mercoledì 21 dicembre 2011

Il salotto del martedì - 6.12.11 - Non lasciarmi, di Ishiguro



Non a tutti è piaciuto questo romanzo di Ishiguro! Qualcuno l’ha trovato noioso e ripetitivo, soprattutto nella prima parte, qualcuno è stato respinto dalla tematica fantascientifica. Altri, invece, hanno apprezzato il sottile studio psicologico dell’adolescenza, le capacità descrittive ed evocative dei paesaggi inglesi (il Norfolk è un vero protagonista) ed infine la capacità di suggerire i percorsi quasi a spirale della memoria. La suggestione della storia è legata, però, alle tematiche che essa solleva: fino a che punto si può lasciare esprimere la potenza della scienza? quanta e quale sperimentazione genetica è possibile? e ancora: quanto l’educazione può proteggere dai dolori della vita e dare strumenti per una maggiore coscienza, se non umanità? Anche il ruolo dell’arte è chiamato in causa: nel libro si usa l’arte per dimostrare che i cloni hanno un’anima; l’arte, la creatività ne sono la riprova. Un altro “grande tema”che è emerso dalla lettura è quello della finitezza umana e della morte, che i cloni chiamano”compimento del ciclo”: è un destino comune che li porta a “prendersi cura” l’uno dell’altro. Molto toccante è anche la ricerca dei ragazzi del “possibile”, cioè della persona che ha dato le cellule per produrre il clone, che richiama il tema del chi siamo e da dove veniamo e rende ancora più inquietanti le domande sull’eticità di certe scelte della scienza. Si pensato che nella scelta della canzone che dà il titolo al libro ci sia un rimpianto-nostalgia degli anni ’60, quando in Gran Bretagna si lottava per un’educazione “per tutti” non più elitaria; la storia che l’autore ci propone ne mostrerebbe i benefici. A qualcuno il libro ha ricordato certi racconti di fantascienza degli anni ’60, di carattere sociologico, vedi La macchina del tempo, che prospettavano scenari futuri in cui si ponevano interrogativi sulle scelte da fare. Ci si è chiesti perché i protagonisti della storia non si ribellano, non cercano di fuggire alla loro sorte e si è ipotizzato che forse l’ambiente stesso li ha plagiati, inducendoli ad un dono di se stessi obbligato e dispotico, che annulla ogni possibilità di scelta. Solo uno dei personaggi, Tommy, pare vivere questo ruolo con rabbia e disagio, ma ritiene che quello che prova sia un suo limite. Si è colto un forte senso di ineluttabilità e nostalgia (bellissima l’invenzione del “luogo delle cose perdute”, che è un tratto dell’autore già presente nel romanzo Quel che resta del giorno). La scrittura è stata riconosciuta da tutti come curata ed evocativa, ma poco concreta e talora ripetitiva, quasi a creare un mondo impreciso e fluttuante.
(a cura di Edda Reggiani)

lunedì 12 dicembre 2011

Uomo e donna li creò - 3 dicembre - Leielui

La rincorsa affannosa di Lei e Lui, continuamente interrotta e rilanciata dallo squillo del cellulare, è descritta da De Carlo con un taglio cinematografico e un'ampia profusione di dettagli. Da cosa è giustificata questa scelta stilistica? Se da un lato è indubbio che, nella quotidianità, quasi tutte le storie d'amore sono lunghe, lente e noiose, dall'altro la letteratura mostra numerosi esempi di vicende banali narrate in modo appassionante e scorrevole.

De Carlo racconta una storia doppia, alternando le prospettive di Lei e di Lui, personaggi tutt'altro che epici che occupano uno spazio di stereotipi e luoghi comuni. Per quanto fastidiosi, questi stereotipi sono attinti dalla realtà in cui vive il lettore, e forse è proprio questo a renderli irritanti: dato che li conosciamo già fin troppo bene, per quale ragione dovremmo leggere un testo che ce li riepiloga uno ad uno?

Ci si può allora domandare se questo approccio possa essere in qualche modo illuminante nell'analisi del rapporto uomo-donna. La questione in gioco diventa perciò la seguente: che cosa vuole realmente raccontare Leielui? Si tratta di un libro effettivamente banale, o piuttosto ricco di spunti interessanti, ma diluiti e inariditi dalla lunghezza eccessiva della narrazione? Ad esempio, i sogni iniziali dei protagonisti (il volo di Lei, il libro imputridito di Lui) si eclissano per molte, forse troppe pagine. D'altra parte, in una realtà così particolareggiata e stereotipata c'è pochissimo spazio per i sogni; anche il lettore dovrebbe mettere da parte i propri.

sabato 3 dicembre 2011

Il salotto del martedì - verso "Non lasciarmi", di Kazuo Ishiguro




Kazuo Ishiguro, Non lasciarmi, Einaudi 2006


Nato a Nagasaki nel 1954, ma emigrato con la famiglia in Gran Bretagna nel 1960, Kazuo Ishiguro scrive in inglese ed è considerato uno dei massimi scrittori britannici, anche se nei suoi libri resta l'eco della cultura d'origine.
Chi legga il suo Quel che resta del giorno (da cui è stato tratto un bel film con Anthony Hopkins) si troverà immerso in un universo molto british, con argenti lustri, maggiordomi impettiti e ardori sentimentali covati per anni sotto la cenere, per non parlare di un senso di crepuscolare rassegnazione e di rinuncia a modificare il proprio destino.
Anche questo Non lasciarmi (2005) descrive un paesaggio molto inglese: un collegio abbastanza d'élite, immerso nel verde della campagna, in cui gli studenti sono educati alla vita interiore, alla bellezza, all'arte e sono incoraggiati ad esprimere la loro creatività. Eppure, fin dall'inizio, in questo mondo apparentemente privilegiato si rivela un'incrinatura, una crepa che si approfondirà sempre di più, portandoci con delicatezza insinuante nel cuore nero di un mistero che resterà comunque in parte inesplorato. Perché i ragazzi non ricevono visite dai genitori? Che cosa sono le “donazioni” di cui si parla fin dalle prime pagine? Perché alcuni insegnanti non riescono a nascondere un senso di ribrezzo nei confronti dei loro allievi? E perché a questi ultimi è fatto divieto tassativo di fumare?
L'io narrante dal nome kafkianamente amputato (Kathy H.) segue il filo dei suoi ricordi e c'è, in questo riavvolgersi del nastro della memoria, molto di non detto, di esitante e continuamente interrotto. Alla fine noi pensiamo di aver capito, ma ci resta un dubbio: che storia ci è stata raccontata, in realtà? Forse questa è l'utopia a rovescio di un possibile mondo in cui la scienza ha valicato i confini dell'etica. Oppure una favola, un mito che (non) spiega il mistero della creazione, di come nasce e muore la vita. O, ancora, un romanzo d'amore, in cui i protagonisti hanno, a dispetto di tutto, una fede incrollabile nella loro capacità di piegare il destino grazie alla forza dei sentimenti. Il suggerimento più illuminante potrebbe essere quello che ci dà l'autore stesso, quando in un'intervista interpreta il romanzo come una metafora della vita umana.
Effettivamente si potrebbe dire che tutti noi, come i ragazzi di Hailsham, siamo gettati nella vita e non sappiamo perché; qualcuno, fuori e sopra di noi, detta regole che non capiamo e solo quando è troppo tardi ci rendiamo conto che la vita è breve e noi non l'abbiamo ancora vissuta.
Rileggendo in questa prospettiva i romanzi di Ishiguro, si vede che le parole “troppo tardi” ne costituiscono il tema dominante: è troppo tardi per recuperare, per vivere in un altro modo, per evitare di sprecare la vita.
Eppure, in tanto pessimismo, resta una luce: l'amore e la memoria dell'amore. Kathy si attacca ai ricordi come a una consolazione, perché le persone che ama sono scomparse e la memoria diventa qualcosa di prezioso, cui ci si può aggrappare senza disperarsi: “Se avessi aspettato abbastanza,una minuscola figura sarebbe apparsa all'orizzonte in fondo al campo e a poco a poco sarebbe diventata più grande, finché non mi fossi resa conto che era Tommy, e lui mi avrebbe fatto un cenno di saluto con la mano, forse mi avrebbe chiamata”.














Matilde Morotti

giovedì 1 dicembre 2011

Uomo e donna li creò - verso "Leielui" di Andrea De Carlo

“Se poi troverà un uomo davvero sulla sua lunghezza d’onda gli spiegherà il segreto semplice dello stare in aria. In effetti le piacerebbe poter condividere questa sensazione, avere qualcuno con cui esplorare le possibilità degli avvitamenti e delle capriole, degli inseguimenti in su e in giù, puntando verso il cielo attraverso le nuvole…..” .


Con un sogno comincia la storia di Clare Moletto, americana, di origini italiane, precaria in un call center, separata da Luigi, uscita da una brutta storia con Alberto, fidanzata di Stefano, prossimamente innamorata di Daniel. Clare sogna di volare. Ma… “Non c’è nessun fiume fresco sotto di lei, solo le lenzuola scomposte del suo letto singolo. Nella sua piccola stanza nel brutto piccolo appartamento al primo piano nella periferia sudovest di Milano”.

Anche Daniel (i due non si sono ancora incontrati) sogna. E’ in una casa in affitto nel sud della Francia, c’è un giardino e uno laghetto d’acqua stagnante dove galleggia un libro, e ci sono due scoiattoli che se lo mangeranno.

L’angoscia che sta dentro al sogno profetico non è tanto diversa da quella che accompagna Daniel nella vita reale (lui è uno scrittore che ha esaurito la sua vena creativa).

Lei è bella, tonica, sfuggente, si sposta, corre (a piedi), appena può scappa, e cerca il vero amore.

Anche lui corre, ma in macchina, inseguendo qualcosa. Corre bevendo vodka, (ha una vecchia Jaguar) e fortunatamente ha un incidente, non grave, così incontra Clare e s’innamora.

L’artista parzialmente maledetto, il cinismo del mondo moderno, il fidanzato borghese con la mamma appresso, i sensi di colpa di lei, l’ex fidanzato violento, e anche la festa in spiaggia con falò e chitarra, sono fin troppo prevedibili per non credere in una strizzatina d’occhio col lettore. (“Un paio di inverni fa quando si era rotto l’impianto di riscaldamento (lui) aveva preso a bruciare i libri nel camino del soggiorno”). Addirittura!

Pare tutto già visto in questo Leielui (titolo scritto tutto unito come a dire che la fusione dei due amanti è autentica e che l’amore totalizzante esiste davvero). Ma oltre a questo l’autore di Treno di panna e Uccelli da gabbia e da voliera cosa vuole suggerire? Forse che Uomini e Donne vivono dentro i loro stessi stereotipi, recite sociali, pantaloni e sottane sbagliate, ma rassicuranti. (Molti gli aperitivi nella parte milanese del libro, fateci caso. E al cameriere si chiede… “Un Negroni sbagliato”, ovvero con ingredienti riveduti e corretti). Allora bisognerà darsi da fare per passare oltre lo sbaglio, oltre la cortina delle finte identità, per trovare una donna in carne ed ossa sotto il blezerino o un uomo nudo e crudo sotto la corazza. Darsi da fare, muoversi, correre. C’è un grande movimento nella storia: spostamenti fisici e mentali, viaggi, fughe e inseguimenti, attacchi scorretti, scuse, provocazioni e rispostacce, reazioni a catena. Quasi un appello: l’amore è movimento, salviamoci dalla staticità del rapporto, salviamoci dalla noia, magari anche dalla morte. Donne e uomini, sembra volerci dire De Carlo, hanno occhi diversi per guardarsi dentro e per guardare fuori, parole e pensieri lontani fra loro anni luce, differenti memorie, differenti ferite. Chissà che le loro infinite differenze non si possano ricomporre in un titolo unico se ci si lavora su, se si fa piazza pulita delle finte illusioni, se si cerca un po’ più di verità dentro se stessi. Almeno provarci. Poi prima o dopo questo Negroni dovrà pure avere un nome. Se non è un Negroni cos’è?

martedì 22 novembre 2011

Uomo e donna li creò - 12 novembre - Sii bella e stai zitta

È possibile affrontare un tema delicato e complesso come quello della condizione femminile nell'Italia di oggi con uno stile semplice e divulgativo, senza cadere nella banalità? Secondo Michela Marzano, autrice di Sii bella e stai zitta, la risposta è affermativa. Tale approccio semplifica inevitabilmente le questioni in gioco; tuttavia, dato l'intento educativo, oltre che illustrativo, che guida il lavoro di Marzano, la scelta di uno stile accessibile risulta pressoché necessaria.

Ma quali sono le ragioni di un approccio di questo tipo? È realmente necessario impostare un saggio su un criterio educativo? Il libro risponde esattamente a questa domanda: la situazione attuale è dovuta anche (principalmente?) a una mancanza di educazione, che mette a repentaglio buona parte delle conquiste del passato recente. Ma cosa si intende, più precisamente, per "educazione"? Marzano identifica una relazione di influenza reciproca tra valori e diritti: se i valori vengono persi, i diritti non vengono rivendicati; se i diritti vengono persi, i valori difficilmente sopravvivranno alle nuove generazioni. Tanto i valori quanto i diritti sono a repentaglio; sono però i primi ad essere più fragili, in quanto privi di un riconoscimento formale. Perché, allora, i valori sottostanti a quei diritti conquistati con tanta fatica si sono rivelati così cagionevoli?

La società italiana attuale tende a presentare la subordinazione femminile come un dato di fatto; per quanto questo fatto sia tutt'altro che dato, viene ribadito in modo continuo e martellante (Marzano cita numerosi esempi, basti pensare a molte delle pubblicità che occupano i nostri schermi) al punto che non sembrano esistere alternative ad un ruolo subordinato e degradato della donna.

Proprio la mancanza di un modello alternativo è ciò a cui l'educazione dovrebbe porre rimedio: tanto l'educazione domestica e scolastica, quanto quella "sociale". Considerata la generale idiosincrasia (se non esplicita avversione) della televisione verso i temi dei diritti femminili, l'unico significativo strumento di educazione sociale rimane il caro vecchio libro. In questa prospettiva, quanto fa Marzano è allora scrivere un libro accessibile a un pubblico più ampio possibile. Affinché il progetto dia frutti, altri volumi dovranno seguire, che affrontino il problema ad una maggiore profondità; ma, data la situazione attuale, la scelta di un approccio divulgativo non è tanto una questione di stile, piuttosto una necessità.

lunedì 14 novembre 2011

Il salotto del martedì - 8 novembre 2011 - La vita autentica



Vito Mancuso, La vita autentica, Cortina 2009



Il saggio affronta un tema di grande momento, dato l’odierno disorientamento generale, in cui, per usare una frase ad effetto, l’ “avere” e l’ “apparire” prendono il sopravvento sull’ “essere”. Questa contrapposizione tra “avere”, “apparire” ed “essere” risulta un po’ fastidiosa, ma intanto rende l’idea. Che cos’è dunque la vita autentica? Mancuso prova a indicarcela scorrendo le tesi e le contraddizioni di tutta la filosofia da Platone ad Heidegger e fornendo così al lettore un utile termine di paragone per farsi un’idea propria della problematica. Inoltre, come avverte nella introduzione, il percorso che egli propone è aperto a tutti, laici e credenti: non è necessario cioè essere credenti per perseguire un ideale di vita autentica. Ci riesce in questa operazione? Sì e no. Sì perché l’argomentazione, come è stato osservato, è dialettica, aperta alla discussione e alla confutazione e non ricalca l’andamento puramente asseverativo tipico dei teologi di stretta osservanza; no, perché in conclusione, fa riferimento a una serie di valori assoluti, il bello, il giusto e il vero, che non sembrano conseguire logicamente da una impostazione, a suo stesso dire, basata sulla relazione dell’individuo col mondo e con gli altri individui. Ma andiamo con ordine.
La vita non può dirsi autentica per il solo fatto di esserci, e parlando di uomini non si può fare di tutte le erbe un fascio: deve pur esserci una differenza tra un uomo e un “quaquaraqua”. Chiunque, osserva Mancuso, deve essersi posto almeno qualche volta questa domanda, perché a nessuno è ignoto l’inganno, o il tradimento, o l’abbandono per averlo subito o per esserne stato complice o autore.
Il saggio si snoda per tre capitoli: “La vita come libertà”; “L’autenticità”; “Perché la vita autentica”, e cerca di mettere a fuoco i motivi esterni (condizionamenti socio-culturali) e interni del disagio che ci costringe all'inauteticità, per trovare una via d’uscita nella assunzione di una propensione etico-riflessiva.
La domanda d’apertura è vasta come il mare: che cos’è la vita? La risposta è quanto mai problematica. Religione (Bibbia), filosofia, scienza giungono ciascuna per le vie che sono loro proprie a posizioni antitetiche. Nella Bibbia si scopre che la vita appare di volta in volta come “fenomeno armonico e ben governato”, ma anche come “non giusta, non razionale, non ben governata, e non contiene nessuna logica che ne rispecchi l’autore.” Se rivolgiamo la domanda alla filosofia le cose non vanno meglio: per alcuni è una cosa desiderabile, confortata da un senso provvidenziale e razionale, per altri un fenomeno imprevedibile dominato dal caso; oggi come nell’antichità si levano voci disperate per dire che “meglio sarebbe per l’uomo non esser nato”. Se interroghiamo la scienza le cose non cambiano; si parla dell’universo come di uno spazio inospitale e indifferente o, al contrario, connaturato, favorevole all’uomo e al suo sviluppo. Voci analoghe arrivano dall’astrofisica e dalla biologia. In conclusione, se “medesimi dati oggettivi” si dispongono a così “diverse interpretazioni” perché diverse sono le “rispettive visioni del mondo”, come orientarsi? Riemergono le antinomie della kantiana ragion pura, che nulla può sul mistero dell’universo, non sapendo se sia finito o infinito, continuo o discontinuo, determinato o indeterminato…
Non sappiamo se la mancanza di un universo trasparente alla ragione precluda un approccio fiducioso con l’universo, anche se manca la certezza, la “pietra” di cui Mancuso parla a proposito di una costruzione che poggi su basi stabili; non sappiamo nemmeno se tale base stabile presupponga il superamento delle antinomie e abbia bisogno almeno di “quella causa prima, comunemente chiamata Dio” di cui si parla da Aristotele in poi. Sembra che Mancuso si richiami piuttosto al bisogno di un dio (con la minuscola), forse meno assente del Dio aristotelico, dalla presenza discreta, che per esserci non ha bisogno di essere inconfutabile.
Determinismo e caso segnano strade entrambe fallaci, per lo meno nel senso che la prima paga il suo meccanicismo rassicurante con una rinuncia di senso che prima o poi interviene a rivendicare i suoi diritti; la seconda, all’opposto, per quanto si apra a tutte le possibilità, prima o poi deve fare i conti con la necessità di escluderne alcune, molte, la maggior parte; il caso legittima tutto e niente; il determinismo, oltre ad essere repulsivo, è incapace di disegnare una prospettiva che non sia in sostanza la ripetizione del già noto. Mancuso non intende sfuggire a questo dilemma: “Se la vita si presenta come contraddizione, rispettare la contraddizione consentendo a ciascuno l’esercizio della libertà è il modo migliore di rispettare la vita”. Perché “nel bene e nel male, la questione della libertà concerne il nucleo più intimo dell’antropologia […] la domanda che per Kant riassume tutto il senso del pensiero: Che cos’è l’uomo?”.
Alle scienze dello spirito, che Dilthey separa nettamente dalle scienze naturali, Mancuso assegna il compito di “delineare i criteri di autenticità della vita umana”. Dopo Kant sono accadute tali cose che non è pensabile lasciare alla scienza il compito che, a ben vedere, essa neppure pretende, cioè di decidere il nostro destino, tanto più ora che la stessa scienza è discorde e incapace di trovare una soluzione ai suoi problemi. E crediamo che anche questo voglia dire Mancuso quando afferma che “la vita è tanto più umana quanto più è libera [...]; riflettere sull’autenticità significa mettere a tema il buon uso della libertà per far sì che risulti buona e non cattiva, giusta e non ingiusta, vera e non falsa, bella e non brutta…”. Una relazione, quella tra il sapere scientifico e quello umanistico, in cui ognuno è coinvolto. Come accade, per esempio, nelle pagine che partendo da Cartesio giungono alle neuroscienze. “Cartesio […] alla ricerca di un fondamento del tutto certo […] invece di affidarsi alla sicurezza del sapere consolidato e della fede (era credente) si buttò nelle braccia del dubbio (costruttivo): chi cerca la verità deve una volta nella vita dubitare di tutto”. Un metodo, dunque, che passa attraverso il dubbio e l’errore: dubito, fallor, ma sempre cogito, ergo sum: se “io penso”, prima dovrò ben esistere come cosa pensante! A coloro che contro-argomentano avvalendosi, sia pure impropriamente di alcuni risultati delle neuroscienze, Mancuso risponde che il mondo della coscienza, della libertà “non è indagabile con nessuna delle tecniche di neuroimaging”. Una risposta che vuole soprattutto allertarci sui pericoli di un facile scientismo, contro il quale invita a praticare il dubbio metodico costruttivo di Cartesio. Così a proposito di Heidegger, se per “vivere per la morte” si deve intendere il lascito che ognuno vuol lasciare di sé come un impegno che egli si assume durante la vita (ma è questo il senso di Heidegger?) crediamo che sia ampiamente da condividere. M al vivere per la morte non si può non contrapporre il “vivere per la vita”, che non significa abbandonarsi alle pulsioni più spontanee, ma cercare quel proprio, eigen (Eigentlichkeit= autenticità) che in mezzo al grande magma della nostra interiorità ci contraddistingue, e perseguirlo.
Un passaggio particolarmente importante è quello in cui di descrive la morale di un Callicle, il personaggio platonico del Gorgia, il quale sostiene che vi è una legge naturale, la legge del più forte, al quale è legittimo soddisfare le proprie pulsioni a danno degli altri; per Callicle le leggi imposte dalla società, non sono altro che il modo con cui i deboli distorcono la natura cercando di impedire ai forti di realizzare se stessi, ossia di vivere autenticamente. Alle tesi di Callicle, Socrate contrappone un altro ideale di vita autentica, quella ispirata all’idea del bene nel consorzio armonico con gli altri cittadini della polis. A questo punto l’autore ci propone una breve rassegna dei Callicle della storia, tra i quali rifulge ovviamente Hitler. Ma gli argomenti che egli porta a sostegno della tesi socratico-platonica sono fondati su una non dimostrata e non dimostrabile tendenza insita nell’uomo a convergere, per sua stessa natura, verso l’allargamento armonico della vita e non verso la sopraffazione e la conseguente disgregazione. La tesi di Callicle, a parte il fatto che si contraddice da sé quando afferma che la sopraffazione dei forti porta come conseguenza l’unione dei deboli e l’istituzione della legge, può essere neutralizzata assai meglio senza far riferimento a valori assoluti, ma sulla base di un’etica utilitaristica alla Stuart Mill, per esempio. A tale proposito vorremmo citare un esempio sovrano: quando ormai Hitler era sul punto di scatenare la guerra che, oltre a infliggere ai popoli inenarrabili sofferenze si concluse con la sconfitta della “razza superiore” e la distruzione della Germania, un'anziana signora ebbe il coraggio di scrivergli esortandolo a non metter in pratica il suo proposito, perché, siccome egli voleva conquistare il mondo, tutto il mondo gli si sarebbe rivoltato contro e la guerra l’avrebbe persa. Perché l’episodio è assolutamente istruttivo e perspicuo? Perché quella donna non fece appello a qualità morali che sapeva non avrebbero in alcun modo influito su Hitler; fece appello al solo argomento che egli, nel suo delirio di onnipotenza, poteva recepire: “perderai la guerra”. In sostanza, e generalizzando: stiano attenti i “forti” a non suscitare la collera dei “deboli”. Ma non possiamo fermarci a sottolineare le ragioni dell’utilitarismo che non necessariamente divergono da quelle dell’idealismo. Se accettiamo la relazione come fondamento della realtà, conseguentemente è dalla stessa relazione che deve scaturire il principio di una vita autentica; e tale principio non può allora non assumere le sembianze di un’etica della comunicazione (Apel, Habermas), laddove il principio cui ispirare il proprio comportamento assume la forma, in nessun modo pregiudicata, della discussione libera da dominio, il cui principio trascendentale sia “vinca l’argomento migliore”.
In realtà, la relazione di cui parla Mancuso sembra declinare insensibilmente in una sorta di naturalismo fondato sulla struttura dell’io, dell’essere, del mondo. Se uno si chiede cosa ci sta sotto questo naturalismo (naturalismo significa darsi la rassicurazione che nonostante i su e giù della storia ciò che è “naturale”, essendo autentico, troverà uno sbocco positivo) la risposta sembra scontata: il dio della teologia. A noi sembra che questa conclusione non possa essere suffragata: è proprio dell’uomo (della cultura) di assumersi una responsabilità che non prevede alcuna rete di protezione. Con ciò intendiamo sostenere, contro il sottostante platonismo che sembra caratterizzare l’opera di Mancuso, che la bellezza, la bontà e la giustizia, secondo noi sono frutto unicamente di relazione.
Sia detto infine, ma queste sono sottigliezze, che anche il termine “autentico” risulta un po’ fastidioso, nel senso che inevitabilmente rimanda a qualcosa di essenziale che costituirebbe la natura umana e al quale in qualche modo alla fin fine non resta che richiamarci. Perché non usare al suo posto il termine aristotelico di “vita buona”? Anche l’altro ingrediente indispensabile alla vita autentica ci pare sospetto: ci riferiamo alla “speranza”. La speranza fa parte delle virtù teologali e se Mancuso la include necessariamente nella prospettiva di una vita autentica, finisce con ciò col delimitare a credenti nella vita eterna la possibilità di tale vita, contro l’assunto iniziale. Anche qui il lettore laico preferirebbe il termine “progetto”. Io posso avere un progetto di vita: in tal caso, anche se so di morire, posso sentirmi realizzato avendo perseguito coerentemente tale progetto. Ovviamente non ogni progetto è degno di essere perseguito, ma questo vale anche per la speranza.
C’è un altro punto che suscita perplessità. Dopo aver elencato tutte le innumerevoli storture, fonti di dolore che caratterizzano questo nostro mondo, l’autore conclude, alla maniera di Leibniz, che comunque il mondo è nel suo insieme buono e che la vita vale la pena di essere vissuta. La discussione in merito non ha alcun senso se non nell’ambito di una teodicea (benché imperfetto questo è il migliore dei mondi possibili o giù di lì): il mondo c’è, la vita c’è, quale che sia dobbiamo cavarcela. Bisogna riconoscere tuttavia che essendo l’uomo un ente naturale, prodotto di una lunga evoluzione, un certo grado di armonia col mondo naturale non può non esserci. Ma a questa idea, affinché non risulti pigramente consolatoria, vale la pena di contrapporre la denuncia di Leopardi: la natura è del tutto indifferente ai bisogni dell’uomo. All’uomo spetta di sfruttarne ragionevolmente le possibilità e di fronteggiarne solidarmente i disastri a ciò essendo stata “ordinata in pria l’umana compagnia”. E su un tale progetto, senza dubbio alcuno, troveremo fianco a fianco Vito Mancuso assieme a tutti gli uomini di buona volontà.
A cura di Mirna Ferrarini


Lettura da La vita autentica



Intervista a Vito Mancuso su La vita autentica

mercoledì 2 novembre 2011

Uomo e donna li creò - verso "Sii bella e stai zitta" di Michela Marzano


Michela Marzano, Sii bella e stai zitta. Perché l'Italia di oggi offende le donne, Mondadori 2010.
Il primo libro del Gdl, dedicato quest’anno a "Maschile e Femminile" (titolo: "Uomo e donna li creò") è Sii bella e stai zitta. Perché l’Italia di oggi offende le donne, di Michela Marzano, filosofa italiana trasferita in Francia, paese dove ancora si muovono energie del pensiero e dove sulla carta di identità si può scrivere “professione filosofa”.
Nata e cresciuta in Italia, laureata alla Normale di Pisa, dove ha conseguito il titolo di dottore di ricerca, la Marzano diventa giovanissima professore ordinario alla Università Descartes di Parigi, nell’era della fuga degli italici cervelli.
“Le Nouvel Observateur” la cita come uno tra i più brillanti pensatori della nuova scena culturale francese, e le riviste italiane non esitano a titolare “un’italiana scelta tra i migliori di Francia”, rivendicando una inopportuna paternità/maternità, che solo mamma e papà biologici possono vantare con orgoglio, perché se Michela Marzano fosse rimasta nel suo paese sarebbe probabilmente stata spenta, come altre brillanti lampadine luminose e illuminanti, dalla recessione/stagnazione del pensiero che ha colpito i talenti.
Peggiore ancora della recessione economica perché, se le macchine e le fabbriche prima o poi si rimetteranno in funzione, i cervelli saranno definitivamente smarriti e quelli che ancora resisteranno certamente umiliati, o troppo stanchi o tacitati.
Sii bella e stai zitta, sottotitolo Perché l’Italia di oggi offende le donne, piace perché cita Freud e Jovanotti, Lacan e Pretty woman.
Come dire, un libro colto alla portata, un testo “nazionalpopolare” di una mente sopraffina, dove il linguaggio filosofico diventa linguaggio divulgativo senza perdere la forza del pensiero e il rigore logico/argomentativo.
Per ragionare sul perché l’Italia di oggi offende le donne, secondo la più consolidata pratica filosofica, Marzano comincia da un’altra domanda, che prima di lei altri pensatori si erano posti: cos’è una donna e che differenza esiste tra un uomo e una donna? E una seconda domanda, tristemente attuale, più impietosa e più difficile quasi della prima: che cos’è l’Italia di oggi?
E le risposte la Marzano le cerca nella Storia, nella cultura del nostro paese, ma soprattutto le cerca nel corpo delle donne. Dentro la verità del corpo, di un corpo troppo esposto, caricaturizzato, umiliato, martoriato e violato.
Un corpo che - ascoltato - suggerisce e guida, un corpo che – inascoltato - si allontana e ti aliena, ti ammala, continuando a custodire un desiderio a tua insaputa, frastornato dal desiderio indotto e imposto.
Sarà dunque quella la verità che ci rende diverse? Ma dove sta, dov’è nascosta?
Il rigurgito sonoro e volgare di cultura machista che ha attraversato l’Italia negli ultimi vent’anni vuole confondere e distrarre, e come dice Marzano, creare “l’impossibilità di accedere al desiderio”.
Come dire: attenzione bambine vestite di tulle, principessine alla corte del principe ranocchio, ragazze griffate, olgettine, veline, letterine, meteorine, state facendo un gioco non vostro.
Ma questa nebbia dorata, polvere di stelle soffiata sugli occhi, comincia a far lacrimare di brutto, irrita, danneggia ben più delle otto ore che sembran poche, enormemente di più della schiena piegata sui libri, più delle attese sfibranti del concorso per entrare di ruolo, e produce (piano, un po’ troppo piano) un crescendo di indignazione, di rabbia, di pathos civile, che è quello che i genitori dovrebbero insegnare ai figli e alle figlie e gli insegnanti dovrebbero trasmettere ai ragazzi e alle ragazze nelle scuole. Avete presente la Tata Lucia? quella di Sos Tata? Inchiodatevi da sole le regole scritte in cameretta. Regola prima: Trovare una voce. Il corpo ve la suggerirà. E non smettere di urlare.


Elena Bellei

giovedì 27 ottobre 2011

Il salotto del martedì - verso "La vita autentica" di Vito Mancuso

Vito Mancuso, La vita autentica, Cortina 2009

Professore di Teologia moderna e contemporanea presso l'Università San Raffaele di Milano, autore del best seller L'anima e il suo destino (Cortina 2007), Vito Mancuso potrebbe sembrare un pensatore alla moda, reso ormai celebre da svariati passaggi televisivi e da violente stroncature da parte di testate cattoliche come “L'Osservatore Romano” e “Civiltà cattolica”.
Ma proviamo a leggere le sue pagine con animo sgombro da pregiudizi, e sentiremo una voce chiara che, con semplicità nutrita di letture bibliche e filosofiche, pone a tutti noi domande che ci interrogano nel profondo:c he cosa fa di un uomo un vero uomo? Cosa fa sì che la sua vita diventi autentica, cioè vera, buona, giusta? In che cosa consiste la libertà interiore?
Non sono questioni astratte, da addetti ai lavori. A ciascuno di noi è capitato di trattare ed essere trattato in modo non autentico, perché i rapporti umani sono spesso falsati da mascherature, falsità ed opportunismi. Spesso mentiamo agli altri perché non abbiamo il coraggio di dire la verità a noi stessi; soltanto liberandoci dalle nostre menzogne (dice Mancuso) potremo uscire dalla nostra finitezza e realizzare il nostro vero (e libero) sé interiore. “La vita autentica è all'insegna del viaggio, dell'uscita da sé verso la realtà... Per alcuni il viaggio verso l'autenticità sarà un esodo verso una patria, per altri solo un esodo senza patria, un'Odissea senza Itaca. Penso però che per tutti valgano le celebri parole dell'Ulisse dantesco, secondo le quali, alla luce della nostra essenza di uomini, la vita autentica è quella vissuta all'insegna del bene (virtute) e dell'amore per la verità (canoscenza)”.
Una lettura impegnativa, ma ricca di stimoli anche per il laico e il non filosofo che voglia affrontare la riflessione sui grandi temi dell'esistenza.
(a cura di Matilde Morotti)

giovedì 20 ottobre 2011

Leggere/Scrivere - Scrivere/Leggere - Corso di scrittura con Ugo Cornia

Parte il corso di scrittura "Leggere/Scrivere - Scrivere/Leggere", condotto dallo scrittore Ugo Cornia. I lavori del gruppo sono documentati nel blog http://www.comune.modena.it/biblioteche/leggerescrivere/.

Perché un corso di scrittura sul blog dei gruppi di lettura? Perché - come si capisce anche dal titolo scelto dal conduttore - leggere e scrivere sono due gesti strettamente connessi: non si scrive se non si legge. Così ogni incontro sarà costituito da una introduzione e da letture a cura di Ugo Cornia, da esercitazioni pratiche e poi dalla lettura collettiva dei testi dei partecipanti.

Il corso è a numero chiuso (minimo 15, massimo 25 iscritti). La quota di partecipazione è di 90 euro. I dieci incontri, a cadenza settimanale, si svolgeranno il martedì dalle 19 alle 21 nei giorni: 15, 22 e 29 novembre 2011; 6, 13 e 20 dicembre; 10, 17 e 24 gennaio 2012; 7 febbraio.

-Info ai numeri:

059 2032798/2931/2940

-Iscrizioni in biblioteca, al punto informativo di Sala Panaro, 1° piano, a partire dal 2 novembre



Leggere e scrivere, di Ugo Cornia

Tante volte, di pomeriggio quando è tardi, magari in quei periodi di luce calante come l’attuale che in un certo senso ti riempiono naturalmente di tristezza, allora uno non sa cosa fare ma sente che gli cresce dentro il magone e vorrebbe magari impiccarsi e inizia a chiedersi come trovare una corda e qualcosa su cui far passare la corda, ma la casa è moderna e senza travi, e lui magari invece di impiccarsi si mette a scrivere qualcosa; oppure meditava di trovare una pistola, sempre per spararsi un colpo in testa e farla finita, ma una pistola non ce l’ha e non frequenta abitualmente gente della mala per procurarsela, quindi non sa come fare quando un bel momento gli viene in mente che suo nonno era cacciatore e possedeva una doppietta, va in solaio a cercare questa doppietta e sposta tutto ma non trova la doppietta, allora telefona a sua zia per sapere che fine ha fatto la doppietta del nonno, e sua zia gli dice “nessuno aveva il porto d’armi, nessuno andava più a caccia, non sapevamo cosa farcene della doppietta, l’abbiamo regalata. Perché, a che cosa ti serviva la doppietta?”. Lui però a quel punto non dice a sua zia “mi serviva perché volevo spararmi un colpo, ma le dice che di colpo gli era venuta in mente la doppietta e voleva sapere che fine aveva fatto. E però dopo si mette a scrivere una invettiva segreta contro la zia e la madre che hanno regalato questa doppietta in un modo che secondo lui è stato troppo leggero, come se possedere una doppietta fosse completamente inutile. Soltanto che scrivendo l’invettiva poi gli vengono in mente tanti altri rancori e diverbi che inizia a scrivere un romanzo e va a finire che non si spara più. Anzi, quando legge le prime pagine della sua invettiva, dove c’è sempre il problema che non potrà usare la doppietta per spararsi, il problema di spararsi gli sembra ormai superato. Questi casi di cui abbiamo parlato sopra illustrano benissimo che la scrittura, come del resto la lettura, per esempio la lettura dei filosofi stoici, hanno spesso un grande potere curativo, sono arti terapeutiche. Per di più spesso possono anche essere divertenti, così il tempo vola. Poi per di più ancora possono anche essere noiose, e se sono noiose sarebbe addirittura meglio così le giornate non finiscono mai, cioè durano di più, e a uno gli sembra di vivere cent’anni e magari ne vive solo sessanta.

venerdì 7 ottobre 2011

Il salotto del martedì - 4 ottobre 2011 - Libertà, di Jonathan Franzen






Un’altra famiglia al centro delle storie e delle analisi psicologiche di Jonathan Franzen, la famiglia Berglund, a partire dalle sue radici familiari, personali, strettamente autobiografiche, per continuare nelle ramificazioni relazionali con gli amici d’infanzia, del college e della vita matura.
Patty e Walter si trovano a vivere una fase di crisi dopo che i figli hanno lasciato la casa: Jessica vive lontana per frequentare l’Università, Joey, ancora molto giovane, ha lasciato la famiglia con un gesto di ribellione e di grave rifiuto, andando a vivere coi vicini di casa, per stare vicino a Connie, la ragazzina alla quale è molto legato. Patty, che nei confronti di Joey ha mostrato un amore preferenziale, soffre questo distacco come uno sfregio, un lutto così profondo che la porta alla depressione e alla dipendenza dall’alcol. I due genitori colti, benestanti, progressisti faticano non poco a gestire questi cambiamenti: dai loro comportamenti educativi si aspettavano altri risultati! Tutto ora è rimesso in gioco, Patty dubita di aver scelto Walter per vero amore, e finisce per tradirlo con Richard, musicista rock, amico del marito: questo rapporto è vissuto con sensi di colpa, con passione, ma senza una vera libertà. Walter, incapace di stare accanto a Patty, così cambiata e distaccata, si dedica completamente alla difesa dell’ambiente, utilizzando l’azione un po’ compromettente di una fondazione miliardaria che da una parte mira allo sfruttamento delle risorse energetiche e dall’altra si applica alla salvezza di specie protette di uccelli o alla lotta contro l’aumento eccessivo della popolazione della Terra.
Joey marca la sua differenziazione dalla famiglia, cercando il successo e il danaro: la sua scelta lo porta a contatto con l’America degli affari della guerra in Iraq, con l’America che costruisce verità ai propri fini per mantenere il potere politico e soprattutto economico.
Dopo aver condotto le loro vite per vie diverse, spesso dolorose e cariche di grandi ripensamenti, i due genitori si ritrovano e si ricostruisce anche un dialogo con i figli su nuove basi.
Uomini, donne, ragazzi, vecchi che cambiano, si trasformano, cercando se stessi nel corpo vivo della società americana, tra gli anni ottanta e gli anni 2000. Una società prima in ascesa fiduciosa, talora un po’ credula e poi spaurita, arrabbiata, spesso rabbiosamente individualista.
L’America della Libertà, della Verità, della superiorità morale, della crescita senza limiti vacilla: chi siamo? dove è andata a finire la nostra innocenza? la nostra superiorità morale? apparteniamo a un paese diviso all’interno delle famiglie, tra sobborghi e metropoli, tra vicini di casa, tra passato e futuro?
Una storia familiare e di maturazione personale come tante altre, ma anche dell’America messa alla prova dall’autoanalisi di donne e di uomini della classe media, che si interrogano sul loro ruolo di genitori e di parte cospicua della società, nel momento in cui le comunità locali diventano sempre più portatrici di interessi individuali meramente egoistici.
A questo punto si deve riconoscere che la narrazione di Franzen fa la differenza per la forte attenzione a ogni sviluppo psicologico ed emotivo: una vera e propria sapienza analitica applicata alle condizioni dei suoi personaggi.
La narrazione ha due parti essenziali, incentrate nell’analisi che la protagonista fa dell’autobiografia (redatta su consiglio del suo terapeuta): nella prima vengono ricostruite, con un'autoanalisi minuziosa, e si potrebbe dire di liberazione, talora quasi ironica, le relazioni di Patty con la madre, con il padre e le sorelle, il rapporto di dedizione con l’amica ossessiva, la competitività ingarbugliata sul campo da gioco della pallacanestro, le scelte di madre e di moglie; nella seconda parte, che viene presentata come “Una specie di epistola di Patty Berglund per il lettore”, c’è il racconto della costruzione faticosa, ma positiva di una biografia autonoma della protagonista, che accetta la solitudine per ricercare i legami con la famiglia d’origine, con i propri bisogni e la propria vocazione.
Altri capitoli essenziali sono dedicati a Walter; viene ricostruita la sua origine: una famiglia svedese immigrata all’inizio del ventesimo secolo in cerca di libertà, benessere e indipendenza, con caratteristiche peculiari di rabbia, dissenso, isolamento. Walter però coltiva la sua differenza nel senso di responsabilità: responsabilità verso la famiglia, l’ambiente, l’amicizia. Il suo lutto sta proprio nel dover accettare che ogni buona strada comporta dei compromessi. In questi capitoli viene a galla la passione ecologista dell’autore, la sua esperienza di osservatore della natura, l’analisi piuttosto pessimista dei rapporti tra capitale, politica e ambiente.
Al centro del romanzo fa da motore il rapporto dialettico depressione/libertà; la depressione appartiene all’uomo e alla società quando entrano nel cammino della consapevolezza e dell’indipendenza. Depressione, perché non si è più certi di sé, di quanto è stato costruito dalle generazioni passate, perché si avverte il cemento franante delle relazioni personali, la ragnatela delle bugie, delle falsità del potere. La trama delle storie individuali e delle famiglie mostra la faticosa ricerca di altre basi fondative per un patto che favorisca legami più liberi nelle famiglie, nelle piccole comunità, nella Nazione, tra cittadini e Stato.
Cosa chiedevano all’America le famiglie d’origine emigrate dall’Europa? Spazi “selvaggi” di libertà dove costruire, nel rischio e nella responsabilità, comunità ed individualità originali, nutrite dell’orgoglio e della certezza di essere unici. I loro eredi, la nuova classe media, inquieta e rabbiosa, amaramente riconoscono che i padri, le classi dirigenti e il potere economico non sono esenti da macchie, che l’America della natura libera e selvaggia è ridotta, da una parte a riserve naturali di libertà condizionata per uomini e animali, e dall’altra a sobborghi ordinati e lindi, dove scopri che il tuo vicino ti odia, ti disprezza e diffida di te; che le donne ancora competono facendo i conti con devastanti sensi di colpa.
Alla libertà dei grandi spazi si sono sostituite le metropoli, dove si può ritrovare l’accettazione delle diversità, dove confluiscono ancora una volta uomini e donne da ogni parte del mondo, sperando nella libertà di esprimersi e di giocare le proprie caratteristiche di originalità.
In un saggio del 1996, Franzen ha scritto che lo scrittore di romanzi si carica di tutto il dolore dei personaggi che rappresentano la società intera; anche in Libertà l’autore vuole dare un quadro corale della società americana (in particolare della costa orientale) carica di tensione, poco riconoscibile nelle nuove generazioni, consapevole del declino politico, morale ed economico. Alla base della scrittura di Franzen c’è il problema di preservare l’individualità e la complessità in mezzo al frastuono, alla durezza, alla violenza dei tempi, alle distrazioni della cultura di massa.
Il suo messaggio finale tuttavia esprime mitezza e gentile fiducia nella possibilità di reggere la verità, di ricominciare a parlarsi, di offrire e saper accettare gesti gratuiti di vicinanza. Fiducia, infine, nell’istinto così come si può osservare nel miracolo di un uccellino che infine ce la fa a riprodursi.
Quando la depressione riesce a mantenersi su un fondamento di responsabilità verso di sé, verso la famiglia, la società e l’ambiente, riconduce gli uni agli altri e libera dalla violenza della rabbia .
(a cura di Luisa Magnani)

giovedì 6 ottobre 2011

Uomo e donna li creò




Parte il gruppo di lettura della biblioteca Delfini condotto da Elena Bellei. Filo conduttore il rapporto uomo-donna. Il gruppo si incontrerà il sabato mattina dalle 10 alle 12, a partire da sabato 12 novembre, in sala conferenze. Nella colonna di destra, troverete il calendario degli incontri e la presentazione del percorso a cura di Elena Bellei.

Ci si può iscrivere dal 12 ottobre, telefonando ai numeri:

059 2032978 / 059 2032931 / 059 2032940

martedì 4 ottobre 2011

Il salotto del martedì - Verso "Libertà" di Jonathan Franzen

Si riparte con i gruppi di lettura (e non solo...) della stagione 2011-2012.

Parte per primo il gruppo di lettura "Il salotto del martedì", organizzato e gestito dall'Università per la libera età Natalia Ginzburg. Per leggere la presentazione del percorso 2011-2012, cliccate nella barra a fianco su "Salotto del martedì". Sempre nella colonna a fianco, il calendario degli incontri.
A breve saranno pubblicate anche le informazioni sul nuovo gruppo di lettura condotto da Elena Bellei, "Uomo e donna li creò" e sul nuovo corso di scrittura "Leggere/Scrivere - Scrivere/Leggere", condotto da Ugo Cornia.


Il gruppo "Il salotto del martedì" ha letto durante l'estate il libro di Jonathan Franzen Libertà, e dedicherà quindi il primo incontro a scambiarsi impressioni e opinioni su questo libro, che Matilde Morotti, una delle due conduttrici, introduce così:
Chi conosce Le correzioni, sa che uno dei temi preferiti di Jonathan Franzen è la “vera famiglia americana”, quella in cui i genitori cercano di tirare su i figli in modo perfetto e naturalmente falliscono. Anche in Libertà (il romanzo che il presidente Obama ha deciso di leggere durante le vacanze) c'è una famiglia apparentemente esemplare, con il padre e la madre che restaurano con grande impegno una villetta vittoriana e si prodigano nell'educazione dei due figli; amatissimo e fonte d'orgoglio per la madre soprattutto il figlio maschio, il biondo Joey.
Passa il tempo e si scopre che Joey ha spezzato il cuore della mamma andando a vivere con gli odiati volgarissimi vicini; d'altra parte la madre sprofonda nelle depressione anche a causa del fallimento del suo matrimonio: ha sposato infatti il “bravo ragazzo” Walter, pur essendo da sempre innamorata dell'amico di lui, la rockstar Richard.
Una storia di famiglia, quindi, i cui temi sono l'amore, il matrimonio, l'educazione dei figli.
Ma Franzen è uno scrittore fluviale, e le 622 pagine costituiscono un vasto affresco che ambisce a darci un quadro esauriente della società americana di fine-inizio millennio, dall'era dei figli dei fiori all'11 settembre. Oltre alla famiglia,un altro argomento-cardine è l'ecologia, dato che il protagonista maschile, Walter, è un ambientalista convinto e decide (sia pure in modo un po' contraddittorio) di salvare la “dendroica cerulea”, un uccellino americano in via d'estinzione. Purtroppo, per raggiungere lo scopo, fa un patto col diavolo, cioè con la grande compagnia che , in cambio della salvezza dell'uccellino, decide di sfrattare duecento abitanti per scavare la cima di alcune montagne del West Virginia.
Insomma un romanzo di vasto respiro, ricco di personaggi ed argomenti, che mette in luce le tortuosità, gli errori e i compromessi attraverso cui si snoda la vita di tutti.





















martedì 13 settembre 2011

Ti consiglio un libro... anzi due: Veladiano, Nemirovsky



Per una strana causalità, tra i vari libri infilati nella valigia delle vacanze ce n'erano due, letti uno dopo l'altro, che tendevano a mescolarsi nella testa, per una serie di echi.
Il primo, La vita accanto, di Mariapia Veladiano (Einaudi 2011), è la storia di una bambina e poi di una donna che deve fare i conti con la sua bruttezza, una bruttezza vera, non una di quelle piccole imperfezioni che ogni donna è così abile a riconoscere nello specchio. A questo insulto della natura e della sorte, si aggiunge la convinzione che proprio la sua bruttezza sia la causa del comportamento della madre, che dal giorno della sua nascita rifiuta ogni contatto con lei, chiudendosi in una cupa solitudine. Altre figure, sempre femminili (poiché il padre, elegante e gentile, in realtà non riesce a fare nulla per la sua bambina, se non isolarla ancora di più “per proteggerla”) si fanno carico di accogliere Rebecca, di amarla, di incoraggiarla: la governante Maddalena, l'amica, la zia. E infine si scoprirà che anche la madre non rifiutava la figlia, ma la vita stessa, in un contesto di affetti familiari confusi.
Rebecca quindi, in qualche modo, ce la farà a entrare nella vita, anche se un po' lateralmente, un po' “in ombra”, aiutata da uno straordinario talento musicale, che le consentirà di esprimere la ricchezza della sua vita interiore.

Il secondo, Il vino della solitudine, di Irène Némirovsky (Adelphi 2011), definito il più autobiografico e personale dei libri della scrittrice ebrea di origini russe, che pochi anni dopo morirà in un campo di concentramento, racconta dell'infanzia infelice della piccola Hélène, la cui madre è troppo concentrata su di sé o impegnata a farsi corteggiare dal suo giovane amante per accorgersi del bisogno di amore della figlia. Anche qui dunque un sofferto rapporto madre-figlia. E anche qui una figura femminile diversa dalla madre, che si fa carico di amare e ascoltare Hélène, Madamoiselle Rose, l'amata istitutrice, il cui nome si sostituisce a quello della madre nelle preghiere serali. Hélène, che intanto si trasforma da bambina un po' goffa in affascinante giovane donna, medita verso la detestata madre la più crudele delle vendette. Ma alla fine prevale in lei il desiderio di andare oltre. Da un'infanzia infelice non si guarisce mai, eppure “non si può essere infelici quando si ha questo: l'odore del mare, la sabbia sotto le dita... l'aria, il vento”. Gli anni dell'infanzia sono stati terribilmente duri – dice ancora la Némirosvky - “ma mi hanno temprata, hanno rafforzato il mio coraggio e il mio orgoglio. E questo mi appartiene. E' la mia ricchezza inalienabile. Sono sola, ma la mia solitudine è aspra e inebriante”.

Due donne, due infanzie difficili, due madri assenti, due diverse vie di riscatto.

mercoledì 17 agosto 2011



Ti consiglio un libro - Nuraghe Beach di Flavio Soriga

Flavio Soriga, Nuraghe Beach. La Sardegna che non visiterete mai, Laterza 2011

L'ultima opera di Flavio Soriga, Nuraghe Beach, è un bellissimo e intrigante invito al viaggio, rivolto a chi è curioso, non ha fretta ed è alla ricerca dei tratti distintivi di un popolo e di un luogo.
Il libro si presenta con una struttura originale: una Premessa, composta da ben 43 brevi capitoli, e Nuraghe Beach, di soli cinque capitoli, cui si aggiunge Bonus Track, una vibrante canzone reggae (Campidano Kiss).

La Premessa vive di due narrazioni parallele: l'epilogo della storia amorosa di Nicola e Marta, sospesa fra Roma e la periferia cagliaritana, e il dialogo fra Nicola e la cugina Katia, vivace sostenitrice del progetto di guida della Sardegna da intitolare Nuraghe Beach.
Questi due filoni narrativi si sviluppano in un contesto, la Sardegna, del tutto antiretorico e lontano dai fasti della Costa Smeralda, tessuto di città e paesi sfiorati dalla modernità, in cui è faticoso vivere, ma dove è necessario ritornare per ritrovarsi e ripartire.

E allora, come in un film sulla propria terra girato con amore incondizionato, scorrono davanti agli occhi i tanti fotogrammi della Sardegna di Nicola: Cagliari, la sua sterminata periferia, il fertile Campidano, dove si succedono paesi che sono ognuno un mondo a sé.

Questa sardità cagliaritana, mite e ironica, si misura senza complessi di inferiorità con i miti dello star system globale, addomesticandoli. Così capita per le moto fatte arrivare via mare dall’America da George Clooney, in vacanza con la Canalis a Tresnuraghes, per un viaggio tra Alghero e Bosa. Proprio a Tresnuraghes? “Ah, yeah, Tresnuraghes, sounds good”, dice lui. “La ragazza della porta accanto (…), in vacanza con George, ma non a Saint Tropez, non a Capri, non a Venice Beach, non a Montecarlo, non a Portofino, non a Forte dei Marmi. No, santo cielo: a Tresnuraghes”.

La sezione Nuraghe Beach presenta le testimonianze di diversi autori dedicate allo scudetto del Cagliari del 1970, vero catalizzatore di sardità, e in particolare a Giggiriva, moderno eroe originario di Cugliano, profondo nord, che ha scelto di restare a Cagliari.

La sezione Bonus track completa la narrazione col ritmo reggae di Campidano Kiss, un gesto poetico che vuole essere suggello affettuoso per chi ha assaporato il senso dei luoghi esclusi dai circuiti turistici di massa: “Questo bacio sardo speciale / un bacio osceno, senza pudore / senza finzioni, un po’ d’amore / e molta forza d’attrazione / un bacio impudico, osceno, enorme, arrogante, ma senza pretese / un bacio sardo campidanese”.

Come precisa la dedica in calce, Nuraghe Beach è proprio un atto d’amore verso Cagliari e la Sardegna, verso i “sardi che vanno e a quelli che restano / ai migranti e a chi li accoglie / nostra patria il mondo intero”.

Flavio Soriga è nato a Uta (CA) nel 1975, ha scritto:
Diavoli di Nuraiò (Il Maestrale 2000, Premio Italo Calvino), Neropioggia (Garzanti 2002, Premio Grazia Deledda Giovani), Sardinia Blues (Bompiani 2008, Premio Mondello Città di Palermo), L´amore a Londra e in altri luoghi (Bompiani 2009, finalista Premio Pen Club, vincitore Premio Piero Chiara), Il cuore dei briganti (Bompiani 2010).

lunedì 1 agosto 2011

Ti consiglio un libro - La voce delle immagini di Chiara Frugoni

Chiara Frugoni. La voce delle immagini. Pillole iconografiche dal Medioevo, Einaudi 2010.

A chi non è mai capitato, ad una mostra o in museo, di leggere termini astrusi sulle didascalie di un quadro o di una scultura, di giudicare incongruente la serenità di una Madonna ai piedi del figlio crocifisso oppure di non capire la disposizione delle figure e degli edifici in un quadro che non rispetta le proporzioni e ci racconta una storia con mille dettagli incomprensibili?

“Se non conosciamo il significato di una lingua rimaniamo magari colpiti dalla sua musicalità, ma la nostra superficiale comprensione non permette un dialogo e un arricchimento. Le immagini medievali si esprimevano con una loro lingua fatta anche di gesti in codice, di convenzioni architettoniche, di dettagli allusivi, di metafore, di simboli: se non li conosciamo, quelle immagini non hanno voce”.

Chiara Frugoni – studiosa del Medioevo - si è messa nei nostri panni e con il rigore dello storico che non dimentica mai di citare le fonti, ci offre preziose chiavi di lettura alle opere degli artisti medievali. Grazie al suo aiuto impariamo a riconoscere i gesti del comando, della sottomissione e dell’umiltà; le posture della sconfitta, dell’opposizione, della sofferenza e della perplessità: sentimenti e passioni che non possono trasparire dai volti, quasi sempre impassibili. Dai gesti della parola riconosciamo le situazioni narrative; risaliamo alle fonti dell’iconografia degli evangelisti, delle gerarchie angeliche e in particolare degli arcangeli; impariamo a riconoscere le fogge dell’abbigliamento liturgico, i segni di identificazione e di discriminazione imposti ai diversi (ebrei ed eretici soprattutto) e quelli utili a distinguere puntigliosamente i beati dai santi, i santi defunti da quelli dipinti quando ancora erano in vita. Nelle composizioni architettoniche dei quadri le leggi della prospettiva a volo d’uccello sono ricondotte ai canoni estetici e alle necessità didattiche della Chiesa del tempo. E ancora, le raffigurazioni di Cristo in Croce - trionfante o sofferente - e l’iconografia della Passione, con il significato simbolico degli animali del Bestiario.

Un saggio che cattura più di un romanzo.

venerdì 15 luglio 2011

Ti consiglio un libro - "Il quinto giorno" di Frank Schätzing

Frank Schätzing, Il quinto giorno, Nord 2005

Quando siamo al mare per le nostre vacanze difficilmente pensiamo a quanti rischi l'ecosistema marino corre a causa nostra: scarichi, rifiuti velenosi, trivellazioni, inquinamento portano alla moria di pesci e, di conseguenza, all'aumento delle specie marine a rischio di estinzione.
Ogni anno le associazioni ambientaliste lanciano i loro SOS per sensibilizzare l'uomo ad un maggiore rispetto degli equilibri naturali (quest'anno si è puntata l'attenzione sugli oceani ormai al collasso <http://www.repubblica.it/news/ambiente/rep_rinnovabili_ipso-oceani-al-collasso-in-un-generazione802255.html), ma senza grandi risultati.
Proviamo allora ad immaginare uno scenario in cui “il numero delle specie marine con comportamento aggressivo nei confronti dell'uomo aumenta drammaticamente” (p.478). Se tutte le specie marine manifestassero mutamenti nel comportamento e fossero loro a mettere in pericolo la sopravvivenza dell'uomo?
“Organismi mutati che improvvisamente sembravano consapevoli di quello che facevano […] L'uomo aveva spopolato i mari, lasciando solo qualche miserabile pesce, e i banchi sopravvissuti avevano imparato ad evitare le trappole mortali […] Il mare uccideva gli uomini” (p.481)

Questo lo scenario del romanzo di Franz Schätzing il cui titolo originale era appunto Der Schwarm ovvero lo sciame, il branco.
In italiano il titolo è stato tradotto come Il quinto giorno prendendo spunto dal nome del file che lo scienziato Sigur Johanson, protagonista del romanzo, utilizza per raccogliere i dati della sua ricerca su strani fenomeni che si manifestano in mare: sicuro che le creature marine abbiano acquisito un'intelligenza superiore a quella umana Johanson pensa che il quinto giorno Dio abbia creato gli esseri marini a sua immagine e somiglianza.

Piccoli pescatori spariscono in mare, poi scompaiono interi equipaggi di pescherecci, ma nessuno vi presta attenzione finché le balene cominciano ad attaccare le navi, i mitili ne bloccano le eliche e banchi di meduse velenose infestano gli oceani diffondendo strane malattie tra gli uomini. Un gruppo di scienziati ed esperti mondiali è chiamato a risolvere il mistero e fermare la terribile catastrofe ambientale che ha origine nel mare.

A dispetto delle 1032 pagine, la storia è estremamente coinvolgente proprio perché basata su ricerche e dati reali. Le spiegazioni scientifiche sono sempre chiare ed utili per comprendere e rendere ancora più avvincente la trama narrativa.
La passione dell'autore per le specie che popolano i nostri oceani lo ha portato anche ad approfondirne lo conoscenza da un punto di vista etologico pubblicando anche un altro volume intitolato “Il mondo d'acqua” che descrive scientificamente le meraviglie dell'universo marino.

Dopo aver letto questo romanzo non si potranno più ignorare le conseguenze dei nostri comportamenti, anche quotidiani, nei confronti del mare e dei suoi abitanti:
“Chi è in grado di decidere quale valore può avere una specie animale per lo spirito umano? Vorremmo boschi, barriere coralline e mari pescosi, aria pulita e laghi limpidi. Se continuiamo a danneggiare la Terra e ad annientarne la varietà, distruggiamo una complessità che non comprendiamo e che non saremo mai in grado di sostituire. Le cose che distruggiamo rimangono distrutte. Chi vuole decidere a quale parte della natura possiamo rinunciare?” (p.1020)

giovedì 7 luglio 2011

Ti consiglio un libro - "Invidia" di Elena Pulcini

 Elena Pulcini, Invidia, Il Mulino 2011

Si dice che l’estate sia la stagione delle letture meno impegnative, ma se qualcuno di voi concorderà con me che si tratta di un’affermazione perlomeno discutibile, si tuffi nel saggio di E. Pulcini.


Non si ammette volentieri di essere talora invidiosi: l’invidia è una passione logorante, triste, che tende ad infognarsi; proprio per questi motivi è stimolante analizzarsi, analizzare la società, le relazioni pubbliche e private, che difficilmente possono prescindere dall’invidia. Nel saggio che propongo viene studiata questa passione attraverso opere di narrativa, opere di filosofi, opere di economia e di politica. Scoprirete interessanti relazioni ad esempio tra invidia e democrazia, invidia e donne, invidia e moda… Non si tratta soltanto di una passione privata; essa è incarnata nella società, è una passione che va mutando e mutandoci.

Luisa Magnani

sabato 2 luglio 2011

Ti consiglio un libro - "Eva dorme", di Francesca Melandri


Francesca Melandri, Eva dorme, Mondadori 2010

Un pacchetto postale rispedito al mittente, una madre nubile in tempi difficili, una terra di frontiera divenuta italiana quasi per sbaglio. E un viaggio in treno lungo 1397 chilometri, dalle valli dell'Alto Adige fino al mare di Calabria, per ricomporre i tasselli di una vicenda interrotta al confine tra piccola e grande storia.
Donna moderna e insonne che fa un mestiere moderno, l'organizzatrice di eventi, l'io narrante Eva – ma la vera protagonista è sua madre, Gerda - scende al Sud per accomiatarsi dall'uomo che avrebbe voluto per padre (“solo una volta nella vita mia madre è stata certa dell'amore per un uomo, e io di quello di un padre, mentre tutti gli altri sono passati come acquazzoni estivi: ci hanno infangato le scarpe, ma lasciato i prati secchi”).
Eva dorme, è un romanzo che cattura, ampio e avvolgente, una storia al tempo stesso intima e politica in cui i personaggi reali – da Silvius Magnago ad Alexander Langer – 'dialogano' con quelli di finzione.
Sceneggiatrice di successo al suo esordio nella narrativa, l'autrice ha vissuto a lungo in Alto Adige e sa restituirne tutta l'ambivalenza: storica innanzitutto, recuperando alla nostra memoria di turisti distratti episodi salienti o dimenticati – l'italianizzazione forzata sotto il fascismo, lo sradicamento culturale, il terrorismo degli anni '60 – ma anche linguistica e sentimentale, nelle tante parole in tedesco e nel richiamo dolente all'Heimat che percorrono l'intero libro.

Cinzia Pollicelli

(Francesca Melandri incontra i lettori alla Biblioteca Delfini di Modena giovedì 14 luglio alle 18,30, all'interno del ciclo Di genere gentile. Donne che parlano di donne).

martedì 14 giugno 2011

Ti consiglio un libro - Settanta acrilico trenta lana di Viola Di Grado

Come scrive Viola Di Grado!

Dopo aver visto la sovraccoperta del suo libro d’esordio, Settanta acrilico trenta lana (E/O 2011), tappezzata dalla lista dei premi letterari per i quali l’autrice è segnalata, o è candidata o è già vincitrice; dopo aver letto tutti i commenti strabilianti - «Formidabile prova di scrittura», «Una scrittura che sa impregnarsi del delirio grazie a un sicuro possesso dello strumento espressivo», «Scrittura poetica e corrosiva», «Viola Di Grado azzera la lingua e spinge le parole da risignificare verso un tono speciale»,  «una scrittura che ricorda la forza narrativa di Kitano immersa in una vasca di acqua gelata di poesia di Björk», e molti altri di questo tono (!) - volevo proprio scoprire se la ventitreenne catanese è davvero la nuova Virginia Woolf, oppure se si tratta della grande truffa del rock ‘n’ roll.

E con felicità - e pure un po’ di invidia per una giovanotta che sembra avere la maturità stilistica di una quarantenne - ho scoperto che non c’è trucco e non c’è inganno: Viola di Grado scrive davvero bene. A volte un po’ innamorata della sua stessa scrittura, a volte un po’ compiaciuta in una allure da dark lady, ma non c’è dubbio che ci sa fare con le parole.

E anche con le storie, perché la vicenda narrata è un ossessionante circolo vizioso di compulsioni e manie di una madre, di una figlia e – come se non bastasse – degli altri personaggi che a poco a poco si avvicinano a Camelia, la protagonista. Ogni figura sembra incapace di fuggire da un loop di sensi di colpa, odio, amore, crudeltà, desiderio, il tutto all’ombra di una cappa di monotonia che ha il colore del cielo grigio di Leeds.

E non vedo l’ora di vedere Viola Di Grado dal vivo, intervistata da Elisa Vignali a Modena, venerdì 8 luglio alle 18, all’interno del ciclo di incontri Di genere gentile. Donne che parlano di donne, che si tiene nel chiostro di Palazzo S. Margherita, all’interno dell’Estate modenese 2011.

lunedì 23 maggio 2011

Inni alla notte (con musica)


Alla fine è arrivata la notte. E la città ha regalato parole. Avete idea di quante parole sono state dette, lette e cantate  in una sola notte? Nemmeno il rombo delle Rosse le ha fatte tacere. (Neanche il raduno delle Lambrette). Sono state annunciate, accompagnate,  amplificate e si sono moltiplicate  all’infinito perché, dopo, davanti a un frizzantino fresco, hanno continuato a girare.

Tenera è la notte di parole! E rara. Di solito si preferisce dormire (se chiedete in giro ve lo confermeranno), oppure parlare sussurrato, o intendersi con altri modi e maniere. Ma per chi ama  rifarsi le orecchie (una variante del rifarsi gli occhi) e sostituire il rumore di fondo con parole speciali, allora una notte (e una biblioteca) fanno davvero la festa.

Perché “ il cielo era così pieno di stelle, così luminoso, che a guardarlo veniva da chiedersi: è mai possibile che vi sia sotto questo cielo gente collerica e capricciosa?...”

Perché “È bella di notte la città…Le persone si perdonano i vizi. La luce del giorno accusa, lo scuro della notte dà l’assoluzione……Nessuno chiede conto di notte…Di notte la città è un paese civile”.
 “Senti… mi vien la pelle d’oca” dice una signora seduta ad ascoltare i narratori della notte  in zona Holden sui gradoni rossi. Mentre suona un clarinetto. “Dolce e chiara è la notte e senza vento e queta sopra i tetti e in mezzo agli orti posa la luna..”. “C’ho il libro dal tempo della scuola… sarà anche impolverato. Non va micca bene”.

È una notte in Italia che vedi,  questo darsi da fare questa musica leggera, così leggera che ci fa sognare.

Elena Bellei
Ricordando Tenera è la notte - letture ad alta voce per restare svegli (14 maggio 2011)

lunedì 16 maggio 2011

Il salotto del martedì - 10 maggio 2011 - La tigre bianca

È possibile essere dalla parte di un assassino?
Il dibattito sul libro di Aravind Adiga inizia da questo interrogativo.
Pare proprio che sia possibile! L’autore crea le premesse per considerare Balram, protagonista, nonché assassino, un personaggio positivo.
Dopo aver sopportato miseria, fatica e soprusi, si ribella alla sua condizione di servo-schiavo, su cui tentano di fare ricadere un crimine che non ha commesso, capro espiatorio della “casta” a lui superiore; l’unico modo che trova per uscirne è la rapina e l’omicidio del padrone.
È un libro di formazione, in cui il protagonista racconta la sua storia a ritroso, dalle ambizioni di ragazzo che non vuole essere bloccato dalla paura come i compagni e - unico - sale a “vedere il forte”, al privilegio di frequentare la scuola, grazie a suo padre, che considera lo studio l’unico modo “per essere uomo”. Diventerà autista della famiglia più in vista del villaggio e si trasferirà a Delhi, la sua scuola allargata. Qui osserva, impara, valuta fino a diventare assassino per difendere la propria libertà.
Approderà, fuggendo, a Bangalore, la città simbolo di uno sviluppo diverso, che permette movimento e libertà. Il finale del libro sembrerebbe pessimista, in quanto pare che omicidio e rapina siano l’unica forma di riscatto e successo, frutto della legge che ormai prevale secondo il protagonista: la legge della giungla.
In realtà è presente anche il desiderio di riscatto, attraverso l’istruzione e la bellezza, tanto che Balram coltiva il sogno di fondare una scuola che privilegi la poesia, ma sia anche realista: “una scuola senza Buddha e senza Gandhi”, che renda i ragazzi come suo nipote consapevoli delle loro capacità.
Il libro ci presenta un’India diversa dagli stereotipi classici, una società ancora chiusa nelle caste, falsamente democratica, preda di corruzione e violenza. Scritto in forma epistolare (il protagonista immagina di inviare le sue lettere al ministro cinese che verrà in visita a Bangalore) il testo ha un taglio quasi giornalistico e crea attesa attorno all'avvenimento che “cambierà la storia”.
Vi è un occhio attento, estremamente realistico sulla “nuova India”, che ci ha indotto, nel gruppo, a ragionare sulle scelte di sviluppo che stanno facendo India e Cina, sulle analogie, sulle differenze, sui “modelli” a cui si riferiscono.
Interessante la considerazione del protagonista, che si chiede ad un certo punto: “I poveri sognano di diventare ricchi e i ricchi che cosa sognano?”.
(Resoconto a cura di Edda Reggiani)

giovedì 5 maggio 2011

Il salotto del martedì - verso "La tigre bianca", di Aravind Adiga

Se avete letto Cuccette per signora di Anita Nair, ricorderete la stazione di Bangalore, in cui fino al 1998 sopravviveva l'antiquata usanza dei posti in treno riservati alle donne.
Beh, la Bangalore di cui si tratta in questo romanzo (Aravind Adiga, La tigre bianca, Einaudi) è tutta un'altra cosa. Centro mondiale della tecnologia e dell'outsourcing, la città è un grande cantiere a cielo aperto, piena di giovani che, nei grattacieli di vetro, “fanno delle cose al telefono per gli americani”. È la nuova India, quella che sta diventando, al fianco della Cina, una delle maggiori potenze economiche mondiali: la Luce, cui il protagonista riesce ad arrivare sfuggendo al mondo delle Tenebre, cioè ai raccapriccianti villaggi di fango in cui vivono i “ragni umani”.
L'autore, che è un giornalista trentenne, vincitore nel 2008 del Booker Prize, costruisce il libro attorno ad un'efficace metafora: la tigre che parla col dragone, l'imprenditore indiano autodidatta che scrive sette lettere al primo ministro cinese, raccontandogli il lato oscuro della nuova “shining India”. Per far questo, il protagonista descrive la sua ascesa sociale, che è però, contemporaneamente, anche una discesa negli abissi della corruzione. Perché il guaio è che questa rivoluzione indiana è accompagnata dalla violenza, dal sopruso, dall'inganno di una falsa democrazia, in cui gli ultimi riescono a sopravvivere solo conformandosi alla legge della giungla. E l' “imprenditore” che racconta come è riuscito a raggiungere il successo, per quasi tutto il libro non è un uomo d'affari, ma un servo. “In questo paese una manciata di uomini ha addestrato il restante 99,9 per cento a vivere in un perenne stato servile”.
Il tutto descritto con stile sarcastico e tagliente: una lettura interessante, anche se lascia l'amaro in bocca.



Matilde Morotti

martedì 3 maggio 2011

Un libro, un film - 28 aprile 2011 - Quel che resta del giorno

Stevens, protagonista di Quel che resta del giorno, è il modello di una figura al tramonto: il maggiordomo incaricato di gestire tutti gli aspetti pratici della grande residenza di un influente membro dell’aristocrazia britannica. Il viaggio attraverso la campagna inglese, offerto dal nuovo padrone americano, diventa quindi l’occasione di riflettere su una professione che ha assorbito ogni istante della sua vita.
Ciò che caratterizza un grande maggiordomo è, secondo Stevens, la sua dignità. Sebbene una definizione accurata di questo valore non sia facile da individuare (vi sono infatti dedicate ampie pagine), a un grande maggiordomo sono richiesti assoluta lealtà e obbedienza verso il padrone e il massimo impegno e coerenza nell’adempimento del proprio lavoro, qualunque esso sia. Questo ideale è perfettamente incarnato da Stevens.
Le qualità vantate da Stevens sono tuttavia perseguite con eccessiva coerenza, rivelando un atteggiamento ottuso che imprigiona il maggiordomo nella sua vita professionale. Stevens è infatti “cieco” sia nei confronti della storia (gli errori di Lord Darlington) che dei sentimenti (i tentativi di Miss Kenton nei suoi confronti). Questa doppia “cecità”, sia verso il padrone che verso i sottoposti, rappresenta la staticità di una società classista di cui Stevens e Lord Darlington sono immagini fedeli.
Quando Stevens mette a fuoco tutto ciò, è ormai troppo tardi: Lord Darlington ha fallito e Miss Kenton si è accasata. Che cosa dunque resta del giorno? Una profonda solitudine, contro cui Stevens è abbastanza corazzato per non tramutarla in disperazione, in perfetta coerenza con il proprio ruolo. D’altra parte, la vita di Miss Kenton gli mostra che esistono molti modi di essere coerenti, tutti assolutamente dignitosi.

martedì 26 aprile 2011

Legger con Ugo Cornia - 20 aprile 2011 - W o Il ricordo d'infanzia

Quante storie sono contenute in W o il ricordo d’infanzia? Ci sono l’incontro di Gaspard Winckler all’Hotel Berghof, i ricordi d’infanzia dell’autore, la descrizione della società W. Considerata indipendentemente, nessuna di queste è una vera e propria “storia”: la vicenda di Gaspard Winckler s’interrompe quando dovrebbe cominciare, alla partenza per W; la descrizione della società W è una sorta di saggio; i ricordi d’infanzia sono frammenti tra loro scollegati. Qual è il tratto d’unione intorno a cui si intrecciano questi testi?

“W” è il titolo di una storia scritta dal protagonista nel corso della sua infanzia. Questa storia descrive le caratteristiche di un regime sportivo in un’isola della Terra del Fuoco. Analogamente a molti dispotismi storici, anche a W sembra essere in vigore la supremazia del più forte. In realtà, la vita su W è più che altro regolata dal caso: gli atleti devono infatti fronteggiare una vasta serie di ostacoli arbitrari e casuali, che rendono l’esito delle sfide imprevedibile anche quando le forze in gioco sono impari. La supremazia del più forte è in definitiva soltanto un’illusione destinata a sfociare nel disincanto, come la maggior parte delle utopie, sia infantili che adulte.

All’inizio, l’autore afferma di non avere ricordi d’infanzia. Il viaggio a W consiste quindi in un loro recupero. Quasi tutti i ricordi d’infanzia sono “corretti” da una lunga serie di note e di ricordi posteriori, che rivelano come i loro contenuti non corrispondano quasi mai all’effettivo svolgimento degli eventi. Questo significa forse che quei ricordi d’infanzia fossero falsi? No, perché un ricordo non può mai essere vero o falso; può semmai essere perduto o posseduto. Il recupero della memoria, che sia della realtà o dell’immaginazione, è ciò che conferisce senso a questo libro.

venerdì 22 aprile 2011

Un libro, un film - verso 'Quel che resta del giorno' di Kazuo Ishiguro

Stevens è convinto in cuor suo di aver servito l’umanità consacrando la vita al servizio di un grande uomo. A Darlington Hall, lussuosa dimora dell’impeccabile Lord Darlington, è davvero passata la Storia.

Ma nel corso di un viaggio solitario, spostando lo sguardo su orizzonti inediti, Stevens rivede sotto una luce nuova e struggente non solo il proprio passato ma anche il tragico epilogo della guerra per il suo paese e per l’Europa intera.

Le ragioni del viaggio appaiono da prima agli occhi di Stevens esclusivamente professionali (riportare a Darlington Hall Miss Kenton, la governante che in altri tempi prestò servizio nella prestigiosa dimora inglese). Ma il suo andare altrove non sarà che un tentativo di illuminare, prima che sia troppo tardi, “quel che resta del giorno”, metafora di un momento della vita in cui la comprensione tardiva e la ricerca affannosa di qualcosa perduto per strada si tramuta in tormento o in resa.

Ma cosa è perduto? Kazuo Ishiguro sceglie la figura del maggiordomo Stevens e dunque di un servitore, per raccontare una vicenda che si dipana all’ombra degli aventi della grande Storia. Ma un servitore di quale causa? Di una sua personale (e felice) causa per cui lottare è cosa giusta? Per una causa ideale, personale e universale insieme, che nobilita i gesti del servire?

È difficile dirlo e addirittura comprenderlo perché la realtà è deformata se la si guarda riflessa dagli argenti di Darlington Hall, ossessivamente lucidati, e rischia di perdere di verità sotto il peso delle convenzioni formali. Tanto da divenire essa stessa forma e non contenuto, vuoto rituale e non ragione e non sentimento. Cosa resta del cuore più autentico, cosa resta dell’ideale più alto, cosa resta della nostra stessa vita se (chissà perché e in quale punto della strada) si perde la via. È possibile ripartire da lì, dove ci si è lasciati confondere?

Resta infine un profondo rimpianto, una coscienza ferita che (chissà) proprio grazie a quella stessa ferita si rende più vigile, più vulnerabile al fresco della sera, più sensibile alla luce del crepuscolo. E resta in questo caso un grande romanzo.

Elena Bellei, conduttrice del GdL 'Un libro, un film'