venerdì 17 dicembre 2010

Il salotto del martedì - 14 dicembre 2010 - Di cosa parliamo quando parliamo d'amore, di Raymond Carver


Il titolo “civetta” può far pensare a storie sentimentali, ma l’aspettativa viene subito smentita: nei racconti l’amore c’è, però è spesso un “malamore” violento e distruttivo, o un amore finito nel divorzio, annegato nell’alcool. Al di là delle storie e dei pareri cinici o disillusi espressi sui sentimenti di coppia dai personaggi dei racconti, un paio di volte fa capolino un amore tenero e senile (alla Filemone e Bauci, dice qualcuno): gli anziani contenti dei loro ricordi di gioventù in “Gazebo”, oppure quelli di “Di cosa parliamo quando parliamo d’amore” (depressi non per il dolore fisico, ma perché le ingessature impediscono loro di girarsi e vedersi) rappresentano forse un esempio cui tende una aspirazione più o meno inconscia dell’autore?
I racconti sono uno specchio dello stile di vita americano (quello, però, che sta all’opposto delle rappresentazioni delle soap opere televisive): divorzi, violenze, alcolismo, precarietà del lavoro e delle relazioni umane. È il rifiuto di questo mondo che porta qualche lettore a rifiutare Carver. In altri, davanti a tanta desolazione, c’è un disagio che però non preclude la comprensione dell’abilità dell’autore nel tratteggiare in poche pagine flash di crudo realismo (qualcuno paragona la prosa dello scrittore alla fotografia). Davanti alle situazioni descritte, viene posta una domanda: “Perché Carver sceglie questi temi?” Si suggerisce che una possibile risposta si può cercare nella prima parte della vita dello scrittore, segnata da un matrimonio fallito, da lavori precari, dall’alcolismo. C’è chi, nonostante i morti ammazzati, le malattie, gli incidenti e i rapporti desolanti, individua tra le storie principali sprazzi di umanità, espressione di sentimenti “positivi”: operazione, questa, che riesce meglio con l’ausilio del testo originale dei racconti, molto più disteso. Infatti il Carver minimalista, quello della scrittura asciutta e delle psicologie solo suggerite, potrebbe essere (almeno in parte) costruzione del suo editor, che tagliò drasticamente i racconti, fino a ridurre le pagine del 45-50%. L’operazione di sfrondatura ha portato in alcuni casi a quei finali “aperti” che coinvolgono il lettore e lo costringono a ripensare il racconto per tentare di capire “come va a finire”, dandogli così la consapevolezza che si tratta di un libro “che si legge bene”, cioè facilmente, solo in apparenza.
Viene anche avanzato il suggerimento di leggere i racconti come capitoli di un unico romanzo, dove non si ritrovano gli stessi personaggi, ma lo stesso tema, che può essere il diverso modo di vivere l’amore o di affrontare le pene della vita, magari scoprendo in qualche spunto distruttivo qualcosa che ci ha coinvolti o tentati personalmente.
Il libro, scritto negli anni ’70/'80, veniva letto in Italia come specchio di un mondo lontano, che oggi – invece – appare molto più vicino alla nostra esperienza.




Per un parallelo tra diverse forme espressive, qualcuno rimanda al film “America oggi” di Altman, tratto da Carver, e alla pittura realistica di Hopper, con le sue pompe da benzina, desolate tavole calde, bar di solitudine.
Avete opinioni diverse, osservazioni da aggiungere? Scrivete!


(a cura di Ivana Baraldi)

2 commenti:

  1. Ho letto “Principianti” di Carver durante l'estate. Per me che avevo letto e amato il Carver di "Di cosa parliamo quando parliamo d'amore” (tagliato in buona parte da un editor spietato, che però ha contribuito a costruire uno stile dove ogni parola è necessaria), è stata l'opportunità di cogliere qualche sfumatura in più in una scrittura che resta comunque tagliente, e scava storie e personaggi indimenticabili. Semplicemente qui c'è più “crescendo”, ma il pugno nello stomaco, in queste storie spesso amare, fatte di incomunicabilità e dove ogni tanto uno spiraglio di luce si apre nel luogo più impensato, arriva comunque, eccome se arriva. La più toccante di tutte, in entrambe le versioni “Una cosa piccola ma buona”, dove allo strazio della perdita più irreparabile si unisce una piccola, solo apparentemente insignificante, consolazione.

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  2. [commento inviato da Luisa Magnani]

    Carver è uno scrittore minimalista? Sembrerebbe di sì, leggendo i racconti “Di cosa parliamo quando parliamo d’amore”, pubblicati nel 1980,edizione italiana Garzanti), con la prepotente riduzione operata sui manoscritti da parte dell’editor di fiducia Gordon Lish; ma Riccardo Duranti, il traduttore italiano, nelle note aggiuntive a “Principianti”, che è la pubblicazione dei racconti così come Carver li aveva concepiti, sostiene: “La mia teoria è che Lish, finissimo stratega editoriale, avesse intravisto nei racconti di Carver le qualità necessarie per lanciare l’operazione Minimalismo sul mercato letterario, usandolo a mo’ di ariete dopo averlo manipolato e reso più simile all’idea di fiction che aveva in mente”.
    Di fatto i racconti vengono pubblicati con tagli anche del 50% e oltre. Le lettere di Carver , che supplica di non pubblicare i racconti così tagliati (Lish aveva dalla sua un contratto capestro), commuovono e presentano un uomo che deve all’editor un interessamento essenziale per la sopravvivenza: allargamento della cerchia di conoscenze, opportunità di lavoro, fiducia, e persino autostima. L’autore che ha trovato la forza di smettere di bere, tuttavia non si sente ancora saldo e teme di ripiombare nella vita misera di prima se non saprà accettare l’obbligo che gli è stato imposto di riduzioni tanto drastiche dei suoi racconti.
    Da quando ho scoperto la versione del manoscritto originale fatico a ritornare all’entusiasmo che mi aveva colto alla prima lettura di Carver nell’edizione Garzanti; oggi gradisco le sue ampie descrizioni, l’approfondimento dei caratteri, la ricchezza dei dialoghi, il finale spesso tragico, ma potente di consapevolezza del destino umano. L’ampiezza dei testi di “Principianti”non cancella l’evidente ricerca di semplicità e di verità, l’appassionata devozione alla scrittura; si manifesta, pregevole, la capacità di Carver di evitare sentimentalismo e patetismo.

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