casi i riferimenti familiari sono evidenti. Il racconto Maschi e femmine, per esempio, si apre con la minuziosa descrizione di come il padre della protagonista, uccida le volpi argentate che alleva. Le volpi si nutrono di carne di cavallo, che viene dalla macellazione dei cavalli vecchi. La protagonista assiste col fratello all’uccisione di un cavallo maschio e quando sarà il turno della femmina, l’aiuterà a fuggire. La ragazzina meriterebbe una punizione esemplare ma viene assolta con un commento del padre: - Lascia perdere, è soltanto una femmina. La condizione femminile, la visione del mondo da parte delle donne, e la loro reazione agli accadimenti della vita sono l’oggetto di osservazione più frequente. La Munro cattura l’essenza dei suoi protagonisti, ma i personaggi femminili sono più complessi, spesso in conflitto fra il desiderio d’indipendenza e i legami familiari, tra creatività e doveri, turbate spesso da una sessualità inquieta.  

Altro tema caro alla Munro è la relazione tra madre e figlia, la ricchezza e la difficoltà (o la distruttività) dalla relazione, e la ricerca attraverso la scrittura di quella ciclicità nell’avvicinamento e nell’allontanamento alla madre, come una spirale che non si esaurisce, e che ogni donna eredita e lascia in eredità alle altre (Il sogno di mia madre). Un argomento indagato nel suo lavoro è il passare degli anni delle giovani donne in condizioni anguste imposte dalla famiglia e dalle piccole città. In Odio, amore e matrimonio e In fuga, Alice Munro sposta la sua attenzione verso i disagi e i conflitti della mezza età e della vecchiaia, in un gioco di rivelazioni/illuminazioni che, a un certo punto della vita, danno senso a un evento, e rivelano tutte le ambiguità dell’esistenza, tragedia e ironia, malattia e resistenza, in uno stile che mescola ordinario e  fantastico.

 Nemico, amico, amante…  è una raccolta di nove storie che si snodano in altrettanti mondi familiari. Madri, padri, sorelle, nonne, matrigne osservate attraverso un’esclusiva prospettiva femminile. Il titolo si riferisce al gioco di due adolescenti che scrivono il proprio nome vicino a quello di un ragazzo, eliminano tutte le lettere comuni e poi fanno una conta delle lettere che restano…nemico, amico, amante, marito (una specie di gioco della margherita) che porta a un “verdetto”. Sono storie di un mondo normale, fatto di buon senso e buone maniere, in cui fa irruzione lo straordinario (ma in molti casi non è raro che capiti il contrario) e dove risulta fondamentale il gusto del dettaglio e dell’osservazione minuziosa del protagonista e del contesto (l’arredo, i vestiti, la carnagione, le rughe…). Un’analisi empatica delle emozioni dei suoi protagonisti  disegnano, già ad una prima lettura, una netta differenza tra i generi, sia nel suo punto di vista d’artista, nel suo guardare il mondo (e dunque la letteratura), sia nell’agire dei suoi personaggi.. Nell’ironia del primo racconto, per esempio, è la commessa che, dopo aver trovato alla cliente il vestito giusto per l’occasione, dice: "…è quanto basta per giustificare la mia esistenza". Spiazzante la scena del marito che, questionando (a torto) il comportamento della moglie, le si avvicina con un sorriso, non per baciarla come lei crede, ma per stringerle le mani intorno al collo. Il mondo dell'ordinario e dello straordinario appare anche nel racconto Post and Beam. Un giorno in casa di Lorna, felicemente sposata, arriva la cugina Polly, bella, nubile, e felice. Ma nei suoi occhi c’è angoscia quando rimane sola, mentre Lorna va con la famiglia alla festa di un matrimonio. Nella via del ritorno Lorna ricorda gli occhi angosciati di Polly e immagina la porta di casa ostruita dal corpo della cugina impiccata. Lorna per scongiurare la tragedia fa un patto (non si sa con chi), e offre qualsiasi cosa di sé, eccetto i figli. Altri colpi di scena lasceranno il racconto sospeso anche dopo la fine. Preciso e divertente il primo racconto, quello che dà il titolo alla raccolta, Nemico, amico, amante... La cameriera Johanna è indotta a credere che Ken sia innamorato di lei, attraverso uno scherzo crudele di corrispondenza falsa, macchinato da due ragazzine. Johanna si lascia convincere, si illude, compra un vestito, imballa e spedisce i mobili di casa e parte per raggiungere Ken. Arrivata a destinazione, scena dopo scena, in un ritmo animato e pressante, la donna prende il controllo dell'uomo. Ci sono altre storie intrecciate di eventi normali e speciali. Un bacio imprevisto,  l’avventura di un giorno, la scomparsa di una giovane donna da casa, la malattia mentale, divorzi e nuovi matrimoni, un suicidio e l'approssimarsi della morte, vissuta come vertigine emotiva, “il senso di un’ orrida caduta e eccitazione”.

(Per chi volesse saperne di più vale la pena andarsi a cercare in rete gli atti del convegno La casa di parole organizzato dal Forum Lou Salomé - donne psicoanaliste in rete, del novembre 2077, interamente dedicato alla Munro).

Elena Bellei

venerdì 27 aprile 2012

Il salotto del martedì - 14 aprile 2012 - La lingua perduta delle gru

David Leavitt, La lingua perduta delle gru, Mondadori
Un romanzo così intenso e realistico non può non aver suscitato qualche reazione negativa, a causa soprattutto del verismo di alcuni dettagli di natura sessuale. Non tutti, però, hanno giudicato eccessiva o gratuita l'insistenza su certi particolari: non è sfuggita la sofferenza autentica che percorre queste vite, disgregate da una rivelazione per tanti versi inevitabile e attesa. Ma quanta ipocrisia, quanto inganno ed autoinganno, prima di fare i conti con la verità.
Come ha potuto Rose nascondere a se stessa per tanti anni il vuoto della vita che andava spalmando di menzogna e di silenzio, con la stessa cura con cui copriva di lucida glassa le sue torte? Eppure ha chiuso gli occhi, perché poi dove sta scritto che dire la verità semplifichi le cose? Come dice al marito: “Per me la cosa vera sei sempre stato tu”.
Invece il figlio Philip, che appartiene ad una generazione diversa, ha trovato il coraggio di parlare; così pure il marito, anche se straziato dal senso di colpa, non può fare a meno di vivere fino in fondo le sue tendenze omosessuali.
Il vero argomento del libro non sembra essere, comunque, tanto l'omosessualità, quanto la comunicazione tra esseri umani chiusi in quell'entità misteriosa chiamata “famiglia”: un romanzo sulle parole e su come le parole si organizzano in una lingua che non sempre è quella convenzionale, che tutti capiscono. Forse Leavitt vuole dirci che occorre trovare “le parole per dirlo”; poi è lo stesso se le rivolgi a una donna, o a un uomo, o a una gru.
Matilde Morotti

sabato 21 aprile 2012

Uomo e donna li creò - 14 aprile 2012 - Itaca per sempre

Che cosa si prova ad essere un greco dell'età omerica? Per quanto una risposta esaustiva a questa domanda non potrà mai essere fornita, Luigi Malerba ci avvicina a una tale prospettiva attraverso un intimo e dettagliato resoconto psicologico dei sentimenti e delle emozioni provati da Penelope e Ulisse nel corso dei noti fatti narrati nell'Odissea.

Lo sguardo introspettivo di Malerba ci presenta una versione attualizzata dei personaggi principali, che ora appaiono super ciali e stilizzati nei versi originali di Omero. Penelope non è così passiva e ingenua come ce la ricordavamo, ma piuttosto dimostra profonde e complete capacità di analisi, che le consentono di gestire la situazione di Itaca sia in assenza che (soprattutto) in presenza del marito; Ulisse è invece più simile a un "normale" uomo in carriera che ad un eroe, innamorato dei propri successi personali, spesso dimentico della famiglia lontana, e costantemente in cerca di svaghi per combattere un'onnipresente pressione sociale.

Se Itaca è per sempre, anche i sentimenti sono per sempre? In altre parole, Penelope e Ulisse rappresentano dei caratteri universali alle prese con questioni eterne come l'amore, l'autorealizzazione, il destino e la morte, o costituiscono invece un tentativo forzato di estendere e generalizzare la nostra prospettiva particolare? Sebbene una controprova diretta (il pensiero degli interessati) non potrà mai essere disponibile, bisogna tenere presente che l'opera di Malerba rientra nel campo della letteratura, e in quanto tale svolge a pieno merito il proprio ruolo.

sabato 7 aprile 2012

Il salotto del martedì - verso "La lingua perduta delle gru" di David Leavitt

“I miei genitori sono gente aperta”. Con la stessa fiducia con cui la protagonista di “Indovina chi viene a cena” presentava ai suoi il fidanzato nero, così Philip, nel romanzo di David Leavitt La lingua perduta delle gru (Mondadori, 1987, p.332) progetta di rivelare ai genitori la verità sul suo rapporto con Eliot, l'uomo di cui è innamorato. Perché Philip è gay, e questo è un romanzo d'amore. Nonostante i dettagli crudissimi, l'amore omosessuale in questo libro è romantico, appassionato, delicato come nei romanzi per signorine di una volta. “Sono tuo”, dice Philip all'amante (che poi in realtà è uno spietato egoista, ma questo succede anche nelle coppie eterosessuali).

Dunque il tenero, fiducioso, innamorato Philip si appresta a fare “coming out”, rivelando la sua omosessualità ai genitori. Ma è davvero credibile, negli anni '80 in cui il libro è collocato, che tutto fili liscio, senza suscitare terremoti? La rivelazione, in realtà, apre una dolorosa frattura tra figlio e madre e mette improvvisamente il padre di fronte a se stesso, costringendolo, a sua volta, ad uscire dall'oscuro carcere che è stato, per tanti anni, la sua vita.

Perché i genitori non sono per niente quella coppia intellettualmente aperta, unita, “normale” che mettono in scena da sempre. Se è vero che questo è un romanzo d'amore, e d'amore “regolare” anche tra gay (non a caso viene usato, a proposito del rapporto consolidato, il verbo “accasarsi”), bisogna ammettere che del matrimonio convenzionale tra uomo e donna vengono messi in luce i lati più oscuri ed insidiosi. Che tristezza questi due che leggono in silenzio, l'uno di fronte all'altra, e sembra una scena armoniosa e invece è una solitudine a due; tant'è che la domenica la passano ognuno per conto suo, per anni ed anni, e solo per caso una volta s'incontrano passeggiando sotto la pioggia nella città ostile ed immediatamente si separano, ognuno perso dentro il suo viaggio insensato, senza avere il coraggio di porsi la domanda fondamentale: “Che cosa siamo l'uno per l'altra, che cosa abbiamo fatto della nostra vita?”.

E allora il cambiamento introdotto dalla rivelazione del figlio si rivela l'unico modo per ritrovare una verità, un'autenticità fin qui negata : “Le corde del cuore desideravano essere toccate ad ogni costo, l'anima si stancava della serenità, il corpo moriva dalla voglia di qualsiasi tipo di cambiamento, fosse anche lo sterminio, fosse anche la morte”(p. 57).

Un cambiamento, ma anche un riconoscimento: si riconosce qualcuno, o qualcosa, e lo si ama. Non è detto che l'oggetto d'amore debba essere lo stesso per tutti: per alcuni uomini l'amore deve essere necessariamente rivolto alle donne, per altri no. Ciò non vuol dire che l'amore omosessuale sia meno valido, o autentico; anzi, in certi casi è l'unico modo per essere veramente se stessi..

Questo sembra essere il significato delle pagine che spezzano a metà la storia della famiglia di Philip e spiegano il misterioso titolo del romanzo. L'autore ricorda un caso clinico: la storia del bambino che, abbandonato da una madre inadeguata, viene elaborando un suo linguaggio personale grazie all'imitazione delle uniche cose con cui ha un rapporto di familiarità, cioè le gru di un cantiere che vede dalla finestra. Per quel bambino, le gru costituivano un vero, anche se improbabile, oggetto d'amore: da esse egli imparava, in esse egli si riconosceva; quello che per altri sarebbe stato un oggetto inanimato, per lui era mamma, patria, lingua.

Si direbbe che, in questo modo, Leavitt abbia metaforicamente rappresentato l'attaccamento, l'amore, che non ha le stesse forme per tutti, ma per tutti deve avere la stessa dignità.

“Ciascuno, a modo suo, trova ciò che deve amare, e lo ama; la finestra diventa uno specchio; qualunque sia la cosa che amiamo, è quello che noi siamo”(p. 193).

Matilde Morotti

lunedì 2 aprile 2012

Uomo e donna li creò - verso "Itaca per sempre" di Luigi Malerba


 Molti guerrieri che hanno combattuto sotto le mura di Troia sono tornati a casa e dormono con le loro spose. Altri hanno avuto una tragica accoglienza, come Agamennone, punito dal Fato per aver sacrificato la figlia Ifigenia al momento della partenza, per ottenere un vento favorevole. "Solo Ulisse è ancora assente - dice una nuova Penelope  - se cerco di dominare l’ira che mi sale dalle viscere è solo perché temo che sia stato travolto dal mare  tempestoso o lo abbiano accolto i tenebrosi regni dell’Ade”.
Penelope è stanca di fare e disfare la tela, è in pena per lui, ma è anche molto, molto arrabbiata. E l’astutissimo Ulisse dalle gesta coraggiose (decisive per la vittoria degli Achei) si rivela goffo quando ha a che fare con i sentimenti. E’ un’ispezione segreta (convinto che  solo così possa essere veritiera) quella che vuole compiere al suo ritorno sull'isola, per capire cosa è successo in questi venti anni,  senza di lui. Si copre di stracci e si finge un mendicante, vecchio e curvo appoggiato al bastone.
Ma pecca di ingenuità credendo che solo il cane Argo e la vecchia nutrice Euriclea lo abbiano riconosciuto (la vecchia lo teneva sulle ginocchia quando era piccolo e non le può sfuggire la cicatrice sul polpaccio mentre gli lava i piedi).  Penelope, nonostante Omero ce lo racconti, non  si lascia ingannare, neanche per un momento. E' la versione di Luigi Malerba in Itaca per sempre a mettere un po' di verità. Penelope è una moglie innamorata, non ha mai smesso di pensarlo e di sognarlo, come potrebbe non riconoscerlo? E non ha smesso nemmeno di temere, in tutti questi anni, che sia proprio la sua vanità (per i meriti di guerra) a tenerlo lontano da casa, per dispensare ancora fascino e raccogliere altri onori. E si domanda,  la fedele Penelope, come mai lui ritorni nella sua stessa casa sotto false spoglie e non da padrone, e come mai nemmeno la lontananza, la pena, la malasorte non riescano a scalfire la diffidenza di un uomo nei confronti della sua donna. E’ lui, agli occhi di lei, il colpevole di vanagloria, perché per dieci lunghi anni ha trascinato un viaggio di ritorno, che poteva compiersi in un anno. Dunque perché è lei ora ad essere ripagata con tanto sospetto? Cosa aspetta Ulisse a rivelarsi? La rabbia e la  frustrazione (di un corpo giovane e desiderante senza attenzioni né carezze) le fanno dire “ Starò anch’io al gioco della finzione. Vedremo chi riuscirà a trarne maggiore profitto”…”Se mi infliggerà altre amarezze io farò altrettanto con lui”.
Ulisse si rivela tardivamente. E’ fuori tempo! E’ lei a quel punto a fingere di non credergli e lui costretto ad aspettare, a tessere la sua tela. Non è una storia di vendetta, ma il rovesciamento di un punto di vista. Non è quella di Penelope un’attesa passiva, è una cura.  Ulisse piange finalmente. L’eroe ripensa agli anni della guerra (tribolati e felici). Ma quanto fu stupida quella guerra e il suo frivolo pretesto! Ulisse comincia a dubitare di quella forza e di quel vigore che per esprimersi hanno bisogno di ostacoli e di trame. 
Fu la moglie di Luigi Malerba, durante una conversazione, a suggerire  al marito un’interpretazione più credibile della storia d’amore  e d’avventura del re di Itaca. Una lettura lucida e attualissima perché, per certi versi, a Itaca ci siamo ancora, ora e sempre.

Elena Bellei

sabato 24 marzo 2012

Il salotto del martedì - 13 marzo 2012 - Non è un paese per vecchie

Il libro della Lipperini ha suscitato alcune perplessità per la struttura non sempre lineare (qualcuno lo ha definito caotico), per la quantità di analisi ed informazioni, in cui talora ci si perde e per la tematica che affronta, che ancora fa paura. Si è comunque riconosciuto che è un libro interessante, che offre spunti di riflessione e approfondimento, anche se inquieta la prospettiva che delinea di una vecchiaia in solitudine, con anni vuoti che si succedono nell’affanno e nella fatica, soprattutto per le “vecchie”. Si è constatato che in effetti il nostro paese non si è preparato ad un aumento di vecchi/ie quale si è verificato dagli anni ’70 in poi e che forse era prevedibile, pensando ai miglioramenti portati dalla medicina e dall’alimentazione.

L’aumento della popolazione anziana ha creato una vera e propria emergenza, il cui peso ricade spesso sulla famiglia e in modo particolare sulle donne, che più si occupano da sempre della “cura” di vecchi e bambini. Che cosa ha fatto diventare un problema la gestione dei vecchi? Certamente l’aumento della loro “massa critica”, ma anche il cambiamento del modo di vivere, col passaggio da una società rurale ad una industriale, col risultato che è più difficile invecchiare nella società di oggi. Con i ritmi della vita attuali, non c’è chi ha tempo di occuparsi del vecchio, se non case di riposo e badanti, e al tempo stesso mancano modelli validi di riferimento sul come invecchiare, se non guardando ai paesi nordici, che hanno cercato soluzioni prima di noi. Ci sono nel libro alcuni riferimenti positivi, che possono servire da indicazione: uno di questi è una citazione da Saramago, che ricorda che il valore dell’invecchiare sta nella persona che si è o che si è costruita prima. Abbiamo ricordato anche l’affermazione della Montalcini sul fatto che l’invecchiare deve aggiungere vita agli anni e non anni alla vita. Si è detto che un buon invecchiare richiede: cultura, salute, denaro ; ma si è aggiunto che ci sono “altri ingredienti” che aiutano, come “usare ancora le mani”, mantenersi aperti al nuovo, tenere vivo il cervello, non farsi bloccare dalla paura. Infine si è convenuto tutti che è fondamentale la relazione, lo stare ancora in mezzo alla gente e confrontarsi con altri da noi come forma di arricchimento.


Edda Reggiani



martedì 20 marzo 2012

Uomo e donna li creò - 10 marzo 2012 - Biglietto scaduto

Quando ancora non era possibile (fingere di) nascondersi dietro una pastiglia, uomini come Jacques Rainier non potevano che vivere la propria decadenza fisica come un totale fallimento personale.
Romain Gary racconta con tono sincero, senza mai scivolare nella grossolanità, il dramma dell'invecchiamento di un ricco imprenditore ossessionato dal sesso e dal successo, incapace di accettare un passaggio inevitabile e di scorgere una vita dopo la "scadenza''.

Il linguaggio "ormonale'' di Gary, in cui si intrecciano continuamente termini mutuati dal lessico economico e militare, descrive perfettamente la relazione tra sesso, potere e ricchezza, che costituisce il tema centrale di Biglietto scaduto.
Non vi è una vera e propria distinzione tra questi livelli: il sesso è allo stesso tempo una questione di onore personale e una forma di potere sociale, e l'impotenza è perciò una perdita di potere sia privato che pubblico.
L'unica possibile via d'uscita è offerta dalla complicità della ricca e giovane amante brasiliana, dei cui sentimenti però Rainier si rende conto quando è ormai troppo tardi.

Biglietto scaduto potrebbe essere letto come una critica del modello di vita occidentale, e allo stesso tempo come il riconoscimento del fallimento di un modello alternativo (ad esempio quello della Resistenza, ben presente nelle pagine di Gary); in generale, il merito principale di questo libro è di affrontare un tema così "sensibile'' nel modo più fisico ed esplicito possibile, senza mai dimenticare che anche i sentimenti, di fatto, esistono.

Il video di un'intervista rilasciata da Romain Gary in seguito alla vittoria del premio Goncourt per Le radici del cielo può essere visto su:

sabato 10 marzo 2012

Il salotto del martedì - verso "Non è un paese per vecchie", di Loredana Lipperini

Loredana Lipperini, che per molti è solo l'amichevole voce pomeridiana di Fahrenheit (Radio Tre), ha pubblicato per Feltrinelli due libri che affrontano la questione femminile da due angolazioni diverse, illuminando i pregiudizi e le distorsioni che, implacabilmente, offendono il diritto delle donne ad essere considerate soltanto persone, a qualunque età.

Se, infatti, Ancora dalla parte delle bambine (2007), prendendo spunto dal vecchio testo della Gianini Belotti, indaga sui nuovi miti che abitano l'immaginario delle piccole donne di oggi, questo Non è un paese per vecchie (Feltrinelli, 2010) prende in esame un'altra narrazione collettiva, che dagli schermi televisivi, dalle colorate immagini pubblicitarie, dal mondo della rete suggerisce una visione della donna francamente rivoltante.

Va detto che non è una lettura per stomaci deboli, questo libro. Se, giunti a una certa età dopo una vita di lavoro, pensavate di potervi godere le gioie di un sereno pensionamento, dedicandovi con abnegazione alle cure dei nipotini e al volontariato, per essere a vostra volta accuditi nei vostri anni più tardi, disilludetevi: è vero che senza di voi il paese non gira, ma non aspettatevi gratitudine da parte dei giovani, quando l'età vi impedirà di rendervi utili. Monta nel web una canea che si augura soltanto che i vecchi (noiosi, lenti, parassiti) facciano presto a scomparire. Si è seminato bene l'odio, in questi anni, non c'è che dire, e le testimonianze raccolte dalla Lipperini, che tra le altre cose firma un blog molto frequentato, lo dimostrano in modo davvero crudo. I vecchi fanno paura perché sono troppi, sono sempre di più, e i soldi sono sempre meno. Quindi, che spariscano, svaniscano, crepino. E le vecchie? Sono più povere dei vecchi, meno tollerate, anzi espulse. Su di loro, che già fanno parte di un gruppo ben poco amato, si esercita una crudele discriminazione di genere.

I vecchi sono invisibili, ma le vecchie di più. Proibito invecchiare, dice la pubblicità. Proibito addirittura farle vedere, le vecchie. Giusto se sei Rita Levi Montalcini o Margherita Hack puoi comparire in televisione, altrimenti sei relegata nel ruolo di nonnina o di strega o di coguara (se non lo sapevate, la vecchia megera che si paga l'amante giovane). I ruoli che restano sono grotteschi, inscritti nei balletti osceni delle “velone”: manca un immaginario, un racconto collettivo che le rappresenti, ridando loro senso e dignità.

Il messaggio martellante della pubblicità è sempre lo stesso: dopo la menopausa non succede nulla, rimanere eternamente giovani è possibile, se non ci riesci è colpa tua: truccati, tagliati, rifatti, se vuoi esistere. E noi della generazione sandwich, schiacciata tra cura dei nipotini e dei genitori ultraottantenni, senza i soldi per il botox e neanche un toy- boy per consolarci?

Non sarà che dobbiamo spegnere la tivù delle velone, demolendo una volta per tutte il mito dell'eterna giovinezza? Parliamone, ragazze.

Matilde Morotti



mercoledì 7 marzo 2012

Uomo e donna li creò - verso "Biglietto scaduto" di Romain Gary

“Io non invecchierò mai…Ho fatto un patto col Signore”.


Romain Gary, scrittore francese, di origine lituana (il suo nome è Romain Kacev, figlio di un’attrice di breve fama e di un grande del cinema muto) rispetterà il patto, già anticipato nei suoi libri come una premonizione annunciata, mettendo fine alla sua vita all’età di 68 anni, con un colpo di pistola.

Aviatore di carriera, partigiano nella guerra di liberazione insignito con la legion d’onore dal generale De Gaulle, scrittore, giornalista, regista, uomo politico, ambasciatore di Francia, considera la sua attività letteraria, e così anche il sesso, come una valvola di salvezza per il suo straordinario vitalismo e il suo “appetito di vita”, come lui lo chiama. Se vita e scrittura si intrecciano al fondo dell’autenticità di ogni autore che si possa dire tale, in Gary si spinge fino alla mancanza di pudore, specie in La promessa dell’alba definito uno dei più straordinari tributi mai scritti da un uomo alla madre e giuramento di un’ ideale battaglia esistenziale contro le meschinità del mondo; quelle affacciate alla guardiola della portineria a gridare: “sporco americano, sporco russo, sporco arabo, sporco ebreo, sporco negro”. A trent’anni è un eroe di guerra e scrive il romanzo Educazione europea che Sartre giudica in assoluto il miglior testo sulla resistenza. Vince due volte il premio Goncourt, di grandissimo prestigio in Francia, al pari di un Nobel per la letteratura.

I critici lo definiscono un talento dalla personalità eccentrica e dispersiva, e c’è chi trova nei suoi testi il tormento di un uomo in affanno per l’adesione ad un modello virile che non ammette defaillance.

Lituano di nascita, di fede ebraica, migrante assieme alla madre prima in Polonia poi in Francia, costretto in un adattamento sociale e culturale tra mondi incrociati, si definisce un camaleonte che prende il colore dell’ambiente per proteggersi, ma che infine rischia la pazzia su un tappeto di troppi colori. Non nasconde a questo proposito l’influenza dell’amatissima madre che ripone in lui aspettative altissime (le promesse dell’alba, appunto), che, da ragazzo prima e da uomo adulto poi, ricompensa con i suoi innumerevoli successi, tra disarmante sincerità e numerose maschere.

Dice di sé, in una intervista in occasione del premio Goncour all’uscita di Le radici del cielo: “Sono stato occupato a vivere, ora non ho più stomaco per tutto questo appetito”, come se al rallentare di una vita lanciata al massimo intravvedesse già imminente la fine.

E’ questa paura del decadimento fisico, dell’energia intellettuale e creativa, la protagonista principale di Biglietto scaduto, metafora di un viaggio inaspettatamente segnato da un limite di fine corsa, oltre il quale non è concesso andare. La storia è quella di Jaques Rainier, ricchissimo e brillante imprenditore 59enne, ossessionato dall’invecchiamento del suo corpo, e dalla “malattia virile, con i suoi millenni di possesso, di vanità e di paura di perdere”. Accanto a Jaques fiumi di denaro, una giovane amante brasiliana, infelicemente innamorata, e diversi squali del mondo finanziario impegnati in simboliche imprese di salvataggio (mecenati alle prese con Venezia da salvare, prima che sprofondi del tutto, o con la torre di Pisa da raddrizzare, prima che sia troppo tardi). Un linguaggio che tende anche a svelare il significato compensatorio del denaro, e di una cultura “ormonale” (quali sono in definitiva i capitali da investire e da “diversificare”, su cosa puntare per evitare il rischio di “svalutazione”?).

Un registro ironico e dolente di un narratore/attore, apparentemente soddisfatto della sua vita reale e virtuale, che perde di vista l’identità corporale e il senso stesso del limite, si guarda senza riconoscersi e fa dire al suo protagonista: “comincio a spiare il mio corpo come fosse il corpo di un estraneo venuto a prendere il mio posto”.

Il suicidio apparecchiato con cura dal protagonista (“voglio morire pulito”) e nella realtà (dopo aver comperato una vestaglia rossa per non impressionare troppo chi lo troverà) non ha i segni di una patologia violenta, parla piuttosto di un coraggio lucido, del naturale esito di una vita fuori dal comune: cercare in vita l’immortalità e poi morire, anticipando la fine. Dunque ancora una vittoria, il gesto finale del torero vincitore (che porta del toro in trofeo le due orecchie e la coda), perché c’è più coraggio nell’anticipare la morte che nella consapevolezza di doverla accettare. Ma su questa ultima e apparentemente definitiva certezza Jaques Rainier e Romain Gary daranno risposte diverse. E’ certo per noi, il coraggio di Gary che ci riguarda come lettori è quello di aver dato voce alla paura maschile più intima e più antica con crudezza, onestà e poesia.


Elena Bellei

lunedì 27 febbraio 2012

Il salotto del martedì - 14 febbraio 2012 - Accabadora

Michela Murgia, Accabadora, Einaudi 2009

Maria, la quarta figlia femmina di madre vedova, va a vivere in casa di Bonaria Urrai, come fill’e anima
. “Fillus de anima. È così che li chiamano i bambini generati due volte, dalla povertà di una donna e dalla sterilità di un’altra. Di quel secondo parto era figlia Maria Listru, frutto tardivo dell’anima di Bonaria Urrai.” . Tzia Bonaria offre alla bambina casa, futuro, istruzione e anche comprensione, mentre non le impone aspettative.
Il personaggio di Maria viene costruito in una narrazione di formazione: la formazione di una donna un po’ speciale, in un piccolo paese sardo a partire dagli anni Cinquanta, tra passato e modernità.

Maria ci rimane impressa subito per due gesti: le mani che, nel negozio di alimentari del paese, sottraggono le ciliegie e infilano in tasca i frutti, e quelle mani che, con la cura di una piccola donna, giocando tutta sola per terra, impastano una torta di fango e di formiche vive. Si intuisce la solitudine e la frustrazione della bimba, ma anche una spiccata individualità, che, in fondo, è sicurezza di potercela fare. Va insieme a Bonaria, nel giorno della cessione, portando con sé la torta di terra e una sporta piena di uova fresche e prezzemolo; sorride, sebbene vagamente intuisca che ci sarebbe da piangere. Maria ha una fiducia di fondo nei confronti della vita: vuole morderla e impastarla, vuole conoscerla, vuole avventurarsi e per lei Bonaria è la donna che l’ha scelta. Madre è chi ti sceglie dopo la nascita.

Maria è “figlia”, perché sa farsi figlia. Sa accettare di essere curata e cresciuta, sa affidarsi al destino. Il destino le propone madri originali e fuori dagli schemi come Bonaria, che ha elaborato la sua esperienza di vita in modo non convenzionale, ma che è, al tempo stesso, interprete di una tradizione etica ed esoterica della sua gente. Maria sa anche essere figlia della scuola e dell’insegnante , sulla base del riconoscimento reciproco e della fiducia: nella maestra conosce un modello ispirato alla razionalità , alla conoscenza, caratterizzato dalle scelte maturate individualmente. Cresce e si differenzia dalla madre e dalle sorelle per la sua autonomia e volontà di conoscere e scegliere al momento opportuno. Evidenzia un coraggio fuori dagli schemi della società in cui cresce, quello di essere diversa ed assimilata allo stesso tempo; come Bonaria, Maria è radicata nella tradizione e in essa accetta il ruolo, che le viene riconosciuto, ma allo stesso tempo matura una consapevolezza autonoma di sé e del proprio destino.

Maria soggiorna in Continente per qualche tempo: deve mettere questa distanza dalla sua vita con Bonaria, perché incapace di accettare la scoperta del ruolo sociale di
accabadora, impersonato dalla madre adottiva, non sapendo per il momento distinguerla dalla figura solida e giusta, che ben separa il loglio dalla gramigna, che Bonaria è stata per lei.
Durante l’esperienza torinese scopre in sé la capacità di amare, di curare, di venire incontro, scopre la pietas e quel tipo di soccorso umano che richiede l’oscurità, il sussurro, il silenzio, l’ascolto . Scopre di essere richiesta come la persona cui si può con-fidare tutto il proprio abisso di confusione, disperazione e senso di colpa.

Così come nel paese Maria aveva saputo aprirsi all’amicizia di Andrìa, una figura maschile, forse poco “balente” (espressione sarda per indicare il coraggio), ma certo aperta pur nella sua insicurezza.

Come potrà e vorrà riconoscere la propria costruzione futura? Maria sembra lucida, e ben decisa ad ascoltarsi per essere fedele ad un dettato interiore più che alle convenzioni sociali sia della sua ristretta società paesana che dalle convenzioni della famiglia borghese di Torino presso la quale si trova ad accudire i figli.

Bonaria è l’altro personaggio centrale del romanzo. Vecchia sarta del paese, sa portare conforto e dare consiglio: l’accompagna un’aura misteriosa e un rispetto che fa trasparire anche un’ombra di spavento.

Perché proprio lei viene identificata e socialmente riconosciuta nel ruolo di
accabadora, la donna che sa portare la morte pietosa? Consideriamo alcune peculiarità di questo personaggio femminile: è benestante; non ha marito; non ha parentele prossime; ha amato con passione; conosce il dolore e la perdita, ha placato il dolore; è percettiva ed acuta, così com’è acuto il suo sguardo sulle persone e sul loro animo; guarda in silenzio, osserva il destino altrui e lo segue da lontano, con empatia evidente o per meglio dire con senso di responsabilità; sta dentro e fuori la sua comunità: interprete di un codice d’onore antico e potente, elargisce laiche ragioni e comportamenti come complemento alla visione della vita dell’autorità religiosa, dalla quale è distinta, ma della quale non è nemica. Bonaria chiede distinzione e richiama la radice profonda della responsabilità di ciascuno sulle scelte fondamentali della vita, alle quali può partecipare come rispettosa interprete ed esecutrice di volontà sacre e drammatiche.
Questi due personaggi emergono dalla coralità della comunità del paese, dove gli uomini parlano poco e poco direttamente, ma si mandano segnali inquietanti, che il segno della croce degli astanti qualifica subito come una seria minaccia, dove si custodiscono rancori neri e duri come pietre che non possono essere purificate, dove chi è impaziente perisce. Si intuisce anche il possibile cambiamento che verrà portato alla relazioni e al codice etico della comunità dalle donne più aperte alla comunicazione, ma anche più affascinate dal benessere e dal consumo. I temi trattati che innervano la narrazione sono tra i più impegnativi: l’affido, il ruolo delle donne nelle fasi di mutamento sociale, il valore della conoscenza, il nuovo e la tradizione, la comunità arcaica e la modernità aperta, le scelte relative al fine vita, la giustizia e la vendetta. Michela Murgia li affronta, scegliendo una lingua essenziale, ben scandita, efficace, carne vivente dei temi così complessi e drammatici; mostra i personaggi, le loro scelte, la loro vita più che esprimere giudizi; eccelle nella selezione delle descrizioni, che sono brevi, e precise: pochi, importanti tratti per proporre un gesto che veicola emozioni e sentimenti, dalla ricchezza lessicale traspare la ricchezza dello scavo psicologico. Un bel libro che ci congeda pensosi e saldi.

A cura di Luisa Magnani