Nel sessantesimo anniversario della morte del fratello maggiore, volontario delle Waffen-SS caduto in Ucraina nel 1943, il sessantenne Uwe Timm pubblica un libro autobiografico su quella tragica vicenda familiare che ha segnato e accompagnato la sua esistenza.
sabato 19 gennaio 2013
Sotto lo stesso tetto - 12 gennaio - Come mio fratello, Uwe Timm
Nel sessantesimo anniversario della morte del fratello maggiore, volontario delle Waffen-SS caduto in Ucraina nel 1943, il sessantenne Uwe Timm pubblica un libro autobiografico su quella tragica vicenda familiare che ha segnato e accompagnato la sua esistenza.
In
questo coraggioso tentativo di ricerca introspettiva, intrapreso dopo la morte
della sorella, l’ultimo membro della famiglia ad aver conosciuto il fratello,
Uwe affronta gli eventi accaduti senza voler risparmiare o escludere nessuno
dei protagonisti. Analizza e confronta i documenti conservati – le lettere e il
diario del fratello dal fronte, le memorie di guerra scritte da militari, ricordi
personali e quelli dei propri genitori e conoscenti – ponendosi domande,
sollevando dubbi e questioni.
Sono
diversi gli interrogativi che emergono da questa profonda e ardua indagine più volte avviata e rimandata. Uwe si chiede innanzitutto se l’arruolarsi
del fratello nelle milizie nazionalsocialiste fu un atto di libera scelta o
piuttosto una silenziosa realizzazione delle aspettative del padre e della
società in cui aveva vissuto. In che misura il fratello poteva essere
condizionato dal modello del padre, soldato fedele in tempi di guerra e talentuoso
imbalsamatore di animali selvatici nei periodi di pace? L’autore si domanda come
fosse possibile che un giovane così premuroso e affettuoso nei confronti dei
propri familiari, potesse partecipare alla distruzione e all’annientamento
dell’altro. Era davvero capace di combattere per un’ideologia che predicava la
superiorità della propria razza fino al punto da banalizzare ed estinguere il
diverso? Rievocando la propria adolescenza, i desideri e i sogni di quella
giovane e sensibile età, Uwe cerca di proiettarsi e di immedesimarsi nelle
prospettive del fratello, chiedendosi se, invece di partecipare alle conquiste
militari, avrebbe preferito coltivare altri progetti, scoprire l’amore
per un donna, esplorare mondi e continenti diversi, costruire un proprio
mestiere, indossare vestiti alternativi all’uniforme.
Poco
a poco Uwe si accorge che quella tragica vicenda non fu conseguenza di un
inspiegabile destino o delle decisioni errate di Hitler e dei suoi generali,
come nel dopoguerra si sentiva spesso raccontare. Uwe percepisce che la causa
di quella vicenda fu ben più complessa e difficile da riconoscere perché insita
nell’atteggiamento della generazione dei padri vissuta fra le due guerre, in
quel sistema di valori, su cui ancora nel periodo della ricostruzione si
reggeva la società tedesca piccolo borghese: l’obbedienza e la disciplina a
casa e a scuola, l’accettazione della violenza, il rifiuto di modelli culturali
diversi, l’orgoglio di essere tedeschi, il bisogno di apparire sempre forti per
paura di essere esclusi ed estromessi. Atteggiamenti e pretese deboli e poco
convincenti rispetto ai valori contrastanti di progresso e libertà individuali
dei vincitori americani, che all’epoca facevano sognare a occhi aperti. E poi,
ritornando ai giorni nostri, Uwe si domanda cosa sarebbe successo se suo
fratello e suo padre avessero disobbedito, se si fossero opposti alla guerra, se
avessero reagito dando libero sfogo ai propri desideri e sogni? Se avessero
detto di no alla violenza, sarebbero stati meno coraggiosi e meritevoli, meno rispettati
e stimati? Se avessero creduto di più a loro stessi, se avessero rifiutato di
conformarsi, avrebbero fallito ugualmente?
Uwe
si congeda dai lettori con la speranza che nel rifiuto di suo fratello di
parlare della violenza nel diario e nella propria corrispondenza non vi fosse
solo un istinto di autodifesa di fronte agli orrori della guerra, ma anche il
riconoscimento e la comprensione della sofferenza altrui.
Leggere
può aiutare a comprendere l’umanità se ci si interroga, se si accetta di
dialogare con il diverso. Ancora una
volta abbiamo fatto questo sforzo in compagnia della docente universitaria Claudia
Buffagni e dell’attore Simone Tangolo del “Ratto d’Europa”, che ci hanno guidato
nella lettura e nell’interpretazione di questo commuovente libro, capace di
suscitare domande e questioni sempre attuali.
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Penso che una delle chiavi di lettura più proficue sia quella che ruota attorno alla parola-chiave empatia. La sua inconcepibile assenza nel fratello che lo porta a infergere sofferenze nella più assoluta indifferenza; la sua presenza inaudita in parte nel narratore e soprattutto nella madre nei confronti del "criminale nazista". Il valore della sua presenza tanto fuori luogo per la nostra sensibilità etica (come si può provare empatia col criminale nazista?) se è deprecabile in ambito civile, giuridico e politico, la letteratura ci può invitare a un esperimento che sospende le nostre certezze etiche: provare a sentire e a pensare come sente e pensa chi è arteficie di immani atrocità. Si tratta di vivere il male "dal di dentro", non a oggettivarlo, a staccarlo da noi, ma a scoprirlo in noi come un'orrida eventualità della nostra appartenenza al genere umano. Si tratta in definitiva di accettarsi parte non solo di un'umanità giusta ed eticamente irrepresibile, ma anche potenzialmente carnefice. Anche questa può essere una strada che porta a scongiurare gli orrori del passato.
RispondiEliminaCesare Giacobazzi