lunedì 27 febbraio 2012

Il salotto del martedì - 14 febbraio 2012 - Accabadora

Michela Murgia, Accabadora, Einaudi 2009

Maria, la quarta figlia femmina di madre vedova, va a vivere in casa di Bonaria Urrai, come fill’e anima
. “Fillus de anima. È così che li chiamano i bambini generati due volte, dalla povertà di una donna e dalla sterilità di un’altra. Di quel secondo parto era figlia Maria Listru, frutto tardivo dell’anima di Bonaria Urrai.” . Tzia Bonaria offre alla bambina casa, futuro, istruzione e anche comprensione, mentre non le impone aspettative.
Il personaggio di Maria viene costruito in una narrazione di formazione: la formazione di una donna un po’ speciale, in un piccolo paese sardo a partire dagli anni Cinquanta, tra passato e modernità.

Maria ci rimane impressa subito per due gesti: le mani che, nel negozio di alimentari del paese, sottraggono le ciliegie e infilano in tasca i frutti, e quelle mani che, con la cura di una piccola donna, giocando tutta sola per terra, impastano una torta di fango e di formiche vive. Si intuisce la solitudine e la frustrazione della bimba, ma anche una spiccata individualità, che, in fondo, è sicurezza di potercela fare. Va insieme a Bonaria, nel giorno della cessione, portando con sé la torta di terra e una sporta piena di uova fresche e prezzemolo; sorride, sebbene vagamente intuisca che ci sarebbe da piangere. Maria ha una fiducia di fondo nei confronti della vita: vuole morderla e impastarla, vuole conoscerla, vuole avventurarsi e per lei Bonaria è la donna che l’ha scelta. Madre è chi ti sceglie dopo la nascita.

Maria è “figlia”, perché sa farsi figlia. Sa accettare di essere curata e cresciuta, sa affidarsi al destino. Il destino le propone madri originali e fuori dagli schemi come Bonaria, che ha elaborato la sua esperienza di vita in modo non convenzionale, ma che è, al tempo stesso, interprete di una tradizione etica ed esoterica della sua gente. Maria sa anche essere figlia della scuola e dell’insegnante , sulla base del riconoscimento reciproco e della fiducia: nella maestra conosce un modello ispirato alla razionalità , alla conoscenza, caratterizzato dalle scelte maturate individualmente. Cresce e si differenzia dalla madre e dalle sorelle per la sua autonomia e volontà di conoscere e scegliere al momento opportuno. Evidenzia un coraggio fuori dagli schemi della società in cui cresce, quello di essere diversa ed assimilata allo stesso tempo; come Bonaria, Maria è radicata nella tradizione e in essa accetta il ruolo, che le viene riconosciuto, ma allo stesso tempo matura una consapevolezza autonoma di sé e del proprio destino.

Maria soggiorna in Continente per qualche tempo: deve mettere questa distanza dalla sua vita con Bonaria, perché incapace di accettare la scoperta del ruolo sociale di
accabadora, impersonato dalla madre adottiva, non sapendo per il momento distinguerla dalla figura solida e giusta, che ben separa il loglio dalla gramigna, che Bonaria è stata per lei.
Durante l’esperienza torinese scopre in sé la capacità di amare, di curare, di venire incontro, scopre la pietas e quel tipo di soccorso umano che richiede l’oscurità, il sussurro, il silenzio, l’ascolto . Scopre di essere richiesta come la persona cui si può con-fidare tutto il proprio abisso di confusione, disperazione e senso di colpa.

Così come nel paese Maria aveva saputo aprirsi all’amicizia di Andrìa, una figura maschile, forse poco “balente” (espressione sarda per indicare il coraggio), ma certo aperta pur nella sua insicurezza.

Come potrà e vorrà riconoscere la propria costruzione futura? Maria sembra lucida, e ben decisa ad ascoltarsi per essere fedele ad un dettato interiore più che alle convenzioni sociali sia della sua ristretta società paesana che dalle convenzioni della famiglia borghese di Torino presso la quale si trova ad accudire i figli.

Bonaria è l’altro personaggio centrale del romanzo. Vecchia sarta del paese, sa portare conforto e dare consiglio: l’accompagna un’aura misteriosa e un rispetto che fa trasparire anche un’ombra di spavento.

Perché proprio lei viene identificata e socialmente riconosciuta nel ruolo di
accabadora, la donna che sa portare la morte pietosa? Consideriamo alcune peculiarità di questo personaggio femminile: è benestante; non ha marito; non ha parentele prossime; ha amato con passione; conosce il dolore e la perdita, ha placato il dolore; è percettiva ed acuta, così com’è acuto il suo sguardo sulle persone e sul loro animo; guarda in silenzio, osserva il destino altrui e lo segue da lontano, con empatia evidente o per meglio dire con senso di responsabilità; sta dentro e fuori la sua comunità: interprete di un codice d’onore antico e potente, elargisce laiche ragioni e comportamenti come complemento alla visione della vita dell’autorità religiosa, dalla quale è distinta, ma della quale non è nemica. Bonaria chiede distinzione e richiama la radice profonda della responsabilità di ciascuno sulle scelte fondamentali della vita, alle quali può partecipare come rispettosa interprete ed esecutrice di volontà sacre e drammatiche.
Questi due personaggi emergono dalla coralità della comunità del paese, dove gli uomini parlano poco e poco direttamente, ma si mandano segnali inquietanti, che il segno della croce degli astanti qualifica subito come una seria minaccia, dove si custodiscono rancori neri e duri come pietre che non possono essere purificate, dove chi è impaziente perisce. Si intuisce anche il possibile cambiamento che verrà portato alla relazioni e al codice etico della comunità dalle donne più aperte alla comunicazione, ma anche più affascinate dal benessere e dal consumo. I temi trattati che innervano la narrazione sono tra i più impegnativi: l’affido, il ruolo delle donne nelle fasi di mutamento sociale, il valore della conoscenza, il nuovo e la tradizione, la comunità arcaica e la modernità aperta, le scelte relative al fine vita, la giustizia e la vendetta. Michela Murgia li affronta, scegliendo una lingua essenziale, ben scandita, efficace, carne vivente dei temi così complessi e drammatici; mostra i personaggi, le loro scelte, la loro vita più che esprimere giudizi; eccelle nella selezione delle descrizioni, che sono brevi, e precise: pochi, importanti tratti per proporre un gesto che veicola emozioni e sentimenti, dalla ricchezza lessicale traspare la ricchezza dello scavo psicologico. Un bel libro che ci congeda pensosi e saldi.

A cura di Luisa Magnani


mercoledì 15 febbraio 2012

Uomo e donna li creò - 11 febbraio 2012 - Modi bruschi. Antropologia del maschio

Sebbene le identità di genere e le loro relazioni costituiscano un argomento ben noto e ampiamente dibattuto, il versante maschile di questo tema non è mai stato esplorato in modo rigoroso e approfondito. Modi bruschi è scritto da La Cecla proprio con l'intento di colmare questa lacuna e sfatare quegli stereotipi e luoghi comuni che pregiudicano un'adeguata comprensione della condizione maschile.

Questo lavoro antropologico e storico offre un'ampia varietà di spunti: può forse essere stata la rapida estirpazione dalla società moderna di ogni forma esplicita di riti di iniziazione (fino ad allora rigidamente controllati), ad avere privato i maschi di un necessario sostegno e conforto? Oppure, al contrario, è proprio un'eccessiva pressione sociale ad essere responsabile dei "modi bruschi"? In generale, l'analisi svolta da La Cecla ripercorre molte delle questioni che caratterizzano anche il discorso sulla condizione femminile: mancanza di modelli o eccesso di modelli? Responsabilità personale o responsabilità sociale? Scomparsa della comunità o incombenza della comunità?

Proprio la complessità di questi temi richiederebbe un approccio più analitico, che andrebbe ad integrare il lavoro di La Cecla, ricco di spunti acuti e interessanti, ma non tutti approfonditi come ci si aspetterebbe. Solo in questo modo sarebbe possibile comprendere a fondo l'identità maschile, e forse anche riconsiderare in modo critico le stesse categorie di genere.

martedì 7 febbraio 2012

Il salotto del martedì - verso "Accabadora", di Michela Murgia

Abbiamo incontrato Michela Murgia a Modena, quando è venuta in biblioteca a parlarci del suo ultimo libro, Ave Mary.
Personalità sfaccettata, quella della scrittrice sarda: narratrice divertente, capace di far ridere fino alle lacrime con la sua tragicomica rappresentazione del lavoro precario (Il mondo deve sapere); intrisa di cultura cattolica, ma anche aliena da ogni dogmatismo, pronta alla provocazione intellettuale e capace di riflettere nel prisma della scrittura letteraria la complessità di altissimi temi filosofici ed esistenziali.
In questo suo Accabadora (Einaudi, 2009), con cui nel 2010 ha vinto il premio Campiello, la Murgia solo apparentemente ci dà un quadretto regionalistico, ambientato nella Sardegna anni '50 ed imperniato sul tema folklorico dell' “accabadura”, cioè una sorta di eutanasia praticata, in un contesto di fortissimi legami comunitari, sui malati terminali. Altrettanto infondata è l'impressione che l'autrice si serva di questo sfondo storico per prendere posizione su problematiche d'attualità, legate al tema del “fine-vita”. In realtà, senza facili certezze, il libro tocca temi universali: la maternità, le scelte che tutti siamo chiamati a fare, il confine tra il giusto e l'ingiusto, la crescita interiore che è, insieme, nascita e morte.
Protagonista del romanzo è, infatti, Tzia Bonaria, un'anziana donna che, su richiesta dei parenti, aiuta gli agonizzanti a compiere l'ultimo passo, liberandoli da intollerabili sofferenze. Quest'attività di Bonaria è avvolta dal mistero: si svolge di notte, in segreto, ed è accompagnata e ritualizzata da procedure di tipo magico, che trasformano la figura dell' “accabadora”, facendone un'ultima, pietosa “madre”. Una simile rappresentazione avrebbe un carattere puramente storico-etnografico, se non fosse resa drammatica dal fatto che noi vediamo tutto attraverso gli occhi di Maria, una figlia non voluta che Bonaria ha preso con sé come “fili'e anima”. Ciò introduce nel libro il tema della maternità elettiva, del legame che non viene dal sangue, ma dall'amore e dall'accoglienza, e contemporaneamente mette in scena la fortissima divaricazione tra due culture: quella dell'anziana legata a tradizioni ancestrali e quella della giovane donna che ha orrore di ciò che scopre e se ne va, ma solo per tornare e comprendere che non bisogna mai dire: “Di quest'acqua io non ne berrò.”
Le due donne simboleggiano dunque il drammatico conflitto tra il mondo arcaico, in cui una collettività stringe in silenzio una rete di patti condivisi, e la modernità incalzante, che pone nuove difficili domande. A queste domande il romanzo non dà risposte precostituite, limitandosi a portare alla luce le tante facce dell'immenso tema della vita e dei suoi due estremi: la nascita e la morte.

Matilde Morotti

mercoledì 1 febbraio 2012

Uomo e donna li creò - verso "Modi bruschi. Antropologia del maschio" di Franco La Cecla


Simone de Beauvoir era convinta che un uomo non si sarebbe  mai messo a scrivere un libro sulla situazione particolare dell’essere  maschio. Per molto tempo, almeno nella cultura occidentale,  il maschile non è stato tema di studio. Maschi si nasce o si diventa? Il desiderio ha un sesso oppure è solo un diverso travestimento di un desiderio identico? Libido, istinti, pulsioni, possono essere riconducibili ad un’ unica lettura?

Nel frattempo le donne, sulla condizione femminile, hanno spaccato il capello in quattro. Hanno indagato dentro diversi mondi, dal biologico al sociale, dallo storico al politico, lavorando anche per loro. Si sono organizzate per aprire gli occhi ai miopi, per smentire i bugiardi, per decapitare i giganti, per smascherare le  loro stesse complicità, e tentare di riscrivere storia.

Secondo Franco La Cecla, antropologo (Modi bruschi, ed. elèuthera), le donne hanno prodotto anche miseri stereotipi sugli umani di sesso maschile, e provocato reazioni altrettanto stereotipate e misere da parte di molti di loro (un piccato orgoglio maschile, oppure un’autoflagellazione umiliata, più rara).

 “Come se - dice La Cecla - la politicizzazione delle identità sessuali avesse spento la capacità di scavare, di costruire un’ archeologia delle identità sessuali”. Come se la granitica posizione politically correct, che tende a identificare la mascolinità con il dominio, non ci avesse lasciato la libertà di guardare, di osservare meglio, di cercare e anche di trovare. Maschio e femmina non sono due attributi idraulici – dice La Cecla - due diverse maniere di eccitarsi, sono due diverse antropologie. Siamo prudenti dunque a generalizzare, e nell’attribuire i nostri stessi desideri all’altro genere (così come sbaglieremmo se volessimo proiettare il nostro sentire sui nostri antenati o  trasferirlo su altre culture). Relativizziamo!

L'antropologia potrebbe avere un grosso ruolo da giocare nei Gender Studies, perchè fa andare avanti i fenomeni, fa proseguire gli scavi archeologici dell'identità senza farsi imbrigliare da comodi ideologismi.

E’ vero, e fino qui ci siamo. Ma poi?  Dove lo troveremo questo uomo, se lo troveremo.  L’antropologia ci dice che la mascolinità fa parte di una pratica, di un campo d’ azione, di maniere introiettate a un tale livello da sembrare naturali,  e nella durezza (i modi bruschi) della costruzione maschile c'è un’ ambiguità da comprendere: si diventa maschi rinunciando a morbidezze e rotondità, perchè questa è la condizione. L'identità taglia via delle cose, e dunque siamo parziali (uomini e donne). Non sarà  in questa stessa parzialità l'origine del desiderio dell'altro? Non sarà proprio questa incompletezza che ci rende interessanti agli occhi dell'altro? Dunque un incontro è possibile solo in termini di malinteso, c’è una sorta di rimpianto nel guardare il femminile per tutto ciò che maschile non è, e un uguale rimpianto nel tentativo di dare al femminile tutto ciò che il maschile pensa di essere, e non è.

“Le donne in definitiva non sapranno mai cos’è davvero la mascolinità e gli uomini saranno delusi quando crederanno di averla trovata. Le identità sessuali devono sfuggire di mano come anguille. Chi volesse levar loro il liquido vitale del malinteso si troverebbe tra le mani solo organi freddi”.

Un bel libro, politicamente scorretto, da leggere con sospetto e gratitudine.