martedì 22 dicembre 2009

Tanti auguri...

...di buon Natale
e felice anno nuovo!

Un libro un film. Terzo incontro del GdL (17 dicembre 2009) – Il pranzo di Babette

Dopo uno scambio di doni letterari - personalissime strenne che prefigurano il clima natalizio -, Elena Bellei ci introduce alla figura di Karen Blixen, scrittrice e pittrice danese dalla vita avventurosa e dai tanti pseudonimi.
Concluso un lungo soggiorno in Africa, Karen torna nel paese natale con le disillusioni di chi ha perso tutto – il marito, l'amante, la fattoria – e una malattia che l'accompagnerà fino alla morte.

Se nel suo libro più celebre, La mia Africa, il tema portante è il possesso, si può sostenere che nel Pranzo di Babette sia il dono? Certamente si, se si pensa al grandioso regalo culinario di Babette, riservato alla comunità che l'ha accolta, ma soprattutto a se stessa.

Anche la scelta è un tema forte del racconto: scelta tra l’inseguimento, talvolta affannoso, della fama e del successo, e l’appagamento – ma anche la passività – di un’esistenza tranquilla. Il generale Lorens Loewenhielm è una figura al limite fra queste due opzioni: giovane attratto dalla ricerca di una profonda spiritualità la riscoprirà solo da uomo maturo, dopo una brillante e ambiziosa carriera e una vita calata nella mondanità.

La possibilità di scelta, però, ammette anche il suo contrario, la non-scelta, la rinuncia. Soprattutto nel film, e precisamente nella scena in cui Filippa canta con Achille Papin – il duetto Là ci darem la mano dal Don Giovanni di Mozart, in cui il famoso libertino flirta sfacciatamente con Zerlina per indurla a tradire Masetto, non sembra essere stato inserito casualmente dall’autrice –, la giovane figlia del decano rinuncia consapevolmente all'esperienza non solo dell’amore, ma anche del successo e della celebrazione del proprio talento.

Ma le scelte sono davvero tali? Il generale, nel suo discorso al pranzo, sembra smentirlo, mentre sostiene che tutto è un dono e che le scelte non sono davvero tali, perché l'uomo è guidato dai “capricci del destino”.

In un mondo esasperatamente puritano, in cui il fanatismo religioso non concede nemmeno la possibilità di costruirsi una famiglia, la casa del decano è il luogo del silenzio, dell’incapacità della comunicazione spontanea, del rifiuto delle emozioni e dei sentimenti. Persino Lorens, che nella vita mondana parigina sarà un ottimo conversatore, in quella casa era condannato ad un mutismo avvilito.

Tra l'egoismo, mascherato da generosità, del decano e le esasperazioni arrivistiche del generale, Babette si situa come un ponte tra i due mondi. Nelle scene finali del banchetto, questi mondi si avvicinano progressivamente finché le neve, ricoprendo ogni cosa, ne smussa gli angoli e ne uniforma le sembianze: i due mondi diventano tutt’uno. La fusione tra l’ambiente sterile di Berlevaag e la sensualità della vita altrove culmina nella decisione di Babette di non tornare in Francia: è questa la scelta che dà senso all’intero racconto. Alla stregua di un dio, o di un demiurgo, Babette non appartiene a nessuna delle due condizioni. E, tramite la sua cucina, sembra trasformarsi in metafora della letteratura: il cibo come la parola. Nel convivio, il cibo ridà vita a tutti i commensali e ognuno pare magicamente ritrovare se stesso. Il cibo, come la lettura, dà qualcosa a tutti.

L'arte che entra nel Pranzo di Babette non è solo quella di Achille Papin. La vera artista è Babette. Lei stessa si descrive come tale. Qualcuna sostiene però che Babette non sia proprio una artista, semmai una scialacquatrice di denaro.... In realtà, Babette sembra sperperare proprio per il piacere di farlo: il suo è un eccesso creativo. Babette, che è stata una Communard, e per i suoi ideali ha perso la famiglia, non nasconde che gli unici capaci di comprendere i suoi capolavori siano gli aristocratici, quegli stessi da lei avversati politicamente. La constatazione paradossale che porta Babette a riconoscere solo al nemico le capacità di ravvisare il talento sembra consacrare il concetto estetico dell’arte per l’arte, della creatività fine a se stessa, sottratta alla morale e a qualsiasi coerenza.

Ma Babette, che alcune di noi hanno interpretato come un angelo inviato a modificare gli assetti della piccola comunità di Berlevaag, o come l’incarnazione letteraria di Karen Blixen - pure lei una rivoluzionaria appartenente ad una élite –, rivela anche un lato diabolico. La tartaruga, alle due sorelle, appare come una creatura terrificante, un animale degno di una sabba; Babette e il suo aiuto cuoco dai capelli rossi impersonano una strega e il suo folletto, pronti a preparare pozioni magiche in una fucina di segreti alchemici.

Rispetto al film, per alcune il libro è una delusione, soprattutto per il diverso trattamento che il racconto riserva alla preparazione del pranzo. Accurato, emozionante, quasi sinestetico nella pellicola, appena abbozzato nel testo, dove le tanto decantate Cailles en sarcophage languono in una breve citazione, rispetto alla inebriante descrizione del film. Inoltre l'autrice, secondo alcune, non prende una posizione rispetto ai due possibili stili di vita proposti dal libro.

Dal punto di vista stilistico, notiamo come una categoria cinematografica come l'Astrazione lirica di Gilles Deleuze, intesa come capacità di spogliare, ripulire, mondare dell’inutile per giungere all'essenza, descriva bene lo stile asciutto di Karen Blixen.

mercoledì 16 dicembre 2009

Un libro un film - Il pranzo di Babette di Karen Blixen


Se il tema centrale del suo romanzo/diario, La mia Africa, (il più famoso di Karen Blixen) è il possesso, e l’intima volontà di lasciare un’impronta nell’animo altrui, quasi come una bandiera in terre che non ci appartengono (ricordiamo che la storia si dipana in epoca coloniale), l’asse portante del racconto Il pranzo di Babette è, al contrario, il dono.

Da una parte dunque la volontà di possedere, attraverso la seduzione e l’amore, ma anche con il denaro o la caccia grossa, o l’imposizione della propria cultura, dall’altra la gioia di condividere un piacere e assieme ad esso una verità che dice pressappoco così: il più bel dono è il tuo essere più autentico, dunque non tradire la tua “arte” e dai il meglio che puoi.

Filippa e Martina, le sorelle timorate di Dio del racconto (che fa parte della raccolta I capricci del destino) offrono generosamente alla povera comunità luterana di Berlevaag ciò che possiedono, ma minestra di patate e merluzzo secco si rivelano a lungo andare offerte misere come il loro misero spirito, mai alimentato dai piaceri della vita. Sì perché bellezza, talento e amore, quello vero fatto di abbondanza e non di privazione, di gioia e non di mortificazione, è sacrificato sull’altare della fede.
Il villaggio ha piccole case, una piccola chiesa, piccoli scialli grigi sulle spalle intirizzite dal freddo norvegese, e la frugalità materiale ed emotiva vissuta come una intima ricchezza (eredità del padre decano e profeta) non sarà garanzia di perenne armonia nella comunità ma origine di sottili rancori. Fino a quando non arriva Babette.
Babette è una raffinata cuoca francese, (ma la sua identità non sarà svelata se non alla fine della storia) in fuga da Parigi per le sue battaglie rivoluzionarie, alla ricerca di un rifugio sicuro nel desolato villaggio.


Babette, tanto grande quanto umile, presta servizio presso le sorelle cucinando zuppe di pane fino a quando una vincita alla lotteria non le permette di offrire alla piccola comunità un ricco pranzo alla francese, con menu a base di… brodo di tartaruga, cailles en sarcophage, blinis Dermidof, pregiato Veuve Cliquot, eccetera, eccetera, eccetera.
Tra i commensali solo il generale Loewenhielm, spasimante respinto da Filippa tanti anni prima e uomo di mondo (in visita al villaggio con la vecchia zia), riconoscerà Babette e il valore di quel cibo delle delizie.


Ma anche gli animi più austeri ne saranno intimamente toccati pur senza farne cenno né parola per fedeltà ai severi princìpi della loro dottrina. E per loro la vita non sarà più quella di prima.


Elena Bellei, conduttrice del Gruppo di Lettura della Biblioteca Delfini



sabato 5 dicembre 2009

Un libro un film - L'amore molesto. Visione del film



3 dicembre 2009 alle 17.30


Sin dalle prime battute, ci appare subito chiara la difficoltà, per lo spettatore non avvezzo alla parlata partenopea, di comprendere i fitti dialoghi in napoletano. Concordiamo anche sul fatto che, se non si fosse letto il libro in precedenza, la visione del film sarebbe piuttosto faticosa: non solo per l’ostacolo linguistico, ma anche per la concatenazione degli eventi, al limite tra realtà e allucinazione.



Eppure, nonostante tutto, il film chiarisce alcuni passaggi cruciali del libro. Dopo la violenza subita da nonno Polledro – nel film solamente evocata –, la piccola Delia inizia un percorso di allontanamento della parte femminile da sé, trasferendo sulla madre Amalia colpe inesistenti, che sfoceranno nella dolorosa bugia riferita al padre. Il processo di ‘maschilizzazione’ di Delia si arresta solo con la morte di Amalia; mentre la riappropriazione della femminilità perduta – nonché di un’idea non più distorta della madre – iniziata in una oscena e seducente Napoli, diviene fatto compiuto in treno, nel viaggio di ritorno alla realtà quotidiana, quando Delia beve dalla lattina di birra offertale da un giovane passeggero, inaugurando così un nuovo modo di godere della vita e del mondo.



Se, sulla base del romanzo, qualcuna di noi aveva ipotizzato che Delia, nella definitiva riconciliazione con la madre, arrivasse addirittura ad imitarne il gesto estremo – il supposto suicidio – il finale del film ci fa invece propendere, all’unanimità, per un lieto fine, con Delia finalmente rappacificata con se stessa e con Amalia.



Ad eccezione della scena della sauna, in cui il vapore diffuso sostituisce la copiosa traspirazione di Delia nel momento di intimità con Antonio, descritto nel romanzo, il film è molto aderente al libro. È noto infatti che per la sceneggiatura de ‘L’amore molesto’ Martone instaurò una stretta collaborazione con la stessa Elena Ferrante, peraltro dichiaratasi estremamente soddisfatta del finale della pellicola.



Ci interroghiamo sul titolo e ci rendiamo conto che l'’amore molesto’ non è solo quello tra il padre di Delia e Amalia, ma quello di tutti gli altri rapporti interpersonali, sofferenti e talvolta perversi.



Al contrario del libro, dove la pioggia è un intermezzo non troppo disturbante, nel film è anch'essa molesta, fitta e incessante come un tedioso brusio di fondo. Allo stesso tempo, l'atmosfera generale del racconto sembra più opprimente e cupa che nel lavoro cinematografico.



Durante la visione, notiamo una simbologia non presente nel libro, ancorché pieno di metafore: nel film la vista, intesa come sguardo interiore, introspezione, si materializza negli occhiali di Delia. Senza occhiali, da piccola, fraintende, costruendo soggettivamente la sua visione degli avvenimenti; da grande, appena li inforca, nel luogo in cui ha subito l'abuso, ricorda e rivede l'accaduto, riaggiustando in sé tanti piccoli pezzi che sembravano da tempo non combaciare.



Anche il colore rosso dell’abito di Delia – che ricorre nella locandina – nel film è più vivace che nel libro, in cui viene descritto di una tonalità ruggine. Lo stesso rosso incandescente trasfigura la vestaglia di Delia, che nel testo è di un rassicurante color cipria. Il sangue, che nel volume è l’emblema della purificazione di Delia, nel film sembra dunque tingere di senso gli indumenti che legano spiritualmente madre e figlia.


martedì 1 dicembre 2009

Un libro un film - Secondo incontro del GdL (26 novembre 2009) – L'amore molesto


Dopo la presentazione del blog del Gdl, Elena Bellei introduce la figura misteriosa dell'autrice: Elena Ferrante, scrittrice senza volto, che fa sentire la sua voce esclusivamente tramite la scrittura. Uno strumento così potente – come lei stessa ha spiegato – da lasciare lo scrittore totalmente esposto, tanto da rendere superflua qualsiasi altra forma di comunicazione. Forse utilizza uno pseudonimo, e c'è chi ha pensato a Domenico Starnone o Goffredo Fofi.

Per conoscerla meglio leggiamo, al termine dell'incontro, alcuni brani da La Frantumaglia, raccolta di lettere, scritti vari, interviste.


Breve resoconto della discussione

Il soggetto portante del libro, definito da alcuni critici “thriller dell'anima”, sembra essere la ricerca e la ricostruzione dell'identità della protagonista Delia, tramite la (ri)-scoperta della madre Amalia.


Il romanzo appare come un'esaltazione dell'ambiguità: ogni personaggio fluttua in uno scenario dove ogni azione può venire annullata da un gesto di segno opposto. In primis Delia, con il suo aspetto androgino, il rapporto amore-odio che la lega alla madre Amalia – lei stessa sciatta oppure vezzosamente elegante – e ancora il suo essere stata una bambina dallo sguardo adulto, costretta a vigilare sulla madre dalla sensualità dirompente.


Il libro è l'elaborazione di un lutto profondo, la morte della madre, intesa anche, e soprattutto, dal punto di vista simbolico. Il flusso mestruale copioso che colpisce Delia al funerale, il vestito rosso che Delia decide di indossare sembrano suggerire una lettura simbolica, attraverso la morte della bambina che è in lei. La catabasi di Delia è la discesa in una città infernale, la Napoli della sua infanzia: un viaggio di purificazione che si compie attraverso il sangue (alcune notano analogie con la simbologia del sangue di Quell'oscuro oggetto del desiderio di Buñuel) e la porta alla rinascita nel mondo adulto. D'altronde, lo stretto legame tra morte e nascita si annuncia fin dall'incipit del romanzo: «Mia madre annegò la notte del 23 maggio, giorno del mio compleanno».


In tutto il libro, Delia bambina rivive in Delia adulta. La piccola Delia e il padre desiderano entrambi la stessa cosa: avere Amalia tutta per sé, in maniera esclusiva. Il padre reagisce alla libertà della moglie malmenandola, Delia chiudendosi nello sgabuzzino da piccola, e rifiutando la madre da grande. Come tutti i bambini, Delia nega la sensualità e la sessualità della madre, che vorrebbe eterea come un angelo: è impaurita dall'esuberanza di una donna che si dimostra alla lunga vincente, capace di lasciare il marito e di concedersi un gioco erotico senile. Amalia è una donna aperta, dalla sensualità a tratti volgare, come quando si alza la veste in ascensore per rinfrescarsi.


Eppure, in questo gioco di rimandi simbolici, Amalia si rivela una sorta di Grande Madre. Consapevole della propria imperfezione, insegna alla figlia che la vita è un coacervo di compromessi e contraddizioni, come quando le lascia in dono il vestito rosso, segnalandole un modo di vivere altro, liberato, sanamente femminile. Amalia indica una via d'uscita a Delia, la quale, dopo il rifiuto iniziale, incorpora in sé alcune caratteristiche materne. Per alcune, l'ultimissima frase del romanzo, «Io ero Amalia», rivela la completezza conquistata da Delia, che si riappropria di quanto perso della madre arrivando ad un'identità compiuta, anche se non necessariamente felice.


Ma rinascere da se stessa, come la fenice, è un percorso tortuoso. Delia deve prima perdonarsi l'errore commesso da piccola, un errore fatale, ma pur sempre l'errore di una bambina, priva degli strumenti per elaborare le intuizioni, le emozioni, le paure che la divoravano. Proprio lei, che proteggeva la madre dagli sguardi degli uomini perfino sui mezzi pubblici, era arrivata a tradirla con una bugia. Delia, innamorata di Caserta – il corteggiatore della mamma – di un amore infantile, così infatuata da arrivare a identificarsi con la madre e allo stesso tempo esserne gelosa, sfinita dal continuo “controllo” su una donna costantemente oggetto delle attenzioni maschili, aveva preferito la tragedia piuttosto che la continua sofferenza. La difficoltà dell'infanzia è ribadita nel libro: «L'infanzia è una fabbrica di menzogne che durano all'imperfetto: la mia almeno era stata così».


Se il rapporto tra donne è burrascoso, interrotto, ma alla fine salvifico, non si può dire altrettanto delle relazioni con gli uomini. Sono tutte figure negative: di un'aggressività bieca e fine a se stessa, come il padre; disgustose, come solo un vecchio sporcaccione può essere (il vecchio Caserta); di un maschilismo ignorante e antiquato come lo zio, solidale col padre anziché con la sorella; “geneticamente” meschine come tutta la schiatta dei Polledro. Delia nega l'idea del maschile anche nel sesso, dove si arresta prima del rapporto completo.


Un certo naturalismo alla Zola compare soprattutto nella descrizione dell'underground napoletano e delle pulsioni emotive che da esso sembrano generarsi: l'oscenità e volgarità dei bassifondi impediscono a Delia di vivere l'idea infantile della madre eterea. Nella descrizione di una Napoli brulicante di corpi, in cui i personaggi sono continuamente incalzati, inseguiti, dove non c'è salvezza perché non c'è solitudine, anche la lingua gioca un ruolo importante: il dialetto gridato, gli insulti a sfondo sessuale, il gergo osceno rimandano Delia alla sua triste infanzia. Tanto Napoli quanto il dialetto vengono disconosciuti, rifiutati per la loro urlata promiscuità.


L'ambiguità del libro sembra ripetersi anche nel confronto tra le tematiche e lo stile: se i contenuti sono assolutamente “di pancia”, con un'enfasi sul corpo che spinge verso un'attribuzione femminile, allo stesso tempo lo stile asciutto, secco, bloccato in un ritmo serrato, rimanda ad un autore uomo.


Il romanzo è indubbiamente un viaggio nell'inconscio. Un inconscio indagato con tale e tanta perizia tecnica da far presumere che dietro l'autrice si nasconda un esperto psichiatra. Parimenti, il fatto che ogni donna vi ritrovi almeno un elemento con cui identificarsi, un po' disturba: sembra di trovarsi di fronte ad una casistica da manuale di psichiatria. Così, il clima claustrofobico, infarcito di violenza fisica e morale, la pesantezza di alcune situazioni, senza poesia, senza tenerezza, sono, per qualcuna di noi, del tutto gratuite.