giovedì 3 gennaio 2013
Il salotto del martedì - 4 dicembre 2012 - Il fucile da caccia, di Inoue Yasushi
Libro
ricco di perle di saggezza questo breve romanzo di Inoue Yasushi
composto nel lontano 1949, la cui vicenda, collocata nei medesimi anni
del dopoguerra, si svolge in una regione tra Tokyo e Kyoto. In ogni
pagina, in ogni parola, si agita il soffio di una fragilità umana
incerta tra bene e male e consapevole che sul suo agire incombe
costantemente, in ogni istante, il pericolo di un'oscura presenza,
“l'egoismo, la gelosia, il destino”?, capace di distorcerne senso
e intenzioni.
Un
romanzo a incastro, con un corpo centrale costituito da tre lettere in
cui parlano tre figure femminili e una cornice che le racchiude
affidata alla voce del poeta. Una tessitura preziosa che si affida
alla fitta trama di richiami e rimandi delle voci narranti, dei loro
silenzi e degli echi della natura che li corrisponde.
Così
fin dall'inizio un paesaggio immaginario, il “bianco alveo di un
fiume desolato”, è contrapposto al “monte Amagi ricco di
vegetazione”, nella poesia che il poeta scrive per una rivista
venatoria: si tratta di una cortesia alla quale non può sottrarsi
benché nulla sappia di caccia né se ne interessi. A deciderlo, la
figura “stranamente solitaria” di un cacciatore che ha colpito la
sua immaginazione. Nella poesia il fucile da caccia, “simbolo della
solitudine umana”, anziché mirare alla preda “scava lo spirito e
la carne desolata” del cacciatore “un freddo guerriero [..] che
emana una strana bellezza, umida di sangue”.
La
poesia è lontana dallo spirito della caccia, ma il poeta la invia
ugualmente alla rivista e aspetta con apprensione la protesta di
qualche lettore, che fortunatamente non arriva.
Riceve,
invece, la lettera di un ricco uomo d'affari, Misugi Josuke, che
dichiara di essersi riconosciuto in quel cacciatore (nel cacciatore,
non nella figura poetica) e si dice ammirato per lo “straordinario
potere intuitivo” del poeta che ha saputo cogliere nel “suo
povero stato d'animo così lontano da ogni altezza spirituale”
materia di poesia. Gli comunica di avergli inviato tre lettere di cui
è destinatario, e gli chiede di leggerle.
Da
questo momento il compito di narrare passa alle voci delle tre
lettere: Shoko, Midori e Saiko tutte appartenenti alla famiglia di
Josuke (Shoko è la nipote, figlia di Saiko, Midori è la moglie,
Saiko l'amante, sorella – o cugina - di Midori).
In
queste lettere parlano i sentimenti: odio, tristezza, rimpianto,
amore, soprattutto quello nascosto che si dipana intorno a un
tormentoso labirinto amoroso. Tutti ci interroghiamo sulla trama di
questo amore che può sembrare ma non è l'amore-passione, che può
sembrare ma non è l'amore borghese, che può sembrare ma non è
quello “cortese”, o quello “dantesco” di scolastica memoria.
Anche qui, ad ogni modo, tutto ruota intorno all'eterno enigma che
contrappone l'amore al bisogno di una coscienza obiettivamente etica,
capace di evitare i contraccolpi del ravvedimento. E, qualcuno
sottolinea, al silenzio che nasce da un malinteso senso del pudore e
genera ipocrisia.
Lo
dice la giovane Shoko nella prima delle tre lettere. Ha scoperto la
relazione tra lo zio e la madre leggendo il diario della madre il
giorno prima della sua morte. Tra i tanti motivi della sua presente
“tristezza”, uno la opprime in modo particolare: che da tredici
anni la madre e lo zio non siano più la “sua cara madre”, il “suo
caro zio”, che la madre abbia potuto essere “malvagia” sapendo
di esserlo, che l'amore possa rinunciare alla luce del sole e vivere
come come “un fiore finto, rosso, in una palla di vetro”.
Midori
è la moglie tradita, doppiamente tradita, dal marito e dalla
sorella.
Il
tradimento l'ha scoperto fin dall'inizio e, seguendo l'impulso del
momento, ne è diventata complice. Di quel momento restano solo alcune
vivide immagini: un presentimento, un inseguimento, la scoperta,
l'impulso di smascherare gli amanti e quello, uguale e contrario, di
fingere di non aver visto. Perché abbia preso la seconda via non lo
sa: paura, umiliazione, amore, opportunismo? Da allora l'amore si è
mutato in un miscuglio esplosivo di amore e odio, l'ha sostenuta da
una parte la speranza che avesse termine la sua umiliazione,
dall'altra l'ostentazione di una mondanità di rivalsa, amanti che
erano schermi, e ha vissuto in una “gelida famiglia”,
fortezza-prigione dei “due segreti” suo e del marito.
Saiko,
la bellissima, raffinata, intelligente Saiko, nel momento della
“malvagità” decide che bisogna “diventare diabolici”: con
Yosuke, il patto di mantenere segreta la relazione. Il suo silenzio
non è di poco momento, dura tredici anni. Per reggere così a lungo
ci vogliono qualità non banali: forza di carattere, coraggio,
determinazione, calcolo, che sarebbe meglio utilizzare per il verso
giusto. E Saiko si sdoppia: c'è una Saiko “diurna” che sa
proteggere il segreto, c'è una Saiko “notturna” che soffre e
affida al suo diario tormentosi sensi di colpa e di morte: “...la
mia coscienza della colpa era così forte da convincermi che il
giorno in cui Midori avesse scoperto il mio segreto avrei dovuto
morire […] morire sarebbe stato il mio modo di chiedere perdono”.
Ma quando scopre che Midori sa tutto da sempre, stranamente un
inaspettato sollievo si sostituisce ai propositi di morte e scopre in
sé un'altra Saiko. “Se Midori lo scoprirà, morirò!” Che
ridicola fantasia la mia! Colpa, colpa, colpa... che assurda coscienza
della colpa! L'uomo che ha venduto l'anima al diavolo deve per forza
essere lui stesso un diavolo? Noi siamo d'accordo. Ma Saiko? A
seguirla nei meandri della sua riflessione finale scopriamo che non è
detto che la nuova Saiko abbia sostituito l'antica, può trattarsi
di una tregua momentanea, e poi se ci sono due Saiko, possono
essercene altre. Di più, in nome di che cosa parla la nuova Saiko?
Ha detto che amare non è una colpa, allora perché un giorno lontano
il tradimento del marito è stato una colpa che andava lavata col
divorzio? E perché, ora che ha appreso che si è risposato, sembra
che il mondo le crolli addosso? Che ne è di Yosuke? (diciamo noi):
amare, essere amati...?
Si
è affacciata una terza Saiko, quella che mette in ordine le foto del
suo matrimonio, che le dispone affinché la figlia non perda
l'immagine del padre e ricorda che lei stessa, durante un
bombardamento, mentre Yosuke la proteggeva premurosamente, lei
desiderava correre al rifugio di suo marito...
A
questo punto siamo un po' stanchi: una cosa è conversare su questi
temi, altra abbandonarsi al talento narrativo che sa raccontarli.
È
stanca anche Saiko, che sente di “aver perso la forza di vivere”
e, incapace di ricomporre le istanze contraddittorie della sua
coscienza, si autocondanna e brucia il diario che contiene “le
confessioni di una donna malvagia”. Poco dopo si dà la morte,
“punizione naturalmente riservata a una donna che non ha sopportato
la sofferenza di amare e ha cercato la felicità di essere amata.”
E
Misogi Yosuke, solitario cacciatore e silenzioso destinatario delle
lettere e delle confessioni in esse contenute? Le due pagine finali
non aggiungono molto sulla sua figura; restano la sua “singolare
scrittura, così bella e fluente” che rivela una “tristezza cupa
e intollerabile”, il suo fucile da caccia e quel “ bianco alveo
di un fiume” che non è più soltanto un'immagine poetica.
Mirna
Ferrarini
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