martedì 21 dicembre 2010

Tanti auguri...





... di buon Natale
e felice anno nuovo!

Un libro, un film - 16 dicembre 2010 - Il mondo deve sapere

In che modo presentare Il mondo deve sapere? Un diario, un'inchiesta, o un manuale di sopravvivenza per casalinghe ignare delle moltitudini di acari che pascolano sui loro divani? In realtà, ciò che colpisce di questo libro non è tanto la forma, quanto i contenuti: la denuncia, espressa con feroce sarcasmo, della violenza psicologica che permea la realtà quotidiana di un call center.

A cosa è diretta questa denuncia? Al duplice sfruttamento psicologico perpetuato nell'emblematico ambiente della Kirby: sfruttamento sia dei clienti, prede da azzannare con ferocia, che degli stessi telefonisti (ovviamente precari), sottoposti ad un lavaggio del cervello studiato nei minimi dettagli. Queste tecniche di violenza psicologica vengono esasperate al punto da generare conseguenze paradossali: importa che il cliente accetti l'appuntamento, ma non ciò che gli viene venduto; importa che il telefonista segua un'inquietante liturgia collettiva, ma non che questa possa nuocere alla sua efficienza (ciò sarebbe blasfemo, se non inconcepibile). Chi comanda veste i panni del carnefice, senza rendersi conto di essere allo stesso tempo una vittima, stritolata dalla cieca venerazione di un sistema che non contempla alcuna differenza tra carnefici e vittime.

La questione principale è quindi la responsabilità da assumersi nei confronti di tale situazione. L'autore, Michela Murgia, scrive in modo del tutto esplicito un libro di denuncia; la protagonista, Camilla de Camillis, rinuncia invece ai propositi bellicosi con cui aveva illuso il lettore di una redenzione finale. Ciò non deve però trarre in inganno: il blog di Camilla “coincide” con il libro di Murgia, destinato a un lettore che corrisponde idealmente all'amica Silvia, utente del blog. Il mondo deve sapere non vuole però essere soltanto una denuncia di cosa avviene nel call center, ma semmai di come tutto ciò può avere luogo. Senza una profonda comprensione di questo meccanismo, non sarebbe possibile capire in cosa realmente consiste la vacuità della vita nel call center.

Il limite fatale dei limite fatale dei telefonisti è l'incapacità di condividere, a qualsiasi livello, il senso della propria esperienza: i loro rapporti sono prestabiliti e non presentano un minimo aspetto di spontaneità o solidarietà. I membri del call center non costituiscono una comunità; se così fosse, del resto, il meccanismo stesso non potrebbe più funzionare. Tutti gli aspetti del lavoro nel call center, anche quelli apparentemente più marginali, sono infatti volti a impedire che un'idea di comunità solidale possa germinare. Ciò che il mondo deve sapere è che, se quest'idea non verrà difesa con cura e passione, il deserto potrà estendersi dal call center alla totalità della nostra vita sociale.

venerdì 17 dicembre 2010

Il salotto del martedì - 14 dicembre 2010 - Di cosa parliamo quando parliamo d'amore, di Raymond Carver


Il titolo “civetta” può far pensare a storie sentimentali, ma l’aspettativa viene subito smentita: nei racconti l’amore c’è, però è spesso un “malamore” violento e distruttivo, o un amore finito nel divorzio, annegato nell’alcool. Al di là delle storie e dei pareri cinici o disillusi espressi sui sentimenti di coppia dai personaggi dei racconti, un paio di volte fa capolino un amore tenero e senile (alla Filemone e Bauci, dice qualcuno): gli anziani contenti dei loro ricordi di gioventù in “Gazebo”, oppure quelli di “Di cosa parliamo quando parliamo d’amore” (depressi non per il dolore fisico, ma perché le ingessature impediscono loro di girarsi e vedersi) rappresentano forse un esempio cui tende una aspirazione più o meno inconscia dell’autore?
I racconti sono uno specchio dello stile di vita americano (quello, però, che sta all’opposto delle rappresentazioni delle soap opere televisive): divorzi, violenze, alcolismo, precarietà del lavoro e delle relazioni umane. È il rifiuto di questo mondo che porta qualche lettore a rifiutare Carver. In altri, davanti a tanta desolazione, c’è un disagio che però non preclude la comprensione dell’abilità dell’autore nel tratteggiare in poche pagine flash di crudo realismo (qualcuno paragona la prosa dello scrittore alla fotografia). Davanti alle situazioni descritte, viene posta una domanda: “Perché Carver sceglie questi temi?” Si suggerisce che una possibile risposta si può cercare nella prima parte della vita dello scrittore, segnata da un matrimonio fallito, da lavori precari, dall’alcolismo. C’è chi, nonostante i morti ammazzati, le malattie, gli incidenti e i rapporti desolanti, individua tra le storie principali sprazzi di umanità, espressione di sentimenti “positivi”: operazione, questa, che riesce meglio con l’ausilio del testo originale dei racconti, molto più disteso. Infatti il Carver minimalista, quello della scrittura asciutta e delle psicologie solo suggerite, potrebbe essere (almeno in parte) costruzione del suo editor, che tagliò drasticamente i racconti, fino a ridurre le pagine del 45-50%. L’operazione di sfrondatura ha portato in alcuni casi a quei finali “aperti” che coinvolgono il lettore e lo costringono a ripensare il racconto per tentare di capire “come va a finire”, dandogli così la consapevolezza che si tratta di un libro “che si legge bene”, cioè facilmente, solo in apparenza.
Viene anche avanzato il suggerimento di leggere i racconti come capitoli di un unico romanzo, dove non si ritrovano gli stessi personaggi, ma lo stesso tema, che può essere il diverso modo di vivere l’amore o di affrontare le pene della vita, magari scoprendo in qualche spunto distruttivo qualcosa che ci ha coinvolti o tentati personalmente.
Il libro, scritto negli anni ’70/'80, veniva letto in Italia come specchio di un mondo lontano, che oggi – invece – appare molto più vicino alla nostra esperienza.




Per un parallelo tra diverse forme espressive, qualcuno rimanda al film “America oggi” di Altman, tratto da Carver, e alla pittura realistica di Hopper, con le sue pompe da benzina, desolate tavole calde, bar di solitudine.
Avete opinioni diverse, osservazioni da aggiungere? Scrivete!


(a cura di Ivana Baraldi)

venerdì 10 dicembre 2010

Un libro, un film - verso 'Il mondo deve sapere' di Michela Murgia


Il mondo deve sapere - Romanzo tragicomico di una telefonista precaria è una commedia amara, condita con ironia feroce, sul lavoro precario che umilia e affama, ed è anche un atto d’accusa, un appello tra il sarcastico e il disperato: 'Precari di tutto il mondo unitevi!'.

Il mondo deve sapere è una sorta di diario che diverte e sgomenta («…ma io non ci credo figuriamoci se è vero…» direbbe Benigni a proposito dei disastri del nostro paese…) raccontando giorno dopo giorno un mese di lavoro in un call center dove ci si agita come forsennati, si mente senza colpa, e si fanno le scarpe ai colleghi per fissare appuntamenti telefonici, vendere aspirapolveri e turlupinare centinaia di casalinghe. Leggero, paradossale, visionario e militante (ricorda la Brunella Gasperini degli anni '70, ma la sua era una rivoluzione garbata d’altri tempi, lei non avrebbe mai usato 'cazzo' neanche 'eccheccazzo'! Che qui ce n’è parecchi).

Qualcuno lo ha definito 'un testo teologico' che svela i rituali segreti della più potente fede religiosa che esista al mondo (lo ha scritto Nicoletti su «La Stampa»). E a ben guardare i rituali blasfemi della setta religiosa ci sono tutti perché c’è la soggezione e la vergogna, oltre alla 'preghiera' collettiva del mattino, che ti fa sentire un tutt’uno con la grande famiglia, ti energizza, ti ricarica, ti convince che 'sei nel giusto' anche se manipolatore e bugiardo, che tutto puoi essere e sarai, se fedele alla missione Kirby (la multinazionale dell’aggeggio aspirapolvere igienizzatore lucidatore massaggiatore con brevetto della Nasa). Ma nel cerimoniale è previsto anche il peccato, se non raggiungi l’obiettivo, c’è la minaccia incombente della punizione ovvero il licenziamento, c’è l’espiazione o lo sberleffo plateale davanti ai colleghi e la redenzione se ce la metti tutta e ce la fai. Perché se credo in te e nel tuo dio tu ce la farai!! Farcela significa prendere una settantina di appuntamenti al mese anche se te ne saranno pagati forse meno della metà.

Diciamo che al di là della qualità letteraria del testo ci interessa il tema e ci interessa l’autrice, che è nata a Cabras in Sardegna, che a ragione detesta essere definita giovane scrittrice (ha 38 anni), e che dopo questo libro, diventato prima uno spettacolo teatrale e poi un film (Tutta la vita davanti diretto da Paolo Virzì) ha scritto il romanzo Accabadora e si è aggiudicata il premio Campiello. Poi ha aperto un sito molto 'politico', ha una rubrica fissa nella trasmissione Le Invasioni barbariche, fa parte del Coordinamento Teologhe Italiane e collabora con molti periodici.

Il libro ha il merito di diventare un luogo. Dal momento che siamo a corto di posti dove la gente incontra altra gente, siamo a corto di piazze e di sezioni di partito - dice la Murgia - facciamo diventare i libri luoghi. Può succedere che un libro generi una comunità, e che questa comunità crei relazioni tra chi si riconosce nel protagonista e che produca coscienza, scatti d’orgoglio, azione, cambiamento. Noi siamo d’accordo con lei.

Elena Bellei, conduttrice del GdL 'Un libro, un film'

lunedì 6 dicembre 2010

Il salotto del martedì - verso "Di cosa parliamo quando parliamo d'amore", di Raymond Carver


C'è un racconto, tra quelli che compongono il libro di Raymond Carver Di che cosa parliamo quando parliamo d'amore (1981), che apparentemente è la storia sconclusionata di una serie di scatti fotografici, ma rimanda certo a qualcos'altro, perché niente, in Carver, è esattamente quello che sembra.
Il titolo del racconto è Mirino. Il termine, che si riferisce sia all'obiettivo della macchina fotografica, sia a quello del fucile, sembra una giusta metafora per definire lo stile cosiddetto "minimalista", che isola alcuni particolari apparentemente insignificanti per caricarli di senso. Sono racconti, ma anche flash, che ti colpiscono come una fucilata, spesso alle spalle. Più che storie brevi, sono "fotografie narrative", crude istantanee che riprendono un'umanità sconfitta, vittima esemplare di un sogno americano ormai in dissoluzione. Sono storie scritte negli anni '80, eppure sembrano prevedere l'America (e anche l'Italia?) di oggi.
Ne ha parlato la vedova di Carver, Tess Gallagher, intervistata da Curzio Maltese nel giugno di quest'anno. Dice la Gallagher:"Lui si è occupato di gente che viveva sulla propria pelle lacerazioni fondamentali del tessuto sociale, come disoccupazione, alcoolismo, divorzio, debiti, tradimenti, la mancanza di un tetto e vari tipi di abbandono".
Storie perturbanti, racconti "senza trama e senza finale", secondo la lezione cechoviana? Sì, ma anche squarci di verità, improvvise rivelazioni per cui un cancello che sbatte suggerisce un'arcana minaccia, mentre la luce della luna, illuminando le cose di tutti i giorni, ne svela l'altra faccia.
E infine pagine spesso intrise di "pietas", di umana compassione. Sentite come si chiude il racconto che dà il titolo alla raccolta, dopo che i protagonisti hanno discusso a lungo sulle varie specie d'amore:"Sentivo il cuore che mi batteva. Sentivo il battito del cuore di ognuno. Sentivo il rumore umano che facevamo tutti, là seduti, senza muoverci, nemmeno quando la stanza diventò tutta buia".


Matilde Morotti, per il Gruppo di lettura “Il salotto del martedì”

venerdì 3 dicembre 2010

Leggere con Ugo Cornia - 1 dicembre 2010 - Centuria

I “cento piccoli romanzi fiume” di Manganelli si snodano attraverso le pagine, ponendo al lettore un interrogativo: vi è un criterio d'insieme che lega tra loro tutte le Centurie? O invece la ricerca di un criterio di questo tipo sarebbe una forzatura, un travisamento degli intenti letterari dell'autore?

I racconti che compongono Centuria invitano a una lettura a piccole dosi, non necessariamente nell'ordine di stampa; da questo punto di vista, ognuno di essi costituisce un'unità autonoma e indipendente. D'altra parte, vi sono alcuni concetti-chiave che ricorrono in tutto il libro. Questi concetti sono i temi fondamentali della tradizione filosofica: il rapporto tra amore e odio, il tempo e la morte, Dio e l'universo, la realtà e il sogno, la verità, la ricerca di sé. Il libro è quindi da considerarsi una raccolta di racconti filosofici?

Il modo in cui Manganelli affronta queste tematiche è però tutt'altro che convenzionale: esse vengono continuamente "scaravoltate"dalla comicità e dall'ironia dell'autore. I racconti di Centuria hanno quindi allo stesso tempo un aspetto filosofico e uno comico. La connessione tra i due aspetti non può che risiedere nell'immaginazione creativa dell'autore (e del lettore). Questa immaginazione si esprime nel linguaggio: nella ricercatezza del lessico, nell'articolazione del periodo, nella perfezione formale complessiva di ogni racconto.

La perfezione linguistica di Manganelli potrebbe essere indagata nei suoi risvolti più remoti: se e in che modo si connette con la personalità dell'autore, con la sua visione del mondo, con il suo contesto sociale e culturale. Ma è realmente necessario ricercare a queste profondità il significato ultimo della letteratura? In fondo, ogni libro è un'opera d'arte e in quanto tale ha un proprio valore intrinseco, a prescindere da una specifica interpretazione; in particolare, Centuria è “soltanto” una raccolta di racconti e il modo migliore di goderne è semplicemente leggerli. Un libro da leggere: una frase banale solo in apparenza.