martedì 7 febbraio 2012

Il salotto del martedì - verso "Accabadora", di Michela Murgia

Abbiamo incontrato Michela Murgia a Modena, quando è venuta in biblioteca a parlarci del suo ultimo libro, Ave Mary.
Personalità sfaccettata, quella della scrittrice sarda: narratrice divertente, capace di far ridere fino alle lacrime con la sua tragicomica rappresentazione del lavoro precario (Il mondo deve sapere); intrisa di cultura cattolica, ma anche aliena da ogni dogmatismo, pronta alla provocazione intellettuale e capace di riflettere nel prisma della scrittura letteraria la complessità di altissimi temi filosofici ed esistenziali.
In questo suo Accabadora (Einaudi, 2009), con cui nel 2010 ha vinto il premio Campiello, la Murgia solo apparentemente ci dà un quadretto regionalistico, ambientato nella Sardegna anni '50 ed imperniato sul tema folklorico dell' “accabadura”, cioè una sorta di eutanasia praticata, in un contesto di fortissimi legami comunitari, sui malati terminali. Altrettanto infondata è l'impressione che l'autrice si serva di questo sfondo storico per prendere posizione su problematiche d'attualità, legate al tema del “fine-vita”. In realtà, senza facili certezze, il libro tocca temi universali: la maternità, le scelte che tutti siamo chiamati a fare, il confine tra il giusto e l'ingiusto, la crescita interiore che è, insieme, nascita e morte.
Protagonista del romanzo è, infatti, Tzia Bonaria, un'anziana donna che, su richiesta dei parenti, aiuta gli agonizzanti a compiere l'ultimo passo, liberandoli da intollerabili sofferenze. Quest'attività di Bonaria è avvolta dal mistero: si svolge di notte, in segreto, ed è accompagnata e ritualizzata da procedure di tipo magico, che trasformano la figura dell' “accabadora”, facendone un'ultima, pietosa “madre”. Una simile rappresentazione avrebbe un carattere puramente storico-etnografico, se non fosse resa drammatica dal fatto che noi vediamo tutto attraverso gli occhi di Maria, una figlia non voluta che Bonaria ha preso con sé come “fili'e anima”. Ciò introduce nel libro il tema della maternità elettiva, del legame che non viene dal sangue, ma dall'amore e dall'accoglienza, e contemporaneamente mette in scena la fortissima divaricazione tra due culture: quella dell'anziana legata a tradizioni ancestrali e quella della giovane donna che ha orrore di ciò che scopre e se ne va, ma solo per tornare e comprendere che non bisogna mai dire: “Di quest'acqua io non ne berrò.”
Le due donne simboleggiano dunque il drammatico conflitto tra il mondo arcaico, in cui una collettività stringe in silenzio una rete di patti condivisi, e la modernità incalzante, che pone nuove difficili domande. A queste domande il romanzo non dà risposte precostituite, limitandosi a portare alla luce le tante facce dell'immenso tema della vita e dei suoi due estremi: la nascita e la morte.

Matilde Morotti

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