
lunedì 18 aprile 2011
Il salotto del martedì - 12 aprile 2011 - "Giorni d'amore e inganno"

Le impressioni che ci comunichiamo sul romanzo di Alicia Giménez- Bartlett sono, inizialmente, un po' freddine. Dopo aver affrontato Saramago, questa sembra in effetti una lettura in tono minore, qualcosa di simile ad un romanzo rosa o ad una specie di “Grande Fratello” in salsa messicana. Si sente che l'autrice è una giallista: ti vengono in mente quei polizieschi in cui il delitto è avvenuto in una stanza chiusa dall'interno. Questa dialettica dentro-fuori ci colpisce come una particolarità del libro, ambientato in un grazioso villaggio con fiori e villette, attorno al quale si raggruma una sanguigna realtà di miseria, sesso e infine sequestri e morte. È il Messico, come luogo di passioni, baratro a cui ti affacci e devi decidere se buttarti o no. Dentro il grazioso villaggio vivono quattro coppie, ognuna formata da un uomo-lavoratore (un ingegnere impegnato nella costruzione di una diga) e dalla moglie, che ovviamente non ha un'occupazione retribuita, a parte il compito di aspettare pazientemente per tutta la settimana il ritorno del guerriero. È una situazione artificiale, del tutto diversa dalla realtà in cui le coppie precedentemente vivevano. All'inizio tutto fila normalmente, una noia mortale. Ma ecco che, all'improvviso, un uomo e una donna, non sposati tra di loro, escono dal recinto, ed è tutto. Scoppia, del tutto immotivata, una passione travolgente, che porta la rivoluzione non solo nella vita dei due, ma anche in quella degli altri abitanti del villaggio. Niente resiste alla tempesta: la coppia più collaudata sente vacillare i propri decennali convincimenti e la propria rassegnazione all'abitudine, mentre nella coppia più giovane la moglie-bambina trova finalmente la forza di ribellarsi al marito troppo protettivo e, in fondo, svalutante (“Appoggiarsi a qualcuno ti fa sentire incapace”). Non parliamo delle coppie cui appartengono gli adulteri: la moglie di lui, donna strana, divorata da un oscuro senso di fallimento, porta fino in fondo il suo percorso di autodistruzione; invece il marito di lei, uomo solido e in fondo incolpevole, si avvia verso un futuro di solitudine. Insomma, si salvano solo i due innamorati, che, noncuranti delle macerie che si lasciano alle spalle, veleggiano verso il loro sogno di felicità. E lì il Salotto si scatena, perché questo è un tema troppo coinvolgente: queste donne e questi uomini siamo noi. Ma davvero ci si può innamorare di qualcuno dopo un paio di passeggiate? Ma davvero bisogna accontentarsi di un rapporto venuto a noia, solo perché ti hanno sempre insegnato che quello è il tuo dovere? Ma davvero l'unica via d'uscita dalla noia coniugale è trovarsi un altro uomo, cioè poi, in fondo, un altro marito che magari tra qualche anno troverai noiosissimo? E insomma, chi sei tu: Paula, o Victoria, o Susy, o Manuela? Qualcuno difende la scelta coraggiosa di chi si libera da rapporti ormai logori, qualcun altro osserva che il vero coraggio è quello di chi, giorno per giorno, lotta per tener unita una famiglia. Memorabile l'osservazione di Tarcisio: tra tante donne un po' fuori di testa, il più saggio tra i personaggi del romanzo è stato il factotum Dario, che si è liberato della legittima fidanzata ed è andato a vivere in un bordello.
a cura di Matilde Morotti
[nella foto l'autrice]
mercoledì 13 aprile 2011
Leggere con Ugo Cornia - verso "W o Il ricordo dell'infanzia", di Georges Perec

Ugo Cornia
giovedì 7 aprile 2011
Il salotto del martedì - verso "Giorni d'amore e inganno", di Alicia Giménez-Bartlett

Nota in Italia come la “Camilleri spagnola”, Alicia Giménez-Bartlett è autrice di numerosi gialli imperniati sul personaggio dell'ispettrice di polizia Petra Delicado, ma anche di romanzi psicologici che col giallo non hanno molto a che vedere. Tanto per fare un esempio, uno dei suoi libri più apprezzati è un ritratto di Virginia Woolf vista dalla sua cuoca (Una stanza tutta per gli altri). Questo Giorni d'amore e inganno (Sellerio 2008) non è un giallo, ma ricorda un po' quei racconti polizieschi che prendono lo spunto da un delitto compiuto in una stanza chiusa dall'interno. Qui non c'è un delitto, ma un amore irregolare che improvvisamente esplode in un ambiente claustrofobico, dove quattro coppie sono costrette ad una convivenza forzata. Siamo in Messico, nel villaggio in cui vivono, chiuse nel loro dorato isolamento, le mogli degli ingegneri che lavorano ad un grande cantiere. Una di loro, la più banale e insospettabile, ha una relazione col marito di un'altra e... È come se l'autrice buttasse un sasso in una palude e stesse a vedere i cerchi che si allargano sempre di più. Il pretesto della “situazione obbligata” permette di delineare i caratteri e i comportamenti dei personaggi amplificandone difetti e virtù, ma suscita anche in noi lettori dubbi ed interrogativi. Si può rivoluzionare la propria vita in nome di un'improvvisa ed inaspettata passione? Quanto contano l'abitudine e il conformismo nel far durare un matrimonio? E che cos'è l'amore, che cos'è il matrimonio? E quante sono le vie d'uscita dalla noia?
Un romanzo forte, inquietante, volutamente fuori dagli schemi.
a cura di Matilde Morotti
martedì 5 aprile 2011
Leggere con Ugo Cornia- 30 marzo 2011 - Da un castello all'altro

Un primo tema di discussione sono stati la lingua e lo stile di Céline. Come afferma il suo traduttore, Gianni Celati, si tratta di opere scritte in un francese piuttosto inusuale (un misto di parlate parigine dette 'argot') che ha comportato non pochi problemi di traduzione (Celati si era addirittura costruito un proprio 'dizionario' per lavorare sulle queste opere).
Caratteristica, invece, dello stile è l'interruzione delle frasi con i tre puntini di sospensione: una frantumazione del pensiero che ha reso difficoltosa la lettura ad alcuni, ma che, come evidenzia Ugo Cornia, è un efficace espediente per cambiare la prospettiva della narrazione in modo da espandere e mutare continuamente le scene ed i ricordi consegnati al lettore.
Il testo di Céline è un'invettiva contro il potere ed una denuncia delle difficoltà che l'anziano medico è costretto a sopportare quotidianamente, ma è anche una narrazione capace di creare i piccoli ritratti di personaggi e di incorniciare immagini che restano vivide nella mente del lettore. E' il caso degli animali che si dimostrano superiori rispetto all'uomo in numerose circostanze e così mentre nell'uomo "la testa è una specie di officina che funziona mica così bene come uno vuole" (p.143) i gatti dimostrano un notevole senso di orientamento anche in ambienti molto dispersivi "che Bèbert era a casa sua nel castello immenso da sopra le torrette sino alle cantine...s'incontravano Lili lui da un corridoio all'altro” (p.143). Né si può dimenticare "Bessy, la mia cagna, più tardi, nei boschi, in Danimarca...se la svignava...io la chiamavo...dài!...non sentiva!...era in fuga..." una fuga perenne fino a quando, quasi senza lamentarsi, con il muso rivolto a nord, verso la Danimarca, era morta "e in posizione veramente molto bella, come in pieno slancio, in fuga...ma sul fianco, prostata, sfinita...il naso verso le sue foreste da fuga, lassù da dove veniva, dove aveva sofferto...Dio sa!?" (p.145).
Non potevano mancare momenti di riflessione sulla guerra e sulle sue conseguenze: dall'immagine dell'esercito che dovrebbe rappresentare il potere nella sua massima forma di organizzazione e che invece si rivela nella sua pochezza ed inconsistenza, fino al ricordo che il “Ppf era il partito che reclutava di più, l'effetto delle vetrine e delle panche...se avesse dato da mangiare, in aggiunta, l'infima gavetta, avrebbe reclutato tutto il paese, compresi i crucchi...civili e marmittoni!...a un certo punto delle cose degli avvenimenti resta più che un trucco: sedersi dove si mangia...ah, poi anche i francobolli! Vi scordavo! Cercare dei francobolli, collezionare!...tutti gli uffici postali che ho visto attraverso la Germania, mica soltanto Siegmaringen, le città più grandi, i più piccoli villaggi, erano sempre gremiti di clienti, e agli sportelli delle “collezioni”...delle code e delle code, a collezionare francobolli di Hitler, tutti i prezzi!” (p.300)
La discussione si è da qui spostata su una questione interpretativa e di lettura più generale: in quale considerazione si deve tenere il proprio giudizio morale sull'autore quando si legge un libro?
Nella introduzione Gianni Celati scrive:
“Louis-Ferdinand Céline (1894-1961) è uno dei grandi innovatori letterari del suo secolo […] Più che altro è noto per un'infamante reputazione politica” ed è quindi lecito interpretare i suoi libri partendo dal suo essere stato nazista ed antisemita?
La sua scrittura è forse un modo per riscattare le sue responsabilità umane e politiche di 'convinto nazista' oppure è la semplice riflessione di un medico dal volto umano che è stato una vittima della storia?
Tra i lettori presenti sono emerse entrambe le possibili letture, ma ci ha convinti l'idea di Cornia che il valore di un libro prescinde dal suo autore e che quindi per apprezzare la lettura di un'opera è indispensabile scindere la potenza della scrittura dalle considerazioni etiche sulla vita e sulle scelte politiche dell'autore. Tenendo conto di questa prospettiva Céline è un artista che con il suo sguardo ironico unisce comico e tragico e ci propone una lettura lucida del '900.
martedì 29 marzo 2011
Un libro, un film - 24 marzo 2011 - Le notti bianche

L’abituale routine dei sogni cittadini è interrotta dall’esplosione della primavera, cui il protagonista assiste durante una passeggiata in campagna. Al contrario della città, la campagna esibisce una realtà “naturale”, in cui la fantasia non è più necessaria. La campagna sta alla città come la folla impersonale sta alla giovane Nasten’ka, che non a caso viene incontrata dal protagonista di ritorno dalla sua escursione fuori porta.
Anche Nasten’ka, come il protagonista, è una sognatrice. Tra i due ci sono però alcune essenziali differenze: la realtà da cui Nasten’ka vuole fuggire è molto concreta, e prende le sembianze di un’opprimente nonna che la tiene legata a sé con una spilla. Anche il sogno d’amore della ragazza è concreto, per quanto evanescente. Al contrario, i sogni del protagonista danno sempre forma a storie totalmente fittizie, senza alcun vincolo con la realtà fisica. L’incontro con Nasten’ka provoca un cambiamento in questi sogni. Essi diventano ora realizzabili, quantomeno in linea di principio: ciò che il protagonista desidera è l’amore di una persona in carne ed ossa, con cui può dialogare e fantasticare progetti.
Il sogno del protagonista si sfascia nel momento in cui quello di Nasten’ka si realizza, lasciando dietro di sé un «attimo di vera beatitudine». Non è chiaro se questa felicità momentanea fosse dovuta all’amore verso Nasten’ka o direttamente verso il proprio sogno; quanto è chiaro è che il vuoto lasciato dal fallimento di un sogno non potrà essere colmato da una realtà inospitale, ma soltanto da un nuovo sogno.
Un’intervista “impossibile” di Oreste del Buono a Fëdor Dostoevskij può essere ascoltata ai seguenti link:
http://www.youtube.com/watch?v=rAbhQbfo1ZM
http://www.youtube.com/watch?v=5dRSdCO7Usw
sabato 26 marzo 2011
Leggere con Ugo Cornia - verso "Da un castello all'altro" di Louis-Ferdinand Céline

All’inizio mentre leggevo questo Da un castello all’altro, che non avevo mai letto prima, mentre avevo letto tante altre cose di Celine che avevo sempre trovato grandiose, memorabili e al tempo stesso impossibili da ricordare, per cui se hai la fortuna di esserti segnato le pagine ritorni sempre a rileggerle, dieci volte, venti volte, e così via, leggendo mi dicevo: mah, sto libro, è sempre Celine con la sua scrittura, però mi sembrava un po’ un casino in cui facevo fatica ad orientarmi, e un po’ una lunga lamentazione e recriminazione. Allora aspettavo che succedesse qualcosa, e poi invece, per esempio quando lui va a curare la vecchia signora Nicois e inizia quella storia dell’acqua e dei barconi, e troviamo uno che si definisce così “oltre che guardone sono fanatico dei movimenti di porti, di tutti i traffici dell’acqua… di tutto ciò che viene voga accosta… ero ai moli con mio padre… otto giorni di vacanze al Treport… cos’è che si è potuto vedere… entrate uscite dei piccoli pescatori…”, e già qui inizia ad aprirsi un mondo, quando il mondo naturale e normale diventa una specie di grande cinema, e tu sei inchiodato alla tua seggiola a contemplare la bellezza delle cose. Poi poco più in là arriverà Caronte e la sua nave di trapassati, e così via. Ma quando arrivano subito dopo i corridoi Hohenzollern, maniaci di corridoi sottopassaggi gallerie, lì mi dicevo: come al solito anche questo libro è un grande capolavoro, Lilì e il gatto Bebert per esempio: “Da una svolta all’altra mi perdevo… ve lo dico, confesso… Lilì o Bebert mi ritrovavano… le donne hanno l’istinto dei dedali, torti e traversi ci si ritrovano… il senso animale… è l’ordine che le sconcerta… l’assurdo gli va… il bislacco è loro normale… la Moda… per i gatti: solai, mesci-mesci, vecchi granai… le dimore da Racconti fantastici, li attirano irresistibili”... “la perversità degli atomi… le bestie uguale… prendete Bebert… mi faceva cucù dagli abbaini… brrt, brrt… la baia… lo vedevo più… se ne fotteva di me… i gatti, bambini, signore, sono un mondo a sé Lili andava dove voleva in tutto l’Hohenzollern Castello… da un dedalo di corridoi all’altro”. E anche la cagna Bessy.
Lì ho capito che erano le solite righe scritte con un genio infinito.
Ugo Cornia, conduttore del gruppo di lettura
martedì 22 marzo 2011
Il salotto del martedì - 15 marzo 2011 - "Cecità", di Josè Saramago

Non si diventa ciechi da un momento all’altro e la cecità non è un male contagioso. Ma, nel romanzo di Saramago, accade esattamente il contrario: la cecità colpisce inesorabile nel giro di un attimo, un attimo prima ci vedi, un attimo dopo non ci vedi più. Questa cecità epidemica, da cui prende le mosse il racconto, è già un evento problematico, e perciò racchiuso in una metafora: non si tratta di una normale cecità, ma di occhi perfetti, su cui cala una cortina bianca lattiginosa, “uno splendore luminoso”, “un’illusione di luce”.
A questo proposito l’autore afferma che si tratta di un romanzo realistico, di un realismo un po’ particolare perché ricorre all’allegoria, cioè a un modo di raccontare in cui si fa ricorso a metafore e simbolismi.
Dopo i primi improvvisi casi di cecità, gli eventi precipitano a ritmo incalzante: dapprima l’isolamento in un ex manicomio, un isolamento che si trasforma in breve in una segregazione, cui segue la progressiva degradazione morale, la fame, lo stupro, la morte; una “discesa all’inferno” non voluta, ma neppure contrastata, certamente sofferta.
La vicenda prende le mosse dal “giorno dopo”, quando l’imprevisto si è già verificato, è accaduto qualcosa che paralizza la scienza, il senso comune, e i provvedimenti, nonché aggravare la situazione, si rivelano vani.
“Tutta la sporcizia di cui trabocca l’inferno di Cecità non si trova solo lì, c’è anche intorno a noi, basterebbe vederla”; nella discussione queste parole ci avvicinano un po’ alla meta: se la cecità “buia” è propria di chi anche volendo non può vedere, quella “bianca” corrisponde simmetricamente alla cecità di chi non vede pur potendo.
Il manicomio separato dal resto del mondo da mura di protezione fa venire in mente per spontanea associazione i campi di concentramento nazisti, e altre esperienze equivalenti che nel mondo non mancano. Ma il richiamo risulta per molti aspetti poco convincente: i nostri personaggi non si trovano lì per motivi politici o per razzismo, come accadde ad Auschwitz; essi non si sentono colpiti da folle ingiustizia, condividono, anzi, i motivi cautelari di salute pubblica che hanno imposto la loro quarantena. Ignorano semmai che tale provvedimento ha motivi poco nobili, è stato preso in tutta fretta per il timore di incorrere in penalizzazioni elettorali. Comunque sia, è interessante osservare che nel passaggio dallo spazio della medicina a quello del potere politico quello che è solo un dubbio scientifico (il contagio), un sospetto, e come tale suggerirebbe un atteggiamento cauto, prende la forma di una rapida risoluzione amministrativa: che poi, anziché contagio, sia solo casuale simultaneità, nel qual caso non c’è quarantena che valga, poco importa. Il medico intravede il rischio, il ministero si aggrappa al principio dell’interesse pubblico, una cosa sola è certa: la quarantena potrebbe durare “quarant’anni”, una condanna a morte.
Però il morbo non si arresta, “quanti ciechi occorrono per fare una cecità”? La questione non è ovviamente statistica, non basta che il numero dei ciechi diventi superiore a quello dei vedenti; ma non basta forse nemmeno che qualche vedente continui a vederci. Nel romanzo di vedenti ce n'è uno solo, la moglie del medico, e dunque il mondo sfugge al controllo con un’accelerazione impressionante e la possibilità di sopravvivenza si fa sempre più esile. Incombe l’ombra terrorizzante di una “cecità” finale, apocalittica.
Forse anche per questo Saramago ha scelto di non dare un nome ai suoi personaggi, sono semplicemente un medico, la moglie del medico, la ragazza con gli occhiali… persone comuni, a cui non serve un nome per attraversare eventi catastrofici. Non sono semplici vittime, però, perché si dice, nel corso del processo di agnizione di un personaggio, che ciechi lo erano anche prima di diventarlo.
Tante cecità, dunque, ciascuna nutrita di indifferenza, sospettosa, sorda ai bisogni degli altri e del mondo, concentrata su qualche tornaconto personale. In questo senso l’esperienza della segregazione potrebbe essere letta come una serie di prove, attraverso le quali diventa possibile recuperare la vista, un senso di umanità perduta.
Date le condizioni disumane del manicomio, la sopravvivenza impone alla piccola comunità di organizzarsi. In questo modo, almeno fino a quando il numero dei ciechi si contiene entro limiti sostenibili, resistere è possibile.
C’è anche la netta impressione, a onor del vero, che le figure femminili mostrino e conservino una cecità meno devastante, sia prima che l’arrivo dei “ciechi malvagi” (accaparratori, stupratori, delinquenti) faccia precipitare gli eventi a livelli di depravazione inaudita, sia perché sono loro, le donne, a mostrarsi capaci, sia pure in extremis, di quello scatto di dignità che, solo, può porre fine alla segregazione e, con l’aiuto della fortuna, aprire le porte della prigione. Forse per questo sembrano godere di una maggiore benevolenza da parte del narratore; un riconoscimento di “genere”, che dà credito all’ennesima constatazione che le donne sembrano percepire maggiormente l’evenienza del “male” prodotto dall’indifferenza e, forse per questo, dimostrano una più accorta apertura alla speranza.
Ma cos’è questo romanzo? Un racconto fantastico? Una favola allegorica? Un romanzo utopistico? Forse è ozioso perdere tempo per attribuirgli l’etichetta di un genere, perché, si fa notare, a prescindere dall’interpretazione dell’allegoria iniziale, la si accetti o la si ignori, il racconto possiede un taglio realistico e politicamente impegnato. D’accordo, soprattutto in questi giorni. Tuttavia all’orecchio non cessa di ronzare il dubbio che ciò che accade nel mondo abbia a che vedere in qualche modo con quell’allegoria, con quella “cortina fumogena” che non viene dal nulla e che sarebbe sperabile che producesse solo in sede di elaborazione letteraria le estreme conseguenze del suo potenziale distruttivo.
Fuori dal manicomio le cose non vanno meglio, al contrario: se dentro, in qualche modo, una sia pur minima parvenza di organizzazione aveva garantito la sopravvivenza dei ciechi, fuori c’è l’anarchia: la città (il suo fantasma) è percorsa da orde che assaltano botteghe, supermercati, edifici pubblici, chiese, alla ricerca, gli uni contro gli altri, di cibo e riparo (ma allora, osserva qualcuno, aveva ragione quel filosofo dell’homo homini lupus). È un mondo abbandonato dagli uomini e da Dio. Qualcuno, in un ultimo barlume di luce sacrilega, ha bendato gli occhi delle statue e cancellato con un colpo di vernice quelli dei dipinti di una chiesa: “chi non vede non merita di vedere”.
Dov’è la salvezza? A che cosa aggrapparsi?
In questa desolazione, in un momento in cui la disperazione ha raggiunto l’apice, c’è un cane che non aggredisce ma offre la sua amicizia in cambio delle lacrime che la donna gli lascia bere. Si tratta del breve conforto di un attimo, poi? Altri tormenti, altre visioni da incubo, poi una pioggia che giunge a spazzar via un po’ di tanto sporco e sofferenza, infine nello stesso ordine con il quale sono diventati ciechi, tutti riprendono a vedere.
Ma non siamo sicuri che si tratti di un “lieto fine”, rimane quella domanda: si può diventar ciechi se già prima non lo si era? E che cosa questa “discesa all’inferno” ha cambiato nei personaggi? È vero che hanno imparato qualcosa, nel senso che sapere che esiste il mal di testa non è lo stesso che soffrire di emicrania, però non è dato sapere se alla fine ci vedano come prima di diventare ciechi, o in un altro modo, e tanto meno se quest’altro modo sia o no anch’esso una forma di cecità. Forse una risposta è contenuta in Saggio sulla lucidità, che riprende Cecità, titolo originale: Saggio sulla cecità.
A questo punto bisognerebbe rileggere il libro, che in prima lettura è di grande impatto emotivo, ma meno facile di quanto sembri. Meriterebbero un’adeguata osservazione il linguaggio, lo stile e soprattutto gli interventi della voce narrante che sono numerosissimi e posseggono una gamma assai vasta e illuminante di registri linguistici. Ma il tempo è scaduto.
[a cura di Mirna Ferrarini]
A questo proposito l’autore afferma che si tratta di un romanzo realistico, di un realismo un po’ particolare perché ricorre all’allegoria, cioè a un modo di raccontare in cui si fa ricorso a metafore e simbolismi.
Dopo i primi improvvisi casi di cecità, gli eventi precipitano a ritmo incalzante: dapprima l’isolamento in un ex manicomio, un isolamento che si trasforma in breve in una segregazione, cui segue la progressiva degradazione morale, la fame, lo stupro, la morte; una “discesa all’inferno” non voluta, ma neppure contrastata, certamente sofferta.
La vicenda prende le mosse dal “giorno dopo”, quando l’imprevisto si è già verificato, è accaduto qualcosa che paralizza la scienza, il senso comune, e i provvedimenti, nonché aggravare la situazione, si rivelano vani.
“Tutta la sporcizia di cui trabocca l’inferno di Cecità non si trova solo lì, c’è anche intorno a noi, basterebbe vederla”; nella discussione queste parole ci avvicinano un po’ alla meta: se la cecità “buia” è propria di chi anche volendo non può vedere, quella “bianca” corrisponde simmetricamente alla cecità di chi non vede pur potendo.
Il manicomio separato dal resto del mondo da mura di protezione fa venire in mente per spontanea associazione i campi di concentramento nazisti, e altre esperienze equivalenti che nel mondo non mancano. Ma il richiamo risulta per molti aspetti poco convincente: i nostri personaggi non si trovano lì per motivi politici o per razzismo, come accadde ad Auschwitz; essi non si sentono colpiti da folle ingiustizia, condividono, anzi, i motivi cautelari di salute pubblica che hanno imposto la loro quarantena. Ignorano semmai che tale provvedimento ha motivi poco nobili, è stato preso in tutta fretta per il timore di incorrere in penalizzazioni elettorali. Comunque sia, è interessante osservare che nel passaggio dallo spazio della medicina a quello del potere politico quello che è solo un dubbio scientifico (il contagio), un sospetto, e come tale suggerirebbe un atteggiamento cauto, prende la forma di una rapida risoluzione amministrativa: che poi, anziché contagio, sia solo casuale simultaneità, nel qual caso non c’è quarantena che valga, poco importa. Il medico intravede il rischio, il ministero si aggrappa al principio dell’interesse pubblico, una cosa sola è certa: la quarantena potrebbe durare “quarant’anni”, una condanna a morte.
Però il morbo non si arresta, “quanti ciechi occorrono per fare una cecità”? La questione non è ovviamente statistica, non basta che il numero dei ciechi diventi superiore a quello dei vedenti; ma non basta forse nemmeno che qualche vedente continui a vederci. Nel romanzo di vedenti ce n'è uno solo, la moglie del medico, e dunque il mondo sfugge al controllo con un’accelerazione impressionante e la possibilità di sopravvivenza si fa sempre più esile. Incombe l’ombra terrorizzante di una “cecità” finale, apocalittica.
Forse anche per questo Saramago ha scelto di non dare un nome ai suoi personaggi, sono semplicemente un medico, la moglie del medico, la ragazza con gli occhiali… persone comuni, a cui non serve un nome per attraversare eventi catastrofici. Non sono semplici vittime, però, perché si dice, nel corso del processo di agnizione di un personaggio, che ciechi lo erano anche prima di diventarlo.
Tante cecità, dunque, ciascuna nutrita di indifferenza, sospettosa, sorda ai bisogni degli altri e del mondo, concentrata su qualche tornaconto personale. In questo senso l’esperienza della segregazione potrebbe essere letta come una serie di prove, attraverso le quali diventa possibile recuperare la vista, un senso di umanità perduta.
Date le condizioni disumane del manicomio, la sopravvivenza impone alla piccola comunità di organizzarsi. In questo modo, almeno fino a quando il numero dei ciechi si contiene entro limiti sostenibili, resistere è possibile.
C’è anche la netta impressione, a onor del vero, che le figure femminili mostrino e conservino una cecità meno devastante, sia prima che l’arrivo dei “ciechi malvagi” (accaparratori, stupratori, delinquenti) faccia precipitare gli eventi a livelli di depravazione inaudita, sia perché sono loro, le donne, a mostrarsi capaci, sia pure in extremis, di quello scatto di dignità che, solo, può porre fine alla segregazione e, con l’aiuto della fortuna, aprire le porte della prigione. Forse per questo sembrano godere di una maggiore benevolenza da parte del narratore; un riconoscimento di “genere”, che dà credito all’ennesima constatazione che le donne sembrano percepire maggiormente l’evenienza del “male” prodotto dall’indifferenza e, forse per questo, dimostrano una più accorta apertura alla speranza.
Ma cos’è questo romanzo? Un racconto fantastico? Una favola allegorica? Un romanzo utopistico? Forse è ozioso perdere tempo per attribuirgli l’etichetta di un genere, perché, si fa notare, a prescindere dall’interpretazione dell’allegoria iniziale, la si accetti o la si ignori, il racconto possiede un taglio realistico e politicamente impegnato. D’accordo, soprattutto in questi giorni. Tuttavia all’orecchio non cessa di ronzare il dubbio che ciò che accade nel mondo abbia a che vedere in qualche modo con quell’allegoria, con quella “cortina fumogena” che non viene dal nulla e che sarebbe sperabile che producesse solo in sede di elaborazione letteraria le estreme conseguenze del suo potenziale distruttivo.
Fuori dal manicomio le cose non vanno meglio, al contrario: se dentro, in qualche modo, una sia pur minima parvenza di organizzazione aveva garantito la sopravvivenza dei ciechi, fuori c’è l’anarchia: la città (il suo fantasma) è percorsa da orde che assaltano botteghe, supermercati, edifici pubblici, chiese, alla ricerca, gli uni contro gli altri, di cibo e riparo (ma allora, osserva qualcuno, aveva ragione quel filosofo dell’homo homini lupus). È un mondo abbandonato dagli uomini e da Dio. Qualcuno, in un ultimo barlume di luce sacrilega, ha bendato gli occhi delle statue e cancellato con un colpo di vernice quelli dei dipinti di una chiesa: “chi non vede non merita di vedere”.
Dov’è la salvezza? A che cosa aggrapparsi?
In questa desolazione, in un momento in cui la disperazione ha raggiunto l’apice, c’è un cane che non aggredisce ma offre la sua amicizia in cambio delle lacrime che la donna gli lascia bere. Si tratta del breve conforto di un attimo, poi? Altri tormenti, altre visioni da incubo, poi una pioggia che giunge a spazzar via un po’ di tanto sporco e sofferenza, infine nello stesso ordine con il quale sono diventati ciechi, tutti riprendono a vedere.
Ma non siamo sicuri che si tratti di un “lieto fine”, rimane quella domanda: si può diventar ciechi se già prima non lo si era? E che cosa questa “discesa all’inferno” ha cambiato nei personaggi? È vero che hanno imparato qualcosa, nel senso che sapere che esiste il mal di testa non è lo stesso che soffrire di emicrania, però non è dato sapere se alla fine ci vedano come prima di diventare ciechi, o in un altro modo, e tanto meno se quest’altro modo sia o no anch’esso una forma di cecità. Forse una risposta è contenuta in Saggio sulla lucidità, che riprende Cecità, titolo originale: Saggio sulla cecità.
A questo punto bisognerebbe rileggere il libro, che in prima lettura è di grande impatto emotivo, ma meno facile di quanto sembri. Meriterebbero un’adeguata osservazione il linguaggio, lo stile e soprattutto gli interventi della voce narrante che sono numerosissimi e posseggono una gamma assai vasta e illuminante di registri linguistici. Ma il tempo è scaduto.
[a cura di Mirna Ferrarini]
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