sabato 23 gennaio 2010

Da lettore a lettore - Tra best seller 2009 e "libri del cuore"


L'Ansa ha pubblicato sul suo sito in data 3 gennaio 2010 la classifica dei libri più venduti del 2009, elaborata da Eurisko. Li avete letti? Li avete amati? O siete stati catturati da altro? (novità o classici riscoperti, best seller o dimenticati dal mercato, di grandi editori o di editori di nicchia).
Raccontate i libri più significativi del 2009.



I 10 PIU' VENDUTI IN ASSOLUTO:
1) LARSSON, La regina dei castelli di carta (Mursia)
2) LARSSON, Uomini che odiano le donne (Mursia)
3) LARSSON, La ragazza che giocava con il fuoco (Mursia)
4) BROWN, Il simbolo perduto (Mondadori)
5) CAMILLERI, La danza del gabbiano (Sellerio)
6) MEYER, Eclipse (Fazi)
7) FALETTI, Io sono dio (Baldini Castoldi Dalai)
8) MEYER, New Moon (Fazi)
9) MEYER, Breaking down (Fazi)
10)DENNIS, Zia mame (Adelphi)

NARRATIVA ITALIANA
1) Camilleri, La danza del gabbiano (Sellerio)
2) Faletti, Io sono dio (Baldini Castoldi Dalai)
3) Giordano, La solitudine dei numeri primi (Mondadori)
4) Mazzantini, Venuto al mondo (Mondadori)
5) De Luca, Il giorno prima della felicità (Feltrinelli)

NARRATIVA STRANIERA
1) Larsson, La regina dei castelli di carta (Mursia)
2) Larsson, Uomini che odiano le donne (Mursia)
3) Larsson, La ragazza che giocava con il fuoco (Mursia)
4) Brown, Il simbolo perduto (Mondadori)
5) Meyer, Eclipse (Fazi)

SAGGISTICA
1) Benedetto XVI, Caritas in veritate (Libreria Ed, Vaticana)
2) Muzzi, Vaticano spa (Chiarelettere)
3) Saviano, La bellezza e l'inferno (Mondadori)
4) Calabresi, La fortuna non esiste (Mondadori)
5) Augias-Mancuso, Disputa su Dio e dintorni (Mondadori)
[L'immagine: Blue girl reading (1935), di Frederick Carl Frieseke]

venerdì 22 gennaio 2010

Un libro un film - Nelle terre estreme di Jon Krakauer



La fine è annunciata già dalle prime pagine e si rivela testualmente, senza pietà per il giovane Chris McCandless, protagonista di Nelle terre estreme di Jon Krarauer. “L’Alaska ha sempre esercitato un certo fascino su sognatori e disadattati, - recita la condanna - su chi pensa di poter rattoppare i buchi della propria esistenza nell’incontaminata realtà dell’Ultima frontiera. Soltanto che la foresta non perdona e di sogni e desideri non sa che farsene”.

Dunque noi sappiamo, prima di lui, che il giovane Alexander Supertramp (questo è nome d’avventura di Chris) non ce la farà, non sopravviverà a “Nord, verso il futuro”, ai confini del sacro, nella terra che fu tormento dei cercatori d’oro, perché i fiumi sono gonfi e impetuosi, le zanzare ti mangiano vivo, in molti posti non trovi granché da mettere sotto i denti e “perché vivere nella foresta non è certo come fare un pic-nic”.

Anche il lettore più appassionato, pronto a puntare su di lui e sul suo coraggio e la sua felice energia, presto dovrà riconoscere che così non va, che gli scarponi non sono abbastanza robusti, il fucile ha un diametro troppo piccolo per uccidere animali di grossa taglia e la riserva di riso è scarsa. E poi gli manca un’ascia, una bussola, l’insetticida…

Eppure, testardi e sognatori, lo seguiamo nella speranza che non faccia scherzi, che non si perda a giocare sull’orlo dell’abisso, e ci aspettiamo che rallenti la corsa, che sia prudente e che magari la giovane figlia dei figli dei fiori della comune hippy di Slab City lo incanti come una sirena con la sua chitarra, o che Wayne lo convinca a restare a lavorare nei silos del Sud Dakota e a bere birra assieme a lui nel pub, o che il vecchio Ron lo tenga con sé, a Salton City, come un figlio adottivo, a colmare il vuoto della perdita di quello naturale, morto sparato da un ubriaco la notte di capodanno.

Ma Chris nessuno lo può fermare, lo spinge la ribellione, la rabbia per il suo passato, per le convenzioni ipocrite della società, e il terrore delle trappole, come succede ad ogni animale selvatico.

Sarebbe però un bagaglio ben meschino quello che Supertramp si porta appresso se accanto a questa rabbia non trovasse posto nel suo zaino un sincero desiderio di interiorità, di poesia e di assoluto.

Così il nostro eroe per due anni attraversa un bel pezzo d’America a piedi e chiedendo passaggi a chi incontra sulla strada, o nascosto tra le merci dei vagoni dei treni; dal Sud Dakota, all’Arizona, dalla California al Messico senza negarsi il brivido incosciente del kayak tra le rapide del Colorado, giù fino al Golfo del Messico.

Nella vita - scrive Chris nei suoi diari - quello che conta non è essere forti ma sentirsi forti. Misurarsi con se stessi, almeno una volta”.
Un viaggio esistenziale, dunque, alla ricerca di sé, della libertà, della verità. Quella che Chris non trova nel mondo civilizzato, non trova nel mondo incravattato degli adulti “per bene”, non trova nella sua famiglia che pure lo ama, e che lo vuole ad Harward e lo vede proiettato in un futuro “brillante”.


Infine l’Alaska. Nella natura selvaggia, là dove finisce la terra, Christopher rimane 120 giorni, dormendo in un vecchio autobus abbandonato, mangiando quel gli regala la natura, studiando bacche e radici per poterle riconoscere come commestibili, cacciando, resistendo al freddo e alla solitudine. Resterà a misurare se stesso, a cercare qualcosa, forse a comprendere dolorose verità, a commuoversi per l’infinita bellezza della natura, leggendo Tolstoj e Thoureau, e lasciando lui stesso tracce della sua prosa.

Nel suo taccuino pochi giorni prima di morire (per aver ingerito radici non commestibili) scrive, tra le tante verità incontrate sulla strada, l’ultimo pensiero: “la felicità più autentica è reale solo se condivisa”.


Elena Bellei, conduttrice del Gruppo di Lettura della Biblioteca Delfini

martedì 22 dicembre 2009

Tanti auguri...

...di buon Natale
e felice anno nuovo!

Un libro un film. Terzo incontro del GdL (17 dicembre 2009) – Il pranzo di Babette

Dopo uno scambio di doni letterari - personalissime strenne che prefigurano il clima natalizio -, Elena Bellei ci introduce alla figura di Karen Blixen, scrittrice e pittrice danese dalla vita avventurosa e dai tanti pseudonimi.
Concluso un lungo soggiorno in Africa, Karen torna nel paese natale con le disillusioni di chi ha perso tutto – il marito, l'amante, la fattoria – e una malattia che l'accompagnerà fino alla morte.

Se nel suo libro più celebre, La mia Africa, il tema portante è il possesso, si può sostenere che nel Pranzo di Babette sia il dono? Certamente si, se si pensa al grandioso regalo culinario di Babette, riservato alla comunità che l'ha accolta, ma soprattutto a se stessa.

Anche la scelta è un tema forte del racconto: scelta tra l’inseguimento, talvolta affannoso, della fama e del successo, e l’appagamento – ma anche la passività – di un’esistenza tranquilla. Il generale Lorens Loewenhielm è una figura al limite fra queste due opzioni: giovane attratto dalla ricerca di una profonda spiritualità la riscoprirà solo da uomo maturo, dopo una brillante e ambiziosa carriera e una vita calata nella mondanità.

La possibilità di scelta, però, ammette anche il suo contrario, la non-scelta, la rinuncia. Soprattutto nel film, e precisamente nella scena in cui Filippa canta con Achille Papin – il duetto Là ci darem la mano dal Don Giovanni di Mozart, in cui il famoso libertino flirta sfacciatamente con Zerlina per indurla a tradire Masetto, non sembra essere stato inserito casualmente dall’autrice –, la giovane figlia del decano rinuncia consapevolmente all'esperienza non solo dell’amore, ma anche del successo e della celebrazione del proprio talento.

Ma le scelte sono davvero tali? Il generale, nel suo discorso al pranzo, sembra smentirlo, mentre sostiene che tutto è un dono e che le scelte non sono davvero tali, perché l'uomo è guidato dai “capricci del destino”.

In un mondo esasperatamente puritano, in cui il fanatismo religioso non concede nemmeno la possibilità di costruirsi una famiglia, la casa del decano è il luogo del silenzio, dell’incapacità della comunicazione spontanea, del rifiuto delle emozioni e dei sentimenti. Persino Lorens, che nella vita mondana parigina sarà un ottimo conversatore, in quella casa era condannato ad un mutismo avvilito.

Tra l'egoismo, mascherato da generosità, del decano e le esasperazioni arrivistiche del generale, Babette si situa come un ponte tra i due mondi. Nelle scene finali del banchetto, questi mondi si avvicinano progressivamente finché le neve, ricoprendo ogni cosa, ne smussa gli angoli e ne uniforma le sembianze: i due mondi diventano tutt’uno. La fusione tra l’ambiente sterile di Berlevaag e la sensualità della vita altrove culmina nella decisione di Babette di non tornare in Francia: è questa la scelta che dà senso all’intero racconto. Alla stregua di un dio, o di un demiurgo, Babette non appartiene a nessuna delle due condizioni. E, tramite la sua cucina, sembra trasformarsi in metafora della letteratura: il cibo come la parola. Nel convivio, il cibo ridà vita a tutti i commensali e ognuno pare magicamente ritrovare se stesso. Il cibo, come la lettura, dà qualcosa a tutti.

L'arte che entra nel Pranzo di Babette non è solo quella di Achille Papin. La vera artista è Babette. Lei stessa si descrive come tale. Qualcuna sostiene però che Babette non sia proprio una artista, semmai una scialacquatrice di denaro.... In realtà, Babette sembra sperperare proprio per il piacere di farlo: il suo è un eccesso creativo. Babette, che è stata una Communard, e per i suoi ideali ha perso la famiglia, non nasconde che gli unici capaci di comprendere i suoi capolavori siano gli aristocratici, quegli stessi da lei avversati politicamente. La constatazione paradossale che porta Babette a riconoscere solo al nemico le capacità di ravvisare il talento sembra consacrare il concetto estetico dell’arte per l’arte, della creatività fine a se stessa, sottratta alla morale e a qualsiasi coerenza.

Ma Babette, che alcune di noi hanno interpretato come un angelo inviato a modificare gli assetti della piccola comunità di Berlevaag, o come l’incarnazione letteraria di Karen Blixen - pure lei una rivoluzionaria appartenente ad una élite –, rivela anche un lato diabolico. La tartaruga, alle due sorelle, appare come una creatura terrificante, un animale degno di una sabba; Babette e il suo aiuto cuoco dai capelli rossi impersonano una strega e il suo folletto, pronti a preparare pozioni magiche in una fucina di segreti alchemici.

Rispetto al film, per alcune il libro è una delusione, soprattutto per il diverso trattamento che il racconto riserva alla preparazione del pranzo. Accurato, emozionante, quasi sinestetico nella pellicola, appena abbozzato nel testo, dove le tanto decantate Cailles en sarcophage languono in una breve citazione, rispetto alla inebriante descrizione del film. Inoltre l'autrice, secondo alcune, non prende una posizione rispetto ai due possibili stili di vita proposti dal libro.

Dal punto di vista stilistico, notiamo come una categoria cinematografica come l'Astrazione lirica di Gilles Deleuze, intesa come capacità di spogliare, ripulire, mondare dell’inutile per giungere all'essenza, descriva bene lo stile asciutto di Karen Blixen.

mercoledì 16 dicembre 2009

Un libro un film - Il pranzo di Babette di Karen Blixen


Se il tema centrale del suo romanzo/diario, La mia Africa, (il più famoso di Karen Blixen) è il possesso, e l’intima volontà di lasciare un’impronta nell’animo altrui, quasi come una bandiera in terre che non ci appartengono (ricordiamo che la storia si dipana in epoca coloniale), l’asse portante del racconto Il pranzo di Babette è, al contrario, il dono.

Da una parte dunque la volontà di possedere, attraverso la seduzione e l’amore, ma anche con il denaro o la caccia grossa, o l’imposizione della propria cultura, dall’altra la gioia di condividere un piacere e assieme ad esso una verità che dice pressappoco così: il più bel dono è il tuo essere più autentico, dunque non tradire la tua “arte” e dai il meglio che puoi.

Filippa e Martina, le sorelle timorate di Dio del racconto (che fa parte della raccolta I capricci del destino) offrono generosamente alla povera comunità luterana di Berlevaag ciò che possiedono, ma minestra di patate e merluzzo secco si rivelano a lungo andare offerte misere come il loro misero spirito, mai alimentato dai piaceri della vita. Sì perché bellezza, talento e amore, quello vero fatto di abbondanza e non di privazione, di gioia e non di mortificazione, è sacrificato sull’altare della fede.
Il villaggio ha piccole case, una piccola chiesa, piccoli scialli grigi sulle spalle intirizzite dal freddo norvegese, e la frugalità materiale ed emotiva vissuta come una intima ricchezza (eredità del padre decano e profeta) non sarà garanzia di perenne armonia nella comunità ma origine di sottili rancori. Fino a quando non arriva Babette.
Babette è una raffinata cuoca francese, (ma la sua identità non sarà svelata se non alla fine della storia) in fuga da Parigi per le sue battaglie rivoluzionarie, alla ricerca di un rifugio sicuro nel desolato villaggio.


Babette, tanto grande quanto umile, presta servizio presso le sorelle cucinando zuppe di pane fino a quando una vincita alla lotteria non le permette di offrire alla piccola comunità un ricco pranzo alla francese, con menu a base di… brodo di tartaruga, cailles en sarcophage, blinis Dermidof, pregiato Veuve Cliquot, eccetera, eccetera, eccetera.
Tra i commensali solo il generale Loewenhielm, spasimante respinto da Filippa tanti anni prima e uomo di mondo (in visita al villaggio con la vecchia zia), riconoscerà Babette e il valore di quel cibo delle delizie.


Ma anche gli animi più austeri ne saranno intimamente toccati pur senza farne cenno né parola per fedeltà ai severi princìpi della loro dottrina. E per loro la vita non sarà più quella di prima.


Elena Bellei, conduttrice del Gruppo di Lettura della Biblioteca Delfini



sabato 5 dicembre 2009

Un libro un film - L'amore molesto. Visione del film



3 dicembre 2009 alle 17.30


Sin dalle prime battute, ci appare subito chiara la difficoltà, per lo spettatore non avvezzo alla parlata partenopea, di comprendere i fitti dialoghi in napoletano. Concordiamo anche sul fatto che, se non si fosse letto il libro in precedenza, la visione del film sarebbe piuttosto faticosa: non solo per l’ostacolo linguistico, ma anche per la concatenazione degli eventi, al limite tra realtà e allucinazione.



Eppure, nonostante tutto, il film chiarisce alcuni passaggi cruciali del libro. Dopo la violenza subita da nonno Polledro – nel film solamente evocata –, la piccola Delia inizia un percorso di allontanamento della parte femminile da sé, trasferendo sulla madre Amalia colpe inesistenti, che sfoceranno nella dolorosa bugia riferita al padre. Il processo di ‘maschilizzazione’ di Delia si arresta solo con la morte di Amalia; mentre la riappropriazione della femminilità perduta – nonché di un’idea non più distorta della madre – iniziata in una oscena e seducente Napoli, diviene fatto compiuto in treno, nel viaggio di ritorno alla realtà quotidiana, quando Delia beve dalla lattina di birra offertale da un giovane passeggero, inaugurando così un nuovo modo di godere della vita e del mondo.



Se, sulla base del romanzo, qualcuna di noi aveva ipotizzato che Delia, nella definitiva riconciliazione con la madre, arrivasse addirittura ad imitarne il gesto estremo – il supposto suicidio – il finale del film ci fa invece propendere, all’unanimità, per un lieto fine, con Delia finalmente rappacificata con se stessa e con Amalia.



Ad eccezione della scena della sauna, in cui il vapore diffuso sostituisce la copiosa traspirazione di Delia nel momento di intimità con Antonio, descritto nel romanzo, il film è molto aderente al libro. È noto infatti che per la sceneggiatura de ‘L’amore molesto’ Martone instaurò una stretta collaborazione con la stessa Elena Ferrante, peraltro dichiaratasi estremamente soddisfatta del finale della pellicola.



Ci interroghiamo sul titolo e ci rendiamo conto che l'’amore molesto’ non è solo quello tra il padre di Delia e Amalia, ma quello di tutti gli altri rapporti interpersonali, sofferenti e talvolta perversi.



Al contrario del libro, dove la pioggia è un intermezzo non troppo disturbante, nel film è anch'essa molesta, fitta e incessante come un tedioso brusio di fondo. Allo stesso tempo, l'atmosfera generale del racconto sembra più opprimente e cupa che nel lavoro cinematografico.



Durante la visione, notiamo una simbologia non presente nel libro, ancorché pieno di metafore: nel film la vista, intesa come sguardo interiore, introspezione, si materializza negli occhiali di Delia. Senza occhiali, da piccola, fraintende, costruendo soggettivamente la sua visione degli avvenimenti; da grande, appena li inforca, nel luogo in cui ha subito l'abuso, ricorda e rivede l'accaduto, riaggiustando in sé tanti piccoli pezzi che sembravano da tempo non combaciare.



Anche il colore rosso dell’abito di Delia – che ricorre nella locandina – nel film è più vivace che nel libro, in cui viene descritto di una tonalità ruggine. Lo stesso rosso incandescente trasfigura la vestaglia di Delia, che nel testo è di un rassicurante color cipria. Il sangue, che nel volume è l’emblema della purificazione di Delia, nel film sembra dunque tingere di senso gli indumenti che legano spiritualmente madre e figlia.