giovedì 2 settembre 2010

Un libro un film - Julie & Julia di Julie Powell

Se si volesse prendere posizione nella infinita – e spesso sterile – querelle sul rapporto tra cinema e letteratura, il libro Julie & Julia (Rizzoli, 2009), è indubbiamente migliore del film (regia di Nora Ephron, 2009), nonostante la divertente interpretazione di Meryl Streep nel ruolo di Julia Child, la arcinota – quanto pressoché sconosciuta in Italia – chef che ha insegnato agli Stati Uniti le gioie della cucina francese, sia tramite i ricettari, sia attraverso la televisione.

Pur nella consapevolezza che, anche partendo dallo stesso contenuto, due linguaggi diversi danno vita a testi spesso non paragonabili, con Julie & Julia, non si può non ammettere la superiorità del libro, che pure non è un capolavoro, ma un buon compagno in ore oziose e magari assolate.

Per prima cosa, la figura di Julia Child, sorta di Gualtiero Marchesi d'oltreoceano, nel libro non è così ingombrante come nel film, dove, con modi così schietti da essere quasi irritanti, è veramente la co-protagonista insieme a Julie Powell, l'autrice. Nel volume, invece, Julia Child si limita ad essere l'ispiratrice del progetto di Julie, la cui unica aspirazione, nonché ossessione, nei successivi 365 giorni sarà la realizzazione delle 524 ricette raccolte nell'Arte della cucina francese. Oltre alla spesa, a caccia di ingredienti non sempre di facile reperibilità, le ore passate tra cipolle e interiora di animali vari, i lunghi momenti alle prese con la pulizia di montagne di pentole, il progetto Julie/Julia prevede anche la redazione di resoconti giornalieri in un blog, con l'autrice nei panni di una novella Samuel Pepys del villaggio globale.

Sempre nel libro, le vicende biografiche di Julia Child non occupano più di un paio di pagine all'inizio di ogni capitolo. Nel film, invece, la «gigantessa dall'esuberanza fastidiosa, ma stranamente attraente» ruba davvero la scena alla docile Julie Powell, tratteggiata più come una dolce e sconfortata post-adolescente, piuttosto che come la nevrotica, irriverente, strampalata, un po' alcolista, ma tanto simpatica trentenne, alle prese con i primi bilanci esistenziali, che si impara a conoscere nel libro.

Il romanzo, in realtà, è a tratti spassoso, in particolar modo nel delineare le perplessità di una massaia moderna alle prese con i sensi di colpa per la morte crudelissima inflitta a disgraziate aragoste, tranciate o lessate ancora vive – sensi di colpa che peraltro la protagonista sostituisce in fretta con una sorta di eccitazione da serial killer – o le difficoltà nell'estrarre, a regola d'arte, il midollo da ossobuchi occhieggianti, per ricavarne traballante gelatina.

Ma la progressiva incursione di Julie nel raffinato mondo della cucina francese rappresenta, a dire il vero, un avanzamento nella coscienza di sé, nella lucidità di giudizio sulla propria situazione di segretaria-trentenne-sposata-senzafigli, nella consapevolezza da cui partire per mettere in atto il cambiamento necessario per non soccombere di fronte alle frustrazioni della vita.

E il libro stesso non è altro che il risultato di tale cambiamento, résumé degli articoli postati dall'autrice nel suo blog personale e punto di partenza per una nuova vita fatta di passioni reali e non di odiati lavori volti alla sopravvivenza. Il tutto condito da parolacce non sempre indispensabili, ma di certo capaci di dare colore ad un testo in cui non si rinuncia a digressioni sul paralellismo tra cibo e sesso, arrivando alla conclusione che «il fegato di vitello è il cibo più sexy del mondo». C'è persino spazio per ricordare – senza retorica, solo un pizzico di cinismo – l'11 settembre.

Buona lettura insomma o, ancora meglio, «Bon appétit!» come avrebbe detto Julia Child.


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