martedì 22 dicembre 2009

Tanti auguri...

...di buon Natale
e felice anno nuovo!

Un libro un film. Terzo incontro del GdL (17 dicembre 2009) – Il pranzo di Babette

Dopo uno scambio di doni letterari - personalissime strenne che prefigurano il clima natalizio -, Elena Bellei ci introduce alla figura di Karen Blixen, scrittrice e pittrice danese dalla vita avventurosa e dai tanti pseudonimi.
Concluso un lungo soggiorno in Africa, Karen torna nel paese natale con le disillusioni di chi ha perso tutto – il marito, l'amante, la fattoria – e una malattia che l'accompagnerà fino alla morte.

Se nel suo libro più celebre, La mia Africa, il tema portante è il possesso, si può sostenere che nel Pranzo di Babette sia il dono? Certamente si, se si pensa al grandioso regalo culinario di Babette, riservato alla comunità che l'ha accolta, ma soprattutto a se stessa.

Anche la scelta è un tema forte del racconto: scelta tra l’inseguimento, talvolta affannoso, della fama e del successo, e l’appagamento – ma anche la passività – di un’esistenza tranquilla. Il generale Lorens Loewenhielm è una figura al limite fra queste due opzioni: giovane attratto dalla ricerca di una profonda spiritualità la riscoprirà solo da uomo maturo, dopo una brillante e ambiziosa carriera e una vita calata nella mondanità.

La possibilità di scelta, però, ammette anche il suo contrario, la non-scelta, la rinuncia. Soprattutto nel film, e precisamente nella scena in cui Filippa canta con Achille Papin – il duetto Là ci darem la mano dal Don Giovanni di Mozart, in cui il famoso libertino flirta sfacciatamente con Zerlina per indurla a tradire Masetto, non sembra essere stato inserito casualmente dall’autrice –, la giovane figlia del decano rinuncia consapevolmente all'esperienza non solo dell’amore, ma anche del successo e della celebrazione del proprio talento.

Ma le scelte sono davvero tali? Il generale, nel suo discorso al pranzo, sembra smentirlo, mentre sostiene che tutto è un dono e che le scelte non sono davvero tali, perché l'uomo è guidato dai “capricci del destino”.

In un mondo esasperatamente puritano, in cui il fanatismo religioso non concede nemmeno la possibilità di costruirsi una famiglia, la casa del decano è il luogo del silenzio, dell’incapacità della comunicazione spontanea, del rifiuto delle emozioni e dei sentimenti. Persino Lorens, che nella vita mondana parigina sarà un ottimo conversatore, in quella casa era condannato ad un mutismo avvilito.

Tra l'egoismo, mascherato da generosità, del decano e le esasperazioni arrivistiche del generale, Babette si situa come un ponte tra i due mondi. Nelle scene finali del banchetto, questi mondi si avvicinano progressivamente finché le neve, ricoprendo ogni cosa, ne smussa gli angoli e ne uniforma le sembianze: i due mondi diventano tutt’uno. La fusione tra l’ambiente sterile di Berlevaag e la sensualità della vita altrove culmina nella decisione di Babette di non tornare in Francia: è questa la scelta che dà senso all’intero racconto. Alla stregua di un dio, o di un demiurgo, Babette non appartiene a nessuna delle due condizioni. E, tramite la sua cucina, sembra trasformarsi in metafora della letteratura: il cibo come la parola. Nel convivio, il cibo ridà vita a tutti i commensali e ognuno pare magicamente ritrovare se stesso. Il cibo, come la lettura, dà qualcosa a tutti.

L'arte che entra nel Pranzo di Babette non è solo quella di Achille Papin. La vera artista è Babette. Lei stessa si descrive come tale. Qualcuna sostiene però che Babette non sia proprio una artista, semmai una scialacquatrice di denaro.... In realtà, Babette sembra sperperare proprio per il piacere di farlo: il suo è un eccesso creativo. Babette, che è stata una Communard, e per i suoi ideali ha perso la famiglia, non nasconde che gli unici capaci di comprendere i suoi capolavori siano gli aristocratici, quegli stessi da lei avversati politicamente. La constatazione paradossale che porta Babette a riconoscere solo al nemico le capacità di ravvisare il talento sembra consacrare il concetto estetico dell’arte per l’arte, della creatività fine a se stessa, sottratta alla morale e a qualsiasi coerenza.

Ma Babette, che alcune di noi hanno interpretato come un angelo inviato a modificare gli assetti della piccola comunità di Berlevaag, o come l’incarnazione letteraria di Karen Blixen - pure lei una rivoluzionaria appartenente ad una élite –, rivela anche un lato diabolico. La tartaruga, alle due sorelle, appare come una creatura terrificante, un animale degno di una sabba; Babette e il suo aiuto cuoco dai capelli rossi impersonano una strega e il suo folletto, pronti a preparare pozioni magiche in una fucina di segreti alchemici.

Rispetto al film, per alcune il libro è una delusione, soprattutto per il diverso trattamento che il racconto riserva alla preparazione del pranzo. Accurato, emozionante, quasi sinestetico nella pellicola, appena abbozzato nel testo, dove le tanto decantate Cailles en sarcophage languono in una breve citazione, rispetto alla inebriante descrizione del film. Inoltre l'autrice, secondo alcune, non prende una posizione rispetto ai due possibili stili di vita proposti dal libro.

Dal punto di vista stilistico, notiamo come una categoria cinematografica come l'Astrazione lirica di Gilles Deleuze, intesa come capacità di spogliare, ripulire, mondare dell’inutile per giungere all'essenza, descriva bene lo stile asciutto di Karen Blixen.

mercoledì 16 dicembre 2009

Un libro un film - Il pranzo di Babette di Karen Blixen


Se il tema centrale del suo romanzo/diario, La mia Africa, (il più famoso di Karen Blixen) è il possesso, e l’intima volontà di lasciare un’impronta nell’animo altrui, quasi come una bandiera in terre che non ci appartengono (ricordiamo che la storia si dipana in epoca coloniale), l’asse portante del racconto Il pranzo di Babette è, al contrario, il dono.

Da una parte dunque la volontà di possedere, attraverso la seduzione e l’amore, ma anche con il denaro o la caccia grossa, o l’imposizione della propria cultura, dall’altra la gioia di condividere un piacere e assieme ad esso una verità che dice pressappoco così: il più bel dono è il tuo essere più autentico, dunque non tradire la tua “arte” e dai il meglio che puoi.

Filippa e Martina, le sorelle timorate di Dio del racconto (che fa parte della raccolta I capricci del destino) offrono generosamente alla povera comunità luterana di Berlevaag ciò che possiedono, ma minestra di patate e merluzzo secco si rivelano a lungo andare offerte misere come il loro misero spirito, mai alimentato dai piaceri della vita. Sì perché bellezza, talento e amore, quello vero fatto di abbondanza e non di privazione, di gioia e non di mortificazione, è sacrificato sull’altare della fede.
Il villaggio ha piccole case, una piccola chiesa, piccoli scialli grigi sulle spalle intirizzite dal freddo norvegese, e la frugalità materiale ed emotiva vissuta come una intima ricchezza (eredità del padre decano e profeta) non sarà garanzia di perenne armonia nella comunità ma origine di sottili rancori. Fino a quando non arriva Babette.
Babette è una raffinata cuoca francese, (ma la sua identità non sarà svelata se non alla fine della storia) in fuga da Parigi per le sue battaglie rivoluzionarie, alla ricerca di un rifugio sicuro nel desolato villaggio.


Babette, tanto grande quanto umile, presta servizio presso le sorelle cucinando zuppe di pane fino a quando una vincita alla lotteria non le permette di offrire alla piccola comunità un ricco pranzo alla francese, con menu a base di… brodo di tartaruga, cailles en sarcophage, blinis Dermidof, pregiato Veuve Cliquot, eccetera, eccetera, eccetera.
Tra i commensali solo il generale Loewenhielm, spasimante respinto da Filippa tanti anni prima e uomo di mondo (in visita al villaggio con la vecchia zia), riconoscerà Babette e il valore di quel cibo delle delizie.


Ma anche gli animi più austeri ne saranno intimamente toccati pur senza farne cenno né parola per fedeltà ai severi princìpi della loro dottrina. E per loro la vita non sarà più quella di prima.


Elena Bellei, conduttrice del Gruppo di Lettura della Biblioteca Delfini



sabato 5 dicembre 2009

Un libro un film - L'amore molesto. Visione del film



3 dicembre 2009 alle 17.30


Sin dalle prime battute, ci appare subito chiara la difficoltà, per lo spettatore non avvezzo alla parlata partenopea, di comprendere i fitti dialoghi in napoletano. Concordiamo anche sul fatto che, se non si fosse letto il libro in precedenza, la visione del film sarebbe piuttosto faticosa: non solo per l’ostacolo linguistico, ma anche per la concatenazione degli eventi, al limite tra realtà e allucinazione.



Eppure, nonostante tutto, il film chiarisce alcuni passaggi cruciali del libro. Dopo la violenza subita da nonno Polledro – nel film solamente evocata –, la piccola Delia inizia un percorso di allontanamento della parte femminile da sé, trasferendo sulla madre Amalia colpe inesistenti, che sfoceranno nella dolorosa bugia riferita al padre. Il processo di ‘maschilizzazione’ di Delia si arresta solo con la morte di Amalia; mentre la riappropriazione della femminilità perduta – nonché di un’idea non più distorta della madre – iniziata in una oscena e seducente Napoli, diviene fatto compiuto in treno, nel viaggio di ritorno alla realtà quotidiana, quando Delia beve dalla lattina di birra offertale da un giovane passeggero, inaugurando così un nuovo modo di godere della vita e del mondo.



Se, sulla base del romanzo, qualcuna di noi aveva ipotizzato che Delia, nella definitiva riconciliazione con la madre, arrivasse addirittura ad imitarne il gesto estremo – il supposto suicidio – il finale del film ci fa invece propendere, all’unanimità, per un lieto fine, con Delia finalmente rappacificata con se stessa e con Amalia.



Ad eccezione della scena della sauna, in cui il vapore diffuso sostituisce la copiosa traspirazione di Delia nel momento di intimità con Antonio, descritto nel romanzo, il film è molto aderente al libro. È noto infatti che per la sceneggiatura de ‘L’amore molesto’ Martone instaurò una stretta collaborazione con la stessa Elena Ferrante, peraltro dichiaratasi estremamente soddisfatta del finale della pellicola.



Ci interroghiamo sul titolo e ci rendiamo conto che l'’amore molesto’ non è solo quello tra il padre di Delia e Amalia, ma quello di tutti gli altri rapporti interpersonali, sofferenti e talvolta perversi.



Al contrario del libro, dove la pioggia è un intermezzo non troppo disturbante, nel film è anch'essa molesta, fitta e incessante come un tedioso brusio di fondo. Allo stesso tempo, l'atmosfera generale del racconto sembra più opprimente e cupa che nel lavoro cinematografico.



Durante la visione, notiamo una simbologia non presente nel libro, ancorché pieno di metafore: nel film la vista, intesa come sguardo interiore, introspezione, si materializza negli occhiali di Delia. Senza occhiali, da piccola, fraintende, costruendo soggettivamente la sua visione degli avvenimenti; da grande, appena li inforca, nel luogo in cui ha subito l'abuso, ricorda e rivede l'accaduto, riaggiustando in sé tanti piccoli pezzi che sembravano da tempo non combaciare.



Anche il colore rosso dell’abito di Delia – che ricorre nella locandina – nel film è più vivace che nel libro, in cui viene descritto di una tonalità ruggine. Lo stesso rosso incandescente trasfigura la vestaglia di Delia, che nel testo è di un rassicurante color cipria. Il sangue, che nel volume è l’emblema della purificazione di Delia, nel film sembra dunque tingere di senso gli indumenti che legano spiritualmente madre e figlia.


martedì 1 dicembre 2009

Un libro un film - Secondo incontro del GdL (26 novembre 2009) – L'amore molesto


Dopo la presentazione del blog del Gdl, Elena Bellei introduce la figura misteriosa dell'autrice: Elena Ferrante, scrittrice senza volto, che fa sentire la sua voce esclusivamente tramite la scrittura. Uno strumento così potente – come lei stessa ha spiegato – da lasciare lo scrittore totalmente esposto, tanto da rendere superflua qualsiasi altra forma di comunicazione. Forse utilizza uno pseudonimo, e c'è chi ha pensato a Domenico Starnone o Goffredo Fofi.

Per conoscerla meglio leggiamo, al termine dell'incontro, alcuni brani da La Frantumaglia, raccolta di lettere, scritti vari, interviste.


Breve resoconto della discussione

Il soggetto portante del libro, definito da alcuni critici “thriller dell'anima”, sembra essere la ricerca e la ricostruzione dell'identità della protagonista Delia, tramite la (ri)-scoperta della madre Amalia.


Il romanzo appare come un'esaltazione dell'ambiguità: ogni personaggio fluttua in uno scenario dove ogni azione può venire annullata da un gesto di segno opposto. In primis Delia, con il suo aspetto androgino, il rapporto amore-odio che la lega alla madre Amalia – lei stessa sciatta oppure vezzosamente elegante – e ancora il suo essere stata una bambina dallo sguardo adulto, costretta a vigilare sulla madre dalla sensualità dirompente.


Il libro è l'elaborazione di un lutto profondo, la morte della madre, intesa anche, e soprattutto, dal punto di vista simbolico. Il flusso mestruale copioso che colpisce Delia al funerale, il vestito rosso che Delia decide di indossare sembrano suggerire una lettura simbolica, attraverso la morte della bambina che è in lei. La catabasi di Delia è la discesa in una città infernale, la Napoli della sua infanzia: un viaggio di purificazione che si compie attraverso il sangue (alcune notano analogie con la simbologia del sangue di Quell'oscuro oggetto del desiderio di Buñuel) e la porta alla rinascita nel mondo adulto. D'altronde, lo stretto legame tra morte e nascita si annuncia fin dall'incipit del romanzo: «Mia madre annegò la notte del 23 maggio, giorno del mio compleanno».


In tutto il libro, Delia bambina rivive in Delia adulta. La piccola Delia e il padre desiderano entrambi la stessa cosa: avere Amalia tutta per sé, in maniera esclusiva. Il padre reagisce alla libertà della moglie malmenandola, Delia chiudendosi nello sgabuzzino da piccola, e rifiutando la madre da grande. Come tutti i bambini, Delia nega la sensualità e la sessualità della madre, che vorrebbe eterea come un angelo: è impaurita dall'esuberanza di una donna che si dimostra alla lunga vincente, capace di lasciare il marito e di concedersi un gioco erotico senile. Amalia è una donna aperta, dalla sensualità a tratti volgare, come quando si alza la veste in ascensore per rinfrescarsi.


Eppure, in questo gioco di rimandi simbolici, Amalia si rivela una sorta di Grande Madre. Consapevole della propria imperfezione, insegna alla figlia che la vita è un coacervo di compromessi e contraddizioni, come quando le lascia in dono il vestito rosso, segnalandole un modo di vivere altro, liberato, sanamente femminile. Amalia indica una via d'uscita a Delia, la quale, dopo il rifiuto iniziale, incorpora in sé alcune caratteristiche materne. Per alcune, l'ultimissima frase del romanzo, «Io ero Amalia», rivela la completezza conquistata da Delia, che si riappropria di quanto perso della madre arrivando ad un'identità compiuta, anche se non necessariamente felice.


Ma rinascere da se stessa, come la fenice, è un percorso tortuoso. Delia deve prima perdonarsi l'errore commesso da piccola, un errore fatale, ma pur sempre l'errore di una bambina, priva degli strumenti per elaborare le intuizioni, le emozioni, le paure che la divoravano. Proprio lei, che proteggeva la madre dagli sguardi degli uomini perfino sui mezzi pubblici, era arrivata a tradirla con una bugia. Delia, innamorata di Caserta – il corteggiatore della mamma – di un amore infantile, così infatuata da arrivare a identificarsi con la madre e allo stesso tempo esserne gelosa, sfinita dal continuo “controllo” su una donna costantemente oggetto delle attenzioni maschili, aveva preferito la tragedia piuttosto che la continua sofferenza. La difficoltà dell'infanzia è ribadita nel libro: «L'infanzia è una fabbrica di menzogne che durano all'imperfetto: la mia almeno era stata così».


Se il rapporto tra donne è burrascoso, interrotto, ma alla fine salvifico, non si può dire altrettanto delle relazioni con gli uomini. Sono tutte figure negative: di un'aggressività bieca e fine a se stessa, come il padre; disgustose, come solo un vecchio sporcaccione può essere (il vecchio Caserta); di un maschilismo ignorante e antiquato come lo zio, solidale col padre anziché con la sorella; “geneticamente” meschine come tutta la schiatta dei Polledro. Delia nega l'idea del maschile anche nel sesso, dove si arresta prima del rapporto completo.


Un certo naturalismo alla Zola compare soprattutto nella descrizione dell'underground napoletano e delle pulsioni emotive che da esso sembrano generarsi: l'oscenità e volgarità dei bassifondi impediscono a Delia di vivere l'idea infantile della madre eterea. Nella descrizione di una Napoli brulicante di corpi, in cui i personaggi sono continuamente incalzati, inseguiti, dove non c'è salvezza perché non c'è solitudine, anche la lingua gioca un ruolo importante: il dialetto gridato, gli insulti a sfondo sessuale, il gergo osceno rimandano Delia alla sua triste infanzia. Tanto Napoli quanto il dialetto vengono disconosciuti, rifiutati per la loro urlata promiscuità.


L'ambiguità del libro sembra ripetersi anche nel confronto tra le tematiche e lo stile: se i contenuti sono assolutamente “di pancia”, con un'enfasi sul corpo che spinge verso un'attribuzione femminile, allo stesso tempo lo stile asciutto, secco, bloccato in un ritmo serrato, rimanda ad un autore uomo.


Il romanzo è indubbiamente un viaggio nell'inconscio. Un inconscio indagato con tale e tanta perizia tecnica da far presumere che dietro l'autrice si nasconda un esperto psichiatra. Parimenti, il fatto che ogni donna vi ritrovi almeno un elemento con cui identificarsi, un po' disturba: sembra di trovarsi di fronte ad una casistica da manuale di psichiatria. Così, il clima claustrofobico, infarcito di violenza fisica e morale, la pesantezza di alcune situazioni, senza poesia, senza tenerezza, sono, per qualcuna di noi, del tutto gratuite.

giovedì 26 novembre 2009

Un libro un film - L'amore molesto di Elena Ferrante




È il corpo di Delia, adulta e bambina, che parla nel bel romanzo di Elena Ferrante, L'amore molesto. Un corpo scosso dalla morte misteriosa della madre che nel ricordo a tratti si sovrappone alla figura di lei, ora con rabbia e fastidio, ora con la volontà di riscattarne l'immagine più vera, per farla vivere anche dopo che il suo corpo è stato ritrovato in mare, con addosso solo un costoso reggiseno di pizzo.

La madre, Amalia, era bruna e bellissima, i capelli le luccicavano “come la pelle di una pantera”, curiosa, pacatamente divertita, motivo di attenzioni scurrili da parte degli uomini del quartiere e per queste sue “colpe” colpita con violenza dal marito ad ogni accesso di gelosia. Anche Delia nei suoi confusi sentimenti di bambina la vive come fonte di irrequietezza e di pericolo a causa della violenza che il suo stesso esistere procura, tanto che, confondendo realtà e fantasia, in una mistura di ingenua sensualità infantile, si inventa e confessa peccati inesistenti della madre con l'amico di famiglia, Nicola Polledro, detto il Caserta...“che non se la voleva togliere dalla testa”.

Sarà il Caserta (“puro agglomerato di trepidazioni infantili”) ormai vecchio, ancora seduttivo, elegante, dai capelli bianchissimi e curati, che giocherà con Amalia un gioco tardivo fatto di vanità e feticismo e che, per poco tempo e pericolosamente, restituirà alla donna il suo corpo negato.

I quartieri poveri di Napoli che fanno da sfondo alla storia, grondano come i protagonisti di una fisicità inquieta fatta di erotismo aggressivo, di palazzi fatiscenti, di invalidità del corpo esibite in cambio di favori, di segreti o di verità gridate.

Quanto racconta il corpo a saperlo ascoltare? Quanto la sua materia di carne e sangue (lacrime, vomito, olfatto) si fa invadente e si trasforma in visione, memoria, fantasma? E infine cosa può trovare seguendo le orme lasciate da un altro corpo, quello materno? Si potrebbe dire un libro sul segreto, o sulla colpa, sul rapporto complicato e ambivalente tra madre e figlia, o ancora una storia sull'identità che viene al mondo, trova spazio e ossigeno solo dopo una degna sepoltura della madre, non “nella vasca di pietra grigia colmata di terra”, ma nella terra interiore e feconda delle proprie figlie. Non a caso l'incipit del libro ci dice “Mia madre annego' la notte del 23 maggio, giorno del mio compleanno...”.

Elena Bellei, conduttrice del Gruppo di Lettura della Biblioteca Delfini


venerdì 20 novembre 2009

Un libro un film - Revolutionary Road. Visione del film


12 novembre 2009 alle 17.30.
Siamo in sei e in questo piccolo e raccolto gruppo vediamo il film.
Le considerazioni sul rapporto tra testo scritto e filmico sono piuttosto concordi. Nel libro i personaggi sono biechi, velleitari, personaggi veri e propri, con tutte le contraddizioni e insicurezze delle persone vere; nel film alcuni tratti sono smussati, April e Frank sono modelli meno negativi, quasi giustificabili in certe loro scelte.
April, che pure ha la colpa di aver sovrastimato le doti del marito nella fase iniziale del loro rapporto, successivamente sembra mortificarlo, per rivalutarne il talento solo durante la colazione prima della sua morte. Dal canto suo, Frank mitiga il suo egoismo con un affetto posticcio e la sua decisione di non partire per Parigi è più una resa, che una presa di coscienza della realtà. Forse nel film guadagna in umanità, perdendo parte di quella falsità che lo contraddistingue nel libro.
Nel film la sete di evasione di April è giustificata non solo dal desiderio di cambiare città, ma dalla necessità di riempire il vuoto della sua vita con un lavoro, con la legittimazione della sua esistenza oltre gli attributi di madre e moglie.
John è forse l'unico eroe positivo: anche nel film ha un ruolo fondamentale per l'evoluzione di una storia altrimenti bloccata e, come nel libro, è l'unica voce di verità in un mondo fatto di ipocrisia.
Sicuramente il film sconta l'impossibilità di dare conto dei retroscena familiari dei Wheeler, bloccando la narrazione in un determinato momento storico, privo dei rimandi alle rispettive famiglie dei protagonisti, fondamentali per una approfondita comprensione dei loro comportamenti.

martedì 17 novembre 2009

Un libro un film - Primo incontro del GdL. Revolutionary Road


Giovedì 29 ottobre, per la prima volta, si riunisce il Gdl della Biblioteca Delfini.
Dopo thé, pasticcini e presentazioni di rito, il GdL - tutto al femminile – entra nel vivo dell'incontro: Revolutionary Road, il libro di Richard Yates, la cui trasposizione cinematografica è piuttosto recente.

Breve resoconto della discussione
Il primo stimolo proposto da Elena Bellei è rintracciare il tema dominante del libro e le risposte sono le più varie: storia di illusione e delusione; storia d'amore; di sogno e inganno; di coppia; dei ruoli sociali, intesi come gabbie da cui è impossibile scappare; storia di una partenza sbagliata; commedia umana ambientata negli anni Cinquanta.

Di certo, tutte le partecipanti hanno le idee piuttosto chiare: alla maggioranza il libro piace molto, pur escludendo ogni immedesimazione coi personaggi, ma anzi allontanandosi dalle loro istanze; per poche, invece, il giudizio è piuttosto duro, fino a considerare il libro deludente e di un realismo fine a se stesso.

Parliamo dei personaggi: 'foresta pietrificata', figure 'poco strutturate', incapaci di muoversi in un mondo borghese sempre uguale a se stesso ma che, paradossalmente, vivono in una strada chiamata 'Revolutionary road'. Il loro immobilismo è forse una delle chiavi di lettura del romanzo, in cui i ruoli sociali fissi, come quello di madre e moglie per April, impediscono ogni possibile fuoriuscita o cambiamento di prospettiva. Personaggi irrisolti, con poca interiorità, che non si conoscono nel profondo e privi degli strumenti - razionali, ma soprattutto emotivi - per uscire dal loro mondo-gabbia. Sono prigionieri della loro storia familiare: April per esempio non è stata amata e non può amare. Eppure proprio lei, che non è in grado di prendersi cura di nulla e nessuno, nemmeno delle piante del giardino, è però in grado di smuovere le energie altrui, come quando informa i vicini della partenza per Parigi.

Il vuoto sembra essere uno dei protagonisti del romanzo. Se non si agisce, nell'ambiente e sull'ambiente, si è condannati a soccombere: il cambiamento - sottolineano alcune partecipanti -, non può avvenire cambiando luogo e scenografia, ma solo cambiando se stessi. April, arrivando a scoprire la sua solitudine, diviene un personaggio tragico, una femminista fallita e sola, senza veri legami, senza un gruppo, sperduta in un mondo che ad alcune ricorda i quadri di Hopper. Frank è invece l'apoteosi della falsità: è un uomo costruito, nella camminata, nello sguardo, nell'approccio alla gente.

Tra i personaggi - talora odiosi, talora di una fragilità spiazzante -, conveniamo sul ruolo fondamentale di John, il matto, il diverso, eppure così lucido e caustico nell'analisi della vita dei Wheeler in particolare e della situazione umana in generale. Sembra essere una figura chiave, portatrice di verità e primo motore della scelta, in fin dei conti suicida, di April. John, forse il solo ad essere in ascolto della sua interiorità, è matto ma lucido, mentre April e Frank, socialmente ritenuti 'sani', cercano di stordirsi e perdersi nell'alcool.

Le gabbie dei ruoli sociali tornano anche nei momenti che dovrebbero essere più liberi da stereotipi comportamentali, come gli incontri con gli amici, immancabilmente innaffiati di Martini. Anche le case, spesso descritte nel romanzo, sono intese come status symbol, come gusci protettivi, ma allo stesso tempo come gabbie.

Ci chiediamo, poi, se la storia rappresentata appartenga ad un'epoca precisa o sia piuttosto senza tempo e senza luogo. Per alcune la storia è tipicamente americana e figlia di un ben determinato periodo storico. Per altre la vicenda, ancora così attuale dopo 40 anni dalla pubblicazione del romanzo, sembra invece 'universale' ed emblematica del fallimento del modello tradizionale di matrimonio e di famiglia.

Anche i nomi dei protagonisti offrono un felice spunto di lettura: April è una coscienza tormentata, proprio come il mese di Aprile; Milly, la vicina di casa, è 'molliccia', 'smidollata'; in contrasto alla sua natura fittizia, Frank è 'franco', 'trasparente'.

Alcune fanno degli accostamenti con altre opere ed altri autori: si è notato come Yates si sia ispirato a Flaubert, e April sia una trasposizione di Madame Bovary. Anche T.S. Eliot viene chiamato in causa, come possibile autore di contatto con Yates.

venerdì 13 novembre 2009

Un libro un film - Revolutionary Road di Richard Yates


Una domanda che affiora, dopo aver lasciato decantare i sentimenti contrastanti per Frank e April Wheeler, protagonisti di Revolutionary Road, trentenni americani in pieni anni ‘50, genitori distratti di Jennifer e Michael, è questa: quando il sogno che spinge con alterna insistenza sulla coscienza inquieta dei protagonisti (l’Europa, la vita altrove, una esistenza più vicina alla propria autentica natura) debba infine considerarsi “fuori portata”? Che cosa lo trascina fuori dalla soglia del possibile? Chi non ha sufficiente forza morale per crescere un sogno come si cresce un figlio? E quanto quello stesso sogno, tramutato in illusione, si rende complice di quell’esistenza asfittica che tenta di sfuggire, o nel peggiore dei casi, fonte di dolore e di tragedia?
Il quotidiano piccolo borghese si mette in scena in una casetta bianca con giardino nel complesso residenziale di Revolutionary Hill. Frank ha un impiego, (poco amato) alla Knox, una azienda produttrice di calcolatori, dove prima di lui aveva lavorato il padre. April resta a casa con i figli. Sperimenta per poco un tentativo di carriera teatrale che risulta fallimentare. I vicini sono invasivi, gli amici (Shep e Milly Campbell), con i quali i due giovani condividono serate esageratamente alcoliche, oscillano tra solidarietà affettuosa, ammirazione e gelosia. Shep ama April segretamente.
Sulla vita della coppia, che pure potrebbe apparire senza ombre a uno sguardo estraneo, aleggia uno scontento greve, alimentato da parole mal dette e violenze reciproche. Una infelicità che nasce lontano (i riferimenti all’infanzia di April ce lo confermano, come la decisione di Frank di mandare la moglie dallo “strizzacervelli”) e mai compensata da una esistenza vissuta come dimezzata, così diversa da quella sognata.
Pare che tutto ruoti attorno al vuoto, al mancante, tanto che anche i piccoli risultano inconsistenti ombre di passaggio, e solo lo strampalato John, in visita in casa Wheeler nei pomeriggi di libera uscita dal manicomio, ne coglie le tragiche contraddizioni.
Ma se per Frank quella infelicità non si rivela mai come vero e proprio male di vivere, (sarà presto placata da una promessa di carriera e da una banale storia extraconiugale), per April è disperata energia, da prima convogliata in progetto (anche i giocattoli dei bambini sono già in valigia), e in seguito svilita e dispersa come in una rapida e fatale emorragia.
Richard Ford nella prefazione del libro ci offre una chiave di lettura consolatoria e claustrofobica al tempo stesso, e dice “l’autore guarda verso di noi con sguardo ammonitore, ci invita a vivere la vita come se avesse importanza tutto ciò che facciamo…” perché, attenzione, non farlo potrebbe mettere tutto in pericolo. Ma sarebbe troppo semplice pensare che ad April e Frank basterebbe guardare ciò che hanno per vincere il “vuoto disperato” che incombe sulla villetta bianca. Due destini senza via d’uscita sono già scritti nelle loro storie. Quello senza coraggio di Frank che si inganna due volte, riparandosi dietro le convenzioni sociali, senza troppa coscienza, e quello di April che porta fino alle estreme conseguenze la sua “rivoluzione”.

Elena Bellei, conduttrice del gruppo di lettura della Biblioteca Delfini

venerdì 30 ottobre 2009

Finalmente il gruppo di lettura della Biblioteca Delfini!


"C'è chi sostiene che la lettura sia pratica solitaria, condizione di dialogo intimista, piacere terapeutico, che frutta conseguenze più o meno percettibili sulla nostra coscienza. E c'è chi, al contrario, avverte l'incontenibile esigenza di trasformare la lettura in rito collettivo e fare partecipi gli altri della gioia che regala questa attività.
Abbiamo deciso di scegliere l'una e l'altra possibilità. Un libro al mese (da leggere in solitudine, sul divano, sotto un'ombra, in treno). E un incontro per parlarne insieme (in biblioteca, alla Delfini)."

Queste le parole di Elena Bellei, conduttrice del nostro neo-nato gruppo di lettura, per introdurci a questa avventura che riunisce bibliomani con la voglia di condividere emozioni, analisi, giudizi, dubbi sulle proprie letture. Elena Bellei, giornalista, si occupa di progetti di pari opportunità e di comunicazione interculturale. Autrice di racconti e testi teatrali, collabora con l'Istituto di Ricerca Centro Documentazione Donna di Modena.

Un libro, un film. Sette incontri tra lettori per conoscere libri che sono diventati film, questo il titolo che dà forma agli incontri del gdl, che si riunisce una volta al mese (da ottobre ad aprile), il giovedì alle ore 17.30, nella sala conferenze della Biblioteca Delfini.