lunedì 28 febbraio 2011

Un libro, un film - 24 febbraio 2011 - L'età dell'innocenza

L’età dell’innocenza è il titolo di un quadro di Joshua Reynolds, che ritrae una bambina seduta in un prato mentre guarda lontano.
Ma qual è o cosa rappresenta realmente ‘l’età dell’innocenza’? Senza dubbio non corrisponde ad un concetto generazionale e non si può identificare con una giovinezza anagrafica. Varie sono le ipotesi possibili, allora. Tra queste, l’idea che l’età dell’innocenza potrebbe coincidere con una visione ingenua dell’amore e della vita assume forza solo se intesa in maniera ironica: in realtà sono proprio i cosiddetti innocenti a sapere qualsiasi cosa, di tutto e di tutti, mentre chi è ‘contaminato’, vittima di tentazioni esterne al sistema, ignora tantissime cose. A questo punto, viene da credere che la vera innocenza sia quella rappresentata da Newland Archer, falso rivoluzionario in grado di contraddire le convenzioni a parole - solo a parole -, ma così calato all’interno della struttura sociale da non rendersi conto, come i pesci nell’acqua, di non poter fare a meno delle buone regole della società. Eppure Newland sembra essere più inconsapevole che innocente, più immaturo che candido.

Archer non è scaltro: a differenza di Ellen, crede nell’esistenza di un luogo dove poter conservare la passione, l’illusione. Scopre solo nella maturità come ogni suo pensiero o pulsione non fosse un segreto nemmeno per la moglie. Ma anche Ellen, inizialmente, è un’innocente, completamente all’oscuro del meccanismo critico che la vede protagonista. Addirittura May, per l’intero libro modello di innocenza, rivela nel finale di aver compreso e manipolato più di quanto non fosse lecito pensare. Così, forse, l’innocenza è uno stadio iniziale, comune a tutti i protagonisti.

In genere prevale un’accezione positiva all’innocenza (sono i bambini, per antonomasia, ad essere innocenti). L’innocente è colui che non nuoce e sia Newland Archer che Ellen Olenska rinunciano alla loro scelta d’amore per non creare il caos, per non ledere al buon funzionamento della società, di cui non possono non continuare a far parte. Proprio rinunciando a New York e ritornando in Europa, Ellen può continuare a far parte della famiglia e della buona società newyorkese.

Anche la sessualità repressa può essere considerata una forma di innocenza. Il lusso non è passionale, anzi sembra irrigidire ancora di più ogni forma di contatto umano: le uniche scene connotate dal desiderio e dal trasporto emotivo non avvengono nella sontuosità delle ville, ma nelle dépendance o in giardino o in carrozza.

Innocente è pure il periodo storico in cui è ambientata la storia, plasmato da un sistema sociale come quello americano, convinto di essere sempre nel giusto, privo di qualsiasi dubbio morale, auto-referente quanto auto-celebrativo, eppure talmente immaturo da ignorare – ed esserne compiaciuto – tutto ciò che capita nel resto del mondo. Quello americano è un sistema che ripropone le tradizioni provenienti dall’Europa con un accanimento che non appartiene al modello originario.

Anche per questo il libro è una critica di Edith Wharton ad una supposta ‘età dell’innocenza’. Un titolo ossimoro, quindi, e una parola, ‘innocenza’ appunto, che compare nel testo solo tre volte, tutte in un paragrafo in cui è svilita come colei che «sigilla la mente contro l’immaginazione e il cuore contro l’esperienza». D’altro canto, però, la critica di Wharton non è avulsa dalla convinzione dell’impossibilità di vivere senza regole, nella naturalità o in balia delle passioni: la vera gioia non esiste, in quanto è sempre necessario sacrificare qualcosa ad una causa superiore. È il caso di Ellen e Newland, ma anche, dal punto di vista politico, la scelta della Francia durante la Prima Guerra Mondiale: rinunciare al bene del singolo per il bene generale.

Eppure questa buona società, seppur finta ed ipocrita rivendica valori condivisibili, come l’onore e l’onestà negli affari. Se si rispettano questi principi, però, il rischio è quello di perdere se stessi, idea evocata anche dalle immagini del palcoscenico su cui è rappresentato il Faust.

Il libro, denso di immagini indimenticabili, è in qualche modo un saggio di antropologia il cui oggetto di indagine è la tribù, la famiglia vista all’interno della società, non senza suggestioni da Frazer e il suo Ramo d’oro.

1 commento:

  1. In questo spazio dei commenti volevo aggiungere ancora una possibile angolatura, sempre legata a quello che mi sembra uno dei tratti più dissacranti del romanzo: l’accostare proprio questo modello di’ “mondo aristocratico” al “primitivo, tribale” (nel senso peggiorativo di “culturalmente arretrato”):
    il sofisticato sistema newyorchese a ben guardare si regge, in modo molto simile alle antiche società tribali con i suoi luoghi deputati per i riti di ingresso, passaggio, i suoi codici di comportamento, i suoi totem e i suoi ferrei meccanismi di inclusione/esclusione.
    E uno degli aspetti d’avanguardia (rispetto all’idea della donna angelicata e domestica dominante nell’età vittoriana) è che a rappresentare l’insidia, la forza scardinante in questo romanzo è soprattutto una donna, la contessa Olenska, la cui individualità si distingue, in un contesto poi dove le altre donne (May ne è l’esempio lampante, anche se non è certo così ingenua e vuota come la suppone Newland ) sembrano avvolte da una perenne innocenza, che altro non è che limitatezza di orizzonti.
    Per cui è Ellen Olenska che appare nuova non Newland Archer ; è lei che volendo richiamare l’idea darwiniana di evoluzione rappresenta una forza di progresso (anche suo malgrado, forse, intrinsecamente “outsider”), rispetto a un mondo ripiegato su se stesso a riprodurre ogni anno gli stessi riti, gli stessi cerimoniali, gli stessi individui; è lei che con i scarsi margini di libertà a disposizione (nel suo difficile status di donna sola, separata dal marito tirannico e donnaiolo), potendo scegliere il livello dove collocarsi, si avvicina agli “oscuri meandri”del quartiere bohémien dove si possono trovare (come fa notare Ellen) la VARIETA’ nelle opinioni, nel colore, nei caratteri; è Ellen che a volte non riesce a trattenere la propria insofferenza nei confronti dello stesso Archer comunicandogli che loro parlano due lingue differenti.
    E la sua forza scardinante mi ha dato l’impressione di essere arrivata a ribaltare gli stessi meccanismi di inclusione/esclusione di cui si potrebbe supporla una vittima: May rileva più di una volta la sensazione di una Ellen “sempre annoiata” nel loro ambiente; e che cosa dire della sua dinamica ambigua verso Newland Archer?, e di quella immagine finale sulla panchina sotto una finestra che viene richiusa, che a me personalmente ha suggerito un’impressione di desolante esclusione?
    Newland Archer appartenente a una delle più illustri, esclusive e selezionate famiglie della buona società di New York ha conosciuto la condizione dell’escluso (a causa di un’incoerenza tra immaginazione audace e modi da gentleman , pavido, ossequioso e tradizionalista): ha intravisto solo pochi lampi della vita che risvegliava i suoi sensi, faceva pulsare il sangue nelle vene, accendeva la sua immaginazione, senza mai farne parte realmente “mi hai fatto scorgere per la prima volta cosa sia la vita vera e nello stesso istante mi hai chiesto di viverne una falsa”; fino a che l’ultimo lembo del miraggio si dilegua.

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