martedì 1 ottobre 2013

martedì 21 maggio 2013

Il salotto del martedì - 14 maggio - Casa d'altri, di Silvio D'Arzo

Silvio D'Arzo, Casa d'altri, Einaudi

 Fine d'anno serio e riflessivo, dedicato a uno scrittore forse dimenticato, forse morto troppo presto, uno di quegli autori un po' eccentrici ed isolati (Delfini, Cavani) che ogni tanto spuntano da noi, in Emilia.
Silvio D'Arzo era sicuramente una persona speciale. Figlio illegittimo, legatissimo alla madre (che forse traspare in controluce nel personaggio della vecchia, protagonista di Casa d'altri) desiderava ardentemente la gloria della pubblicazione – ma Casa d'altri uscì postumo - eppure si nascondeva dietro una quantità di pseudonimi. Per vivere faceva il professore e, cosa ben rara anche oggi, riusciva ad incantare gli studenti con spericolati passaggi dai Promessi Sposi alla letteratura inglese, di cui era finissimo interprete. Morì a trentadue anni, di leucemia; è ancor oggi ricordato quasi solo per un'unica opera, che periodicamente suscita l'entusiasmo dei lettori, da Montale a Tondelli.
La storia è così esile che si può riassumere in poche parole: subito dopo la guerra, sull'Appennino reggiano, una povera donna stanca della sua misera vita chiede al parroco una deroga dalla proibizione di uccidersi. Vuole farla finita, ma col permesso della Chiesa. Il prete, condannato da molti anni alla stessa vita senza luce di speranza dei suoi parrocchiani, è prima attratto dal mistero di quella solitudine, poi, quando dopo tante esitazioni la domanda è finalmente espressa, si scopre disarmato ed impotente di fronte alla disperazione della vecchia: non ha più parole, non sa consolarla né dissuaderla né indicarle una certezza. Può soltanto farsi toccare da quella tragedia, che è anche la sua personale tragedia e quella di tutti gli uomini. Non sappiamo se la vecchia, alla fine, si uccide o muore di morte naturale. Comprendiamo solo, assieme al prete, che il mondo in cui siamo gettati è “casa d'altri”, dove stiamo in affitto; e la morte vuol dire tornare a casa.
Tutto questo in una cinquantina di pagine; ma che tensione stringe il racconto, in un gioco di luci ed ombre, silenzi e rallentamenti, simmetrie e rimandi interni. Gli eventi sono minimi (rotola un sasso, passano ombre, il cielo trascolora) ma intrisi di risonanze tutte interiori. È un mondo arcaico, fuori del tempo, su cui incombe un senso di fatalità e di tragedia. Sappiamo fin dall'inizio che ci sarà una catastrofe, che qualcosa succederà, ma quando e come e che cosa, questo non ci è dato sapere.
Naturalmente, dato l'argomento, si è parlato molto di cose che negli anni '50 sarebbero state intese in modo meno laico, come ad esempio il suicidio assistito. Il libro stimola, senza dare certo facili risposte. Qualcuno tra noi vede in questi cuori in inverno la fioca luce di una stoica consapevolezza, più preziosa di una speranza. Ci lasciamo con molti interrogativi, certi però di aver affrontato una lettura significativa.

Matilde Morotti

martedì 23 aprile 2013

Il salotto del martedì - Il buon uso del mondo, di Salvatore Natoli

Salvatore Natoli, Il buon uso del mondo. Agire nell’età del rischio, Mondadori, 2010

Il titolo del libro non racchiude in sé il tema trattato. Parlare del “buon uso del mondo” dopo secoli (soprattutto il XX) di azione economica dedita allo sfruttamento selvaggio del pianeta, è impresa ardua, com’è ardua l’inversione di rotta per riportare lo sviluppo su posizioni accettabili e compatibili con il rispetto dell’ambiente.
Natoli parte da lontano, dal “fare e agire” aristotelico; il fare è qualcosa che transita, l’agire permane; il fare, quasi sempre, significa buttarsi nella mischia per sfuggire alla marginalità sociale, l’agire è esattamente l’opposto: trovare la ragione del fare per cambiare. Nell’agire c’è tutto il sapere materiale e intellettuale, che nel lavoro trova la sua realizzazione. Profonda è la connessione tra lavoro e libertà.
Nell’antica Grecia Aristotele vede nell’ozio, che non è il dolce far niente, una capacità di saper impiegare il tempo. Per praticare l’ozio bisogna possedere la sapienza, il valore, la moderazione, in breve la virtù.
Come gruppo ci siamo soffermati a lungo su questo punto: l’argomento era troppo interessante per non discettare e riflettere sul perché del moderno significato dis-attivo dell’ozio, dello staccare la spina. Alla considerazione del lavoro come fatica si contrappone il non far niente come recupero delle energie psico-fisiche.
Homo oeconomicus: denaro-produzione-consumo, circolo vizioso o benefico, dipende dai punti di vista: già nel XVIII secolo si era capita l’importanza di tale motore; Montesquieu: “Se i ricchi non spendono a piene mani, i poveri moriranno di fame”. La crisi odierna fotografa un’identica situazione, basta sostituire “ricco” con “classe media” e l’attualizzazione è fatta.
Veniamo al significato più stretto del titolo, che allude alla sostenibilità dei consumi: Natoli chiama in causa Spinoza, quando delinea il profilo della “condotta razionale”, poiché la filosofia non è astratto pensiero, ma criterio di vita, criterio regolatore della condotta degli uomini. Il consumo non è male se si inserisce nel “buon uso del mondo”. Consumare con giudizio. Gli individui devono acquisire competenza per capire quale tipo di consumo fa crescere e quale vizia. A mio modesto avviso il discorso diventa pedagogico e aleatorio: consumare cose utili o inutili, valutare l’indispensabile e il superfluo… si potrebbe andare all’infinito senza giungere a conclusioni. Natoli cerca agganci col pensiero sociologico contemporaneo di Serge Latouche, ma non riesce a dipanare la matassa tra consumi che fanno bene al mondo e consumi dannosi. Se pensiamo ai paesi emergenti che stanno crescendo a ritmi vertiginosi e non badano troppo al buon uso del mondo, come possiamo noi Occidentali che per secoli abbiamo consumato di tutto e di più salire sul pulpito e predicare decrescita, sobrietà, frugalità a miliardi di persone che lavorano per qualcosa di più del nulla?
Per Natoli neanche un discorso di etica può configurare una condivisa visione del mondo in senso antropologico; troppo spesso la si confonde con l’osservanza delle regole e delle norme, come un fastidio formale. Natoli riscopre nell’ethos il posto da vivere, di cui avere cura. A tale scopo, ancora una volta chiama in causa Aristotele: “l’uomo è un animale politico”, quindi è la politica che consente agli uomini di cooperare tra di loro in vista del bene comune.
Infine, nel capitolo dedicato alla democrazia, Natoli cita Pareto quando parla della vocazione delle élite ad esercitare il potere , ma anche della necessità del ricambio delle stesse per evitare degenerazioni della democrazia.
Utili appaiono gli accenni alla rete come mezzo di informazione e non di formazione. Inoltre Natoli vede bene un ritorno all’associazionismo, nelle sue svariate forme: partito, volontariato, comitati…, mezzi utili ad allargare la sfera pubblica dei processi formativi e decisionali della politica.

Tarcisio Maracchioni

venerdì 19 aprile 2013

Sotto lo stesso tetto - 13 aprile - Cassandra, Christa Wolf

Con la lettura di Cassandra di Christa Wolf siamo giunti al termine del ciclo di incontri Sotto lo stesso tetto dedicato al tema della famiglia nella letteratura contemporanea tedesca. Nel corso di questo viaggio intrapreso lo scorso ottobre in compagnia degli attori de  Il ratto d’Europa e di un folto gruppo di appassionati di letteratura, ci siamo addentrati in diversi luoghi ed epoche storiche per esplorare i lati più oscuri dei rapporti familiari non potendo evitare di raccontare anche qualcosa di noi stessi. Ci siamo lasciati con un’opera moderna che alle famiglie letterarie finora discusse ne ha aggiunto un’altra, la più antica di tutte, la stirpe di Cassandra, discendente prediletta di Priamo, Re di Troia, e di sua moglie Ecuba. Poiché la lettura di un testo continua anche dopo la riunione del gruppo, torno a pormi la domanda che ci siamo fatti sin dall’inizio: perché la Wolf fa rivivere la figura mitologica di Cassandra? Considerando il contesto storico-politico in cui nasce l’opera, ovvero quello della Repubblica democratica tedesca (DDR) all'inizio degli anni '80, è difficile non pensare che Cassandra, imprigionata dai Greci, conquistatori di Troia, sia un pretesto per parlare della propria realtà politica la cui dissoluzione in quegli anni si avverte come imminente. Ripercorrendo a ritroso la storia dell’illustre eroina troiana, la Wolf sembra evocare per mezzo del mito la sua stessa esperienza di donna e intellettuale impegnata politicamente nella DDR, dal cui regime prende progressivamente le distanze, seppur senza distaccarsi definitivamente, in quanto quello Stato, nonostante le sue profonde debolezze, è l’unico a cui si sente di appartenere. Se oggi una parte di noi lettori, come è emerso durante la discussione, ritiene questo testo in qualche modo datato perché tratta alcuni temi storicamente superati, d’altra parte resta il fatto che la stessa dimensione mitologica dell’opera restituisce al suo contenuto quell’universalità interpretativa che ci permette di osservare in maniera atemporale i meccanismi del potere, i suoi strumenti e gli effetti sulla natura umana. Il limite della discussione è stato forse nella tendenza della conduttrice di cercare le chiavi interpretative dell’opera nella critica esistente, piuttosto che lasciarsi trasportare dall’energia del testo. Nonostante ciò la discussione, accompagnata dalla suggestiva voce dell’attrice Donatella Allegro che ha letto alcuni brani dell’opera, è riuscita avvincente grazie alla vitalità del gruppo di lettura che, come sempre, ha sfidato con gusto e curiosità il libro proposto.

martedì 26 marzo 2013

Sotto lo stesso tetto - 16 marzo - La lingua salvata, Elias Canetti

La lingua salvata è il primo dei tre libri di memorie di Elias Canetti, in cui questo celebre scrittore, insignito del premio Nobel nel 1981, ripercorre la storia della propria infanzia e adolescenza dalla nativa Rustschuk in Bulgaria, attraverso Manchester e Vienna fino a Zurigo. Una giovinezza segnata da  frequenti spostamenti, dall’apprendimento delle lingue e culture diverse nei luoghi di nuovo insediamento, ma anche e soprattutto dalla morte prematura del padre che creerà nuovi equilibri nelle relazioni familiari mettendo al centro il rapporto di Elias con la madre. In queste pagine di straordinaria immediatezza e ricchezza letteraria, peraltro magistralmente tradotte dal tedesco da Amina Pandolfi e Renata Colorni, Elias Canetti appunta i ricordi, gli episodi della propria vita cruciali per la formazione della sua personalità poliedrica e della sua successiva concezione del mondo. Sullo sfondo delle grandi tragedie dell’umanità che si consumano negli anni narrati in questo primo volume – le guerre balcaniche, la prima guerra mondiale, la dissoluzione dell’Impero asburgico, la Rivoluzione russa – Canetti racconta l’esperienza profondamente intima della propria crescita all’interno di una famiglia ebraica di vocazione commerciale, ma fortemente attenta a coltivare e a diffondere tra i suoi membri interessi culturali nel campo scientifico, letterario, musicale, artistico. Soffermandosi sui momenti più drammatici e intensi della propria esistenza – i primi divieti e tabù, il decesso del padre e le crisi depressive della madre, i successivi contrasti familiari, il confronto con i compagni di scuola e gli insegnanti nel contesto storico-politico delle società in cui di volta in volta si trovava a vivere - Canetti ci fa riflettere su come il progresso, il miglioramento e l’affermazione dei singoli e la conquista della loro libertà individuale non conosce altre vie se non quelle dei perpetui sacrifici e delle dolorose, seppur necessarie, lotte personali. 

Centrale comunque resta nella formazione di Canetti, come già accennato, il rapporto con la madre sui cui si è incentrata in gran parte la discussione del gruppo di lettura condotta da Audrey Fahrtmann e Iris Faigle. Con la morte improvvisa del padre, la madre diventa il principale punto di riferimento dei figli, in particolare del primogenito Elias che assorbe tutte le sue attenzioni ed energie intellettuali. Il lutto della madre si risolve con il trasferimento al figlio della conoscenza della lingua tedesca, la lingua degli affetti e dell’intimità coniugale nella quale sin dal periodo degli studi viennesi lei amava conversare con il marito. Ma anche questo atto di autopreservazione culturale ed emotiva non è privo di traumi per il piccolo Elias costretto in poco tempo ad apprendere una lingua del tutto incomprensibile. L’accesso al tedesco, a una lingua di cultura, fino a quel momento riservata esclusivamente ai genitori, assicurerà a Elias un posto privilegiato nelle conversazioni con la madre, la partecipazione alla sua vita interiore. È in questa lingua, dolorosamente appresa, che Canetti scriverà il suo primo dramma, farà amicizie letterarie, discuterà sulle questioni del mondo, leggerà i grandi classici della letteratura tedesca, manterrà viva la propria voce.

La rilettura de La lingua salvata, un romanzo per eccellenza europeo, è stata resa ancora più incisiva e stimolante dall'interpretazione giocosa e creativa di alcuni brani da parte dell'attore Simone Tangolo del Ratto d’Europa.

giovedì 14 marzo 2013

Il salotto del martedì - 12 marzo 2013 - La donna giusta, di Sandor Marai


Sándor Márai, La donna giusta, Adelphi 2004

Si può partecipare al gruppo di lettura senza aver letto il libro in esame, oppure avendolo letto soltanto in parte? Si può. Il gruppo di per sé è nutriente; alle volte un buon libro si dimostra penetrante anche se viene soltanto raccontato o commentato dai pochi o i molti lettori presenti nel gruppo; l’entusiasmo o la ripulsa, la passione delle discussioni, i volti accaldati, gli occhi di quelli che l’hanno letto comunicano tanto tanto.
Nella conversazione qualcuno sostiene che La donna giusta è proprio un bel romanzo, interessante, talora difficile per quello che sembra continuamente rivelare e nascondere allo stesso tempo; qualcuno, a questo punto, avvisa il resto del gruppo che le loro prossime letture di Márai, Le braci ad esempio, saranno ancora più straordinarie.
Qual è il tema principale del romanzo? Inizialmente sembra essere l’amore, ancora una volta l'amore: tre monologanti si analizzano e analizzano dal loro punto di vista le relazioni che hanno intrecciato. Un uomo, la prima moglie e la seconda. Relazioni malriuscite, impossibili, psicologicamente per larga parte crudeli e violente. Anche dopo l’abbandono o le separazioni rimangono batticuori, rimpianti, mancati possessi, incompletezze, asprezze.
Le due donne, attraverso il matrimonio con Péter, mettono in moto un’evoluzione profonda della consapevolezza di quello che sono come donne; con la separazione, forse, acquisiscono un’individualità caratterizzante che nel matrimonio era loro negata in quanto schiacciate a interpretare un ruolo.
Marika, la prima moglie ha trovato il rispetto verso la propria indipendenza, verso una vita quieta di piccole sincere gioie senza compromessi, tuttavia non sembra del tutto pacificata, pare mantenere in sé il senso della sconfitta, di non essere stata capace sino in fondo a interpretare l’essenza del vivere borghese del marito e della sua famiglia.
Judit, la seconda moglie, viene da un infimo proletariato, quello che convive col fango e con i topi; incarna un’energia vorace e vendicativa: forte e intelligente, dimostra di saper imparare bene la lezione del vivere borghese, ma comprende che al massimo potrà essere apprezzata come una vincente del demi-monde ; ma Judit vuole affermare se stessa, non sarà mai un possesso del borghese Péter, lei vuole possederlo come gli oggetti di lusso di cui si appropria, senza peraltro esserne veramente interessata.
Péter è nato in una ricca famiglia dell’alta borghesia del centro Europa, che vive come una casta, con tutto lo splendore delle sue “virtù”: eleganza, cultura, cura di sé, del proprio status, tradizione, distinzione; la sua esclusività attrae e respinge allo stesso tempo.
Péter si può inchinare verso una donna, ad un certo punto si inginocchia davanti a Judit, che è stata assunta dalla sua famiglia come domestica, ma appunto abbassandosi ne sancisce l’inferiorità. Gli abiti di Péter, i suoi modi, ogni suo gesto decretano la sua superiorità, che gli viene dal fatto che non ha dovuto imparare ad essere “distinto”: egli è già incarnato nella perfezione del ruolo. Péter non può darsi mai totalmente perché, che lo sappia o meno, il suo compito è di passare a un figlio, in eredità, il privilegio di incarnare la sua separatezza di appartenente alla casta; ogni dispersione gratuita è proibita; una moglie viene coperta di gioielli e di abiti adatti alla “scena” della rappresentazione della superiorità borghese: questo le si può dare.
Ma l’amore è veramente il tema principale o l’unico tema del romanzo? La vita e le relazioni dei personaggi de La donna giusta sono incarnate nella storia del Novecento, dell’Europa che vede il crollo degli Imperi; le due guerre mondiali; il rimescolamento delle classi sociali, del potere e dei beni; l’emergere di nuove individualità senza cultura egemonica, senza tradizione, alle quali, nel mondo occidentale, viene infine offerto il consumismo come risarcimento.
Merita qualche considerazione a parte il personaggio di Lázár, lo scrittore di successo, che nel corso delle vicende del romanzo entra in intimità con tutti i personaggi come ogni buon creatore di storie, ma in realtà sta anche sempre fuori, in disparte, in solitudine e considera con sfiducia l’umanità che ascolta e descrive.
Anche Márai sentiva con forza di avere il compito della scrittura per illuminare la sua e la nostra epoca, ma la sua vera aspirazione era il silenzio nell’isolamento.
Il gruppo di lettura si scioglie; ognuno di noi ha segnato nei propri appunti titoli di libri da leggere per andare più a fondo.

Luisa Magnani

mercoledì 6 marzo 2013

16 marzo - prossimo appuntamento "Sotto lo stesso tetto"

Il gruppo di lettura non richiede iscrizione ed è aperto a tutti!



Hai letto La lingua salvata di Elias Canetti?

Ci vediamo nella Sala conferenze della Biblioteca Delfini dalle 15 alle 17 per confrontare le nostre esperienze di lettura.
L'incontro sarà condotto da Audrey Fahrtmann e Iris Faigle (Scuola DaF Modena).

venerdì 22 febbraio 2013

Sotto lo stesso tetto - 16 febbraio - Il morto di Passy, Barbara Bongartz


Barbara è una regista e scrittrice tedesca che da neonata fu abbandonata da sua madre e adottata da una coppia senza figli. I genitori adottivi di Barbara hanno ormai una certa età, sono separati da molti anni e vivono ciascuno per conto proprio in residenze per anziani, la madre a Zurigo e il padre da qualche parte vicino al confine olandese. Pure Barbara è divorziata dal marito e ha una relazione a distanza con Viktor che lavora come diplomatico in Afghanistan. Sono ormai molti anni che Barbara ha interrotto i rapporti con il proprio padre adottivo, un uomo egoista che aveva a lungo tradito e umiliato la moglie. Pur conoscendo sua madre naturale, Barbara non è mai riuscita a scoprire l’identità del suo vero padre di cui però sa che viene dal Sud della Francia. È forse questo l’elemento mancante per cui a un certo punto della sua vita Barbara si abbandona al richiamo di una lettera anonima che la porta a Parigi al funerale del suo presunto padre, Alphonse Steiner. Un improvviso colpo di scena, di cui lei stessa si crede protagonista, diventa il pretesto per immaginare una storia diversa delle proprie origini, in cui lei sarebbe frutto di una relazione romantica tra sua madre adottiva e un uomo pieno di qualità, l’opposto di suo padre adottivo. 

L’autore della lettera anonima è Bernd Hecking, un conoscente del defunto Alphonse Steiner e amico d’infanzia di Barbara. L’idea bizzarra di Bernd doveva essere una risposta scherzosa alla recensione di un romanzo di Barbara che nel frattempo era diventata scrittrice. Per Bernd il successo letterario della sua amichetta d’infanzia è prova di quella fervida immaginazione che Barbara nutriva sin da piccola quando giocando davanti a sua madre ipotizzava di essere figlia di altri genitori. In un incontro dopo il funerale Bernd scopre che Barbara non si è prestata al gioco della lettera perché ha voglia di divertirsi, ma perché è veramente alla ricerca di una risposta alla sua complicata e confusa identità di persona abbandonata e adottata. Quelle che Bernd da piccolo credeva fossero divertenti fantasie, erano in realtà manifestazioni di un sentimento di disagio e di diversità di Barbara nei confronti dei propri genitori che solo successivamente ha scoperto essere adottivi.

Diversi partecipanti all’incontro, condotto dalla traduttrice del libro Claudia Crivellaro, si sono giustamente chiesti perché l’autrice, nonostante fosse da parecchio tempo a conoscenza della sua storia familiare, si è fatta trascinare in un gioco sui propri genitori del tutto irrealistico? Perché ha avuto bisogno di immaginarsi figlia naturale di sua madre adottiva e di un elegante banchiere francese inscenando una storia da romanzo rosa?

Forse perché, come mi pare ipotizzi anche l'autrice, in assenza di solidi punti di riferimento nella propria vita era propensa ad attribuire alle circostanze casuali significati che non avevano alcuna connessione con la realtà, ma che momentaneamente potevano  rassicurarla offrendole una via d’uscita da quel mondo conflittuale dominato da tradimenti e abbandoni. 

Il romanzo in questo senso si potrebbe interpretare come un percorso di ricerca identitaria che di fatto non porta l’autrice a scoprire nuovi genitori, ma le consente di rendersi maggiormente consapevole dei propri problemi, ovvero di capire che l’unico modo per risolvere i propri conflitti non è quello di rimuoverli o di liberarsi da essi, ma di accettarli e di conviverci.

Si tratta certo di un’ipotesi interpretativa, che forse può aiutare ad alleviare la frustrazione e il senso d’incompiutezza provati da alcuni lettori del romanzo di Barbara Bongartz la cui discussione è stata particolarmente piacevole grazie alla suggestiva lettura di alcuni brani da parte di Alberto Fidani, attore del Teatro Nero di Modena.

 

martedì 19 febbraio 2013

Il salotto del martedì - L'albergo delle donne tristi, di Marcela Serrano

Marcela Serrano, L'albergo delle donne tristi, Feltrinelli 2003

Interessante libro per una discussione sul rapporto uomo donna, sulle relazioni di aiuto tra donne e sul curarsi con la parola. Il romanzo della Serrano ci racconta di un albergo su un'isola nel sud del Cile, istituito da una psichiatra per accogliere donne tristi, nel senso di provate dalla vita e ammalate di tristezza. La cura consiste nel raccontarsi la propria storia e convivere insieme per tre mesi, occupandosi delle incombenze quotidiane, ma anche di momenti di creatività e di contatto con la natura. La protagonista, in un momento di grande insicurezza personale, trova conforto nel confronto con le storie delle altre donne e con due figure maschili presenti sull'isola, fino a capire un po' meglio quello che vuole. Libro per certi versi non omogeneo, per una prima parte quasi “saggio” su tutti i possibili vissuti femminili e più “romanzo” nella seconda parte, ha il merito di sottolineare il valore della parola e del racconto, nonché del confronto con l'altro per ritrovare autostima e sicurezza. Sono interessanti anche le descrizioni di paesaggi di un Cile inusuale e diverse citazioni letterarie con cui l'autrice ci dice i suoi autori di riferimento. Il dialogo è ben usato e serve per proporre problemi importanti, tra cui il ruolo del sesso nella vita personale e di coppia. Tutto il libro evidenzia quanto il vissuto influenzi le scelte di ognuno dei protagonisti e come il dolore o il lutto lascino spesso un fardello da cui è faticoso riprendersi.
Edda Reggiani

lunedì 4 febbraio 2013

16 febbraio - prossimo appuntamento "Sotto lo stesso tetto"


Vi aspettiamo numerosi per il prossimo incontro del gruppo di lettura che è aperto a tutti!
Appuntamento nella Sala Conferenze della Biblioteca Delfini dalle ore 15 alle 17: il libro in discussione è Il morto di Passy di Barbara Bongartz e il confronto sulle esperienze di lettura tra i partecipanti sarà condotto da Claudia Crivellaro (traduttrice).

venerdì 25 gennaio 2013

Il salotto del martedì - 15 gennaio 2013 - Paul Harding, L'ultimo inverno


Paul Harding, L'ultimo inverno, Neri Pozza 2011

La storia di L'ultimo inverno è innanzi tutto un trionfo del passaparola: inizialmente rifiutato dai lettori più titolati, il romanzo è stato pubblicato da una piccola casa editrice indipendente, riuscendo a sorpresa a guadagnarsi nel 2010 il premio Pulitzer.
L'autore è un outsider, naturalmente: prima di approdare alla narrativa ha insegnato scrittura creativa ed è stato batterista in un gruppo rock (si sente, da una certa musicalità della prosa).
La trama, molto esile, s'incentra sugli ultimi giorni di vita di George Washington Crosby, un uomo che, col pensionamento, ha scoperto la propria vocazione di riparatore di orologi. Si avvicina la morte, e tutto crolla; crolla idealmente la casa che George si è costruito pezzo a pezzo, tacciono gli orologi, si scompone in molteplici tessere il mosaico della vita precedente. Arrivano i ricordi, soprattutto quelli del padre Howard, che col suo abbandono ha segnato la vita del figlio. 
Un uomo in fuga, Howard. Col suo carretto carico di cianfrusaglie e di umili oggetti, vaga per le strade e i boschi del New England, simbolo di un'America antica e marginale e anche della diversità generata dalla malattia. Howard, infatti, è epilettico e questo, se da un lato gli permette di entrare in contatto con la segreta bellezza delle cose (straordinaria la pagina in cui, prima di una crisi, egli fa un arazzo con i primi fiori della primavera), dall'altro distrugge la sua vita familiare. La moglie, infatti, indurita dal dolore (o forse incapace d'amore... c'interroghiamo a lungo su di lei), minaccia di rinchiuderlo in una casa di cura e lui infine scompare, diretto verso una vita diversa.
Tornerà per salutare il figlio, una sera d'inverno, e questo sarà l'ultimo ricordo recuperato da George, un attimo prima di morire. Questo ci sembra il senso del libro: tornare indietro un'ultima volta, ritrovare il padre, comprenderne le ragioni.
Libro non facile, sicuramente. Qualcuno ne ha un'impressione di freddezza, qualcuno ne apprezza il lirismo, quasi tutti rileviamo l'artificiosità un po' letteraria di certi inserti (il manuale per orologiai, il dizionario-enciclopedia). Faticoso anche seguire, nel flusso di coscienza, l'alternarsi dei punti di vista e dei piani temporali.
Siamo comunque tutti affascinati da questo mondo, che ci ricorda La lettera scarlatta, Whitman, Thoreau, ma anche La morte di un commesso viaggiatore.
Un mondo scomparso, un'altra America.

Matilde Morotti

sabato 19 gennaio 2013

Sotto lo stesso tetto - 12 gennaio - Come mio fratello, Uwe Timm


Nel sessantesimo anniversario della morte del fratello maggiore, volontario delle Waffen-SS caduto in Ucraina nel 1943, il sessantenne Uwe Timm pubblica un libro autobiografico su quella tragica vicenda familiare che ha segnato e accompagnato la sua esistenza.

In questo coraggioso tentativo di ricerca introspettiva, intrapreso dopo la morte della sorella, l’ultimo membro della famiglia ad aver conosciuto il fratello, Uwe affronta gli eventi accaduti senza voler risparmiare o escludere nessuno dei protagonisti. Analizza e confronta i documenti conservati – le lettere e il diario del fratello dal fronte, le memorie di guerra scritte da militari, ricordi personali e quelli dei propri genitori e conoscenti – ponendosi domande, sollevando dubbi e questioni. 

Sono diversi gli interrogativi che emergono da questa profonda e ardua indagine più volte avviata e rimandata. Uwe si chiede innanzitutto se l’arruolarsi del fratello nelle milizie nazionalsocialiste fu un atto di libera scelta o piuttosto una silenziosa realizzazione delle aspettative del padre e della società in cui aveva vissuto. In che misura il fratello poteva essere condizionato dal modello del padre, soldato fedele in tempi di guerra e talentuoso imbalsamatore di animali selvatici nei periodi di pace? L’autore si domanda come fosse possibile che un giovane così premuroso e affettuoso nei confronti dei propri familiari, potesse partecipare alla distruzione e all’annientamento dell’altro. Era davvero capace di combattere per un’ideologia che predicava la superiorità della propria razza fino al punto da banalizzare ed estinguere il diverso? Rievocando la propria adolescenza, i desideri e i sogni di quella giovane e sensibile età, Uwe cerca di proiettarsi e di immedesimarsi nelle prospettive del fratello, chiedendosi se, invece di partecipare alle conquiste militari, avrebbe preferito coltivare altri progetti, scoprire l’amore per un donna, esplorare mondi e continenti diversi, costruire un proprio mestiere, indossare vestiti alternativi all’uniforme.  

Poco a poco Uwe si accorge che quella tragica vicenda non fu conseguenza di un inspiegabile destino o delle decisioni errate di Hitler e dei suoi generali, come nel dopoguerra si sentiva spesso raccontare. Uwe percepisce che la causa di quella vicenda fu ben più complessa e difficile da riconoscere perché insita nell’atteggiamento della generazione dei padri vissuta fra le due guerre, in quel sistema di valori, su cui ancora nel periodo della ricostruzione si reggeva la società tedesca piccolo borghese: l’obbedienza e la disciplina a casa e a scuola, l’accettazione della violenza, il rifiuto di modelli culturali diversi, l’orgoglio di essere tedeschi, il bisogno di apparire sempre forti per paura di essere esclusi ed estromessi. Atteggiamenti e pretese deboli e poco convincenti rispetto ai valori contrastanti di progresso e libertà individuali dei vincitori americani, che all’epoca facevano sognare a occhi aperti. E poi, ritornando ai giorni nostri, Uwe si domanda cosa sarebbe successo se suo fratello e suo padre avessero disobbedito, se si fossero opposti alla guerra, se avessero reagito dando libero sfogo ai propri desideri e sogni? Se avessero detto di no alla violenza, sarebbero stati meno coraggiosi e meritevoli, meno rispettati e stimati? Se avessero creduto di più a loro stessi, se avessero rifiutato di conformarsi, avrebbero fallito ugualmente? 

Uwe si congeda dai lettori con la speranza che nel rifiuto di suo fratello di parlare della violenza nel diario e nella propria corrispondenza non vi fosse solo un istinto di autodifesa di fronte agli orrori della guerra, ma anche il riconoscimento e la comprensione della sofferenza altrui. 

Leggere può aiutare a comprendere l’umanità se ci si interroga, se si accetta di dialogare con il diverso.  Ancora una volta abbiamo fatto questo sforzo in compagnia della docente universitaria Claudia Buffagni e dell’attore Simone Tangolo del “Ratto d’Europa”, che ci hanno guidato nella lettura e nell’interpretazione di questo commuovente libro, capace di suscitare domande e questioni sempre attuali.


giovedì 3 gennaio 2013

Il salotto del martedì - 4 dicembre 2012 - Il fucile da caccia, di Inoue Yasushi

                                              

Inoue Yasushi, Il fucile da caccia, Adelphi 2004

Libro ricco di perle di saggezza questo breve romanzo di Inoue Yasushi composto nel lontano 1949, la cui vicenda, collocata nei medesimi anni del dopoguerra, si svolge in una regione tra Tokyo e Kyoto. In ogni pagina, in ogni parola, si agita il soffio di una fragilità umana incerta tra bene e male e consapevole che sul suo agire incombe costantemente, in ogni istante, il pericolo di un'oscura presenza, “l'egoismo, la gelosia, il destino”?, capace di distorcerne senso e intenzioni.
Un romanzo a incastro, con un corpo centrale costituito da tre lettere in cui parlano tre figure femminili e una cornice che le racchiude affidata alla voce del poeta. Una tessitura preziosa che si affida alla fitta trama di richiami e rimandi delle voci narranti, dei loro silenzi e degli echi della natura che li corrisponde.
Così fin dall'inizio un paesaggio immaginario, il “bianco alveo di un fiume desolato”, è contrapposto al “monte Amagi ricco di vegetazione”, nella poesia che il poeta scrive per una rivista venatoria: si tratta di una cortesia alla quale non può sottrarsi benché nulla sappia di caccia né se ne interessi. A deciderlo, la figura “stranamente solitaria” di un cacciatore che ha colpito la sua immaginazione. Nella poesia il fucile da caccia, “simbolo della solitudine umana”, anziché mirare alla preda “scava lo spirito e la carne desolata” del cacciatore “un freddo guerriero [..] che emana una strana bellezza, umida di sangue”.
La poesia è lontana dallo spirito della caccia, ma il poeta la invia ugualmente alla rivista e aspetta con apprensione la protesta di qualche lettore, che fortunatamente non arriva.
Riceve, invece, la lettera di un ricco uomo d'affari, Misugi Josuke, che dichiara di essersi riconosciuto in quel cacciatore (nel cacciatore, non nella figura poetica) e si dice ammirato per lo “straordinario potere intuitivo” del poeta che ha saputo cogliere nel “suo povero stato d'animo così lontano da ogni altezza spirituale” materia di poesia. Gli comunica di avergli inviato tre lettere di cui è destinatario, e gli chiede di leggerle.
Da questo momento il compito di narrare passa alle voci delle tre lettere: Shoko, Midori e Saiko tutte appartenenti alla famiglia di Josuke (Shoko è la nipote, figlia di Saiko, Midori è la moglie, Saiko l'amante, sorella – o cugina - di Midori).
In queste lettere parlano i sentimenti: odio, tristezza, rimpianto, amore, soprattutto quello nascosto che si dipana intorno a un tormentoso labirinto amoroso. Tutti ci interroghiamo sulla trama di questo amore che può sembrare ma non è l'amore-passione, che può sembrare ma non è l'amore borghese, che può sembrare ma non è quello “cortese”, o quello “dantesco” di scolastica memoria. Anche qui, ad ogni modo, tutto ruota intorno all'eterno enigma che contrappone l'amore al bisogno di una coscienza obiettivamente etica, capace di evitare i contraccolpi del ravvedimento. E, qualcuno sottolinea, al silenzio che nasce da un malinteso senso del pudore e genera ipocrisia.
Lo dice la giovane Shoko nella prima delle tre lettere. Ha scoperto la relazione tra lo zio e la madre leggendo il diario della madre il giorno prima della sua morte. Tra i tanti motivi della sua presente “tristezza”, uno la opprime in modo particolare: che da tredici anni la madre e lo zio non siano più la “sua cara madre”, il “suo caro zio”, che la madre abbia potuto essere “malvagia” sapendo di esserlo, che l'amore possa rinunciare alla luce del sole e vivere come come “un fiore finto, rosso, in una palla di vetro”.
Midori è la moglie tradita, doppiamente tradita, dal marito e dalla sorella.
Il tradimento l'ha scoperto fin dall'inizio e, seguendo l'impulso del momento, ne è diventata complice. Di quel momento restano solo alcune vivide immagini: un presentimento, un inseguimento, la scoperta, l'impulso di smascherare gli amanti e quello, uguale e contrario, di fingere di non aver visto. Perché abbia preso la seconda via non lo sa: paura, umiliazione, amore, opportunismo? Da allora l'amore si è mutato in un miscuglio esplosivo di amore e odio, l'ha sostenuta da una parte la speranza che avesse termine la sua umiliazione, dall'altra l'ostentazione di una mondanità di rivalsa, amanti che erano schermi, e ha vissuto in una “gelida famiglia”, fortezza-prigione dei “due segreti” suo e del marito.
Saiko, la bellissima, raffinata, intelligente Saiko, nel momento della “malvagità” decide che bisogna “diventare diabolici”: con Yosuke, il patto di mantenere segreta la relazione. Il suo silenzio non è di poco momento, dura tredici anni. Per reggere così a lungo ci vogliono qualità non banali: forza di carattere, coraggio, determinazione, calcolo, che sarebbe meglio utilizzare per il verso giusto. E Saiko si sdoppia: c'è una Saiko “diurna” che sa proteggere il segreto, c'è una Saiko “notturna” che soffre e affida al suo diario tormentosi sensi di colpa e di morte: “...la mia coscienza della colpa era così forte da convincermi che il giorno in cui Midori avesse scoperto il mio segreto avrei dovuto morire […] morire sarebbe stato il mio modo di chiedere perdono”. Ma quando scopre che Midori sa tutto da sempre, stranamente un inaspettato sollievo si sostituisce ai propositi di morte e scopre in sé un'altra Saiko. “Se Midori lo scoprirà, morirò!” Che ridicola fantasia la mia! Colpa, colpa, colpa... che assurda coscienza della colpa! L'uomo che ha venduto l'anima al diavolo deve per forza essere lui stesso un diavolo? Noi siamo d'accordo. Ma Saiko? A seguirla nei meandri della sua riflessione finale scopriamo che non è detto che la nuova Saiko abbia sostituito l'antica, può trattarsi di una tregua momentanea, e poi se ci sono due Saiko, possono essercene altre. Di più, in nome di che cosa parla la nuova Saiko? Ha detto che amare non è una colpa, allora perché un giorno lontano il tradimento del marito è stato una colpa che andava lavata col divorzio? E perché, ora che ha appreso che si è risposato, sembra che il mondo le crolli addosso? Che ne è di Yosuke? (diciamo noi): amare, essere amati...?
Si è affacciata una terza Saiko, quella che mette in ordine le foto del suo matrimonio, che le dispone affinché la figlia non perda l'immagine del padre e ricorda che lei stessa, durante un bombardamento, mentre Yosuke la proteggeva premurosamente, lei desiderava correre al rifugio di suo marito...
A questo punto siamo un po' stanchi: una cosa è conversare su questi temi, altra abbandonarsi al talento narrativo che sa raccontarli.
È stanca anche Saiko, che sente di “aver perso la forza di vivere” e, incapace di ricomporre le istanze contraddittorie della sua coscienza, si autocondanna e brucia il diario che contiene “le confessioni di una donna malvagia”. Poco dopo si dà la morte, “punizione naturalmente riservata a una donna che non ha sopportato la sofferenza di amare e ha cercato la felicità di essere amata.”
E Misogi Yosuke, solitario cacciatore e silenzioso destinatario delle lettere e delle confessioni in esse contenute? Le due pagine finali non aggiungono molto sulla sua figura; restano la sua “singolare scrittura, così bella e fluente” che rivela una “tristezza cupa e intollerabile”, il suo fucile da caccia e quel “ bianco alveo di un fiume” che non è più soltanto un'immagine poetica.

Mirna Ferrarini