sabato 7 aprile 2012

Il salotto del martedì - verso "La lingua perduta delle gru" di David Leavitt

“I miei genitori sono gente aperta”. Con la stessa fiducia con cui la protagonista di “Indovina chi viene a cena” presentava ai suoi il fidanzato nero, così Philip, nel romanzo di David Leavitt La lingua perduta delle gru (Mondadori, 1987, p.332) progetta di rivelare ai genitori la verità sul suo rapporto con Eliot, l'uomo di cui è innamorato. Perché Philip è gay, e questo è un romanzo d'amore. Nonostante i dettagli crudissimi, l'amore omosessuale in questo libro è romantico, appassionato, delicato come nei romanzi per signorine di una volta. “Sono tuo”, dice Philip all'amante (che poi in realtà è uno spietato egoista, ma questo succede anche nelle coppie eterosessuali).

Dunque il tenero, fiducioso, innamorato Philip si appresta a fare “coming out”, rivelando la sua omosessualità ai genitori. Ma è davvero credibile, negli anni '80 in cui il libro è collocato, che tutto fili liscio, senza suscitare terremoti? La rivelazione, in realtà, apre una dolorosa frattura tra figlio e madre e mette improvvisamente il padre di fronte a se stesso, costringendolo, a sua volta, ad uscire dall'oscuro carcere che è stato, per tanti anni, la sua vita.

Perché i genitori non sono per niente quella coppia intellettualmente aperta, unita, “normale” che mettono in scena da sempre. Se è vero che questo è un romanzo d'amore, e d'amore “regolare” anche tra gay (non a caso viene usato, a proposito del rapporto consolidato, il verbo “accasarsi”), bisogna ammettere che del matrimonio convenzionale tra uomo e donna vengono messi in luce i lati più oscuri ed insidiosi. Che tristezza questi due che leggono in silenzio, l'uno di fronte all'altra, e sembra una scena armoniosa e invece è una solitudine a due; tant'è che la domenica la passano ognuno per conto suo, per anni ed anni, e solo per caso una volta s'incontrano passeggiando sotto la pioggia nella città ostile ed immediatamente si separano, ognuno perso dentro il suo viaggio insensato, senza avere il coraggio di porsi la domanda fondamentale: “Che cosa siamo l'uno per l'altra, che cosa abbiamo fatto della nostra vita?”.

E allora il cambiamento introdotto dalla rivelazione del figlio si rivela l'unico modo per ritrovare una verità, un'autenticità fin qui negata : “Le corde del cuore desideravano essere toccate ad ogni costo, l'anima si stancava della serenità, il corpo moriva dalla voglia di qualsiasi tipo di cambiamento, fosse anche lo sterminio, fosse anche la morte”(p. 57).

Un cambiamento, ma anche un riconoscimento: si riconosce qualcuno, o qualcosa, e lo si ama. Non è detto che l'oggetto d'amore debba essere lo stesso per tutti: per alcuni uomini l'amore deve essere necessariamente rivolto alle donne, per altri no. Ciò non vuol dire che l'amore omosessuale sia meno valido, o autentico; anzi, in certi casi è l'unico modo per essere veramente se stessi..

Questo sembra essere il significato delle pagine che spezzano a metà la storia della famiglia di Philip e spiegano il misterioso titolo del romanzo. L'autore ricorda un caso clinico: la storia del bambino che, abbandonato da una madre inadeguata, viene elaborando un suo linguaggio personale grazie all'imitazione delle uniche cose con cui ha un rapporto di familiarità, cioè le gru di un cantiere che vede dalla finestra. Per quel bambino, le gru costituivano un vero, anche se improbabile, oggetto d'amore: da esse egli imparava, in esse egli si riconosceva; quello che per altri sarebbe stato un oggetto inanimato, per lui era mamma, patria, lingua.

Si direbbe che, in questo modo, Leavitt abbia metaforicamente rappresentato l'attaccamento, l'amore, che non ha le stesse forme per tutti, ma per tutti deve avere la stessa dignità.

“Ciascuno, a modo suo, trova ciò che deve amare, e lo ama; la finestra diventa uno specchio; qualunque sia la cosa che amiamo, è quello che noi siamo”(p. 193).

Matilde Morotti

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