mercoledì 15 febbraio 2012

Uomo e donna li creò - 11 febbraio 2012 - Modi bruschi. Antropologia del maschio

Sebbene le identità di genere e le loro relazioni costituiscano un argomento ben noto e ampiamente dibattuto, il versante maschile di questo tema non è mai stato esplorato in modo rigoroso e approfondito. Modi bruschi è scritto da La Cecla proprio con l'intento di colmare questa lacuna e sfatare quegli stereotipi e luoghi comuni che pregiudicano un'adeguata comprensione della condizione maschile.

Questo lavoro antropologico e storico offre un'ampia varietà di spunti: può forse essere stata la rapida estirpazione dalla società moderna di ogni forma esplicita di riti di iniziazione (fino ad allora rigidamente controllati), ad avere privato i maschi di un necessario sostegno e conforto? Oppure, al contrario, è proprio un'eccessiva pressione sociale ad essere responsabile dei "modi bruschi"? In generale, l'analisi svolta da La Cecla ripercorre molte delle questioni che caratterizzano anche il discorso sulla condizione femminile: mancanza di modelli o eccesso di modelli? Responsabilità personale o responsabilità sociale? Scomparsa della comunità o incombenza della comunità?

Proprio la complessità di questi temi richiederebbe un approccio più analitico, che andrebbe ad integrare il lavoro di La Cecla, ricco di spunti acuti e interessanti, ma non tutti approfonditi come ci si aspetterebbe. Solo in questo modo sarebbe possibile comprendere a fondo l'identità maschile, e forse anche riconsiderare in modo critico le stesse categorie di genere.

martedì 7 febbraio 2012

Il salotto del martedì - verso "Accabadora", di Michela Murgia

Abbiamo incontrato Michela Murgia a Modena, quando è venuta in biblioteca a parlarci del suo ultimo libro, Ave Mary.
Personalità sfaccettata, quella della scrittrice sarda: narratrice divertente, capace di far ridere fino alle lacrime con la sua tragicomica rappresentazione del lavoro precario (Il mondo deve sapere); intrisa di cultura cattolica, ma anche aliena da ogni dogmatismo, pronta alla provocazione intellettuale e capace di riflettere nel prisma della scrittura letteraria la complessità di altissimi temi filosofici ed esistenziali.
In questo suo Accabadora (Einaudi, 2009), con cui nel 2010 ha vinto il premio Campiello, la Murgia solo apparentemente ci dà un quadretto regionalistico, ambientato nella Sardegna anni '50 ed imperniato sul tema folklorico dell' “accabadura”, cioè una sorta di eutanasia praticata, in un contesto di fortissimi legami comunitari, sui malati terminali. Altrettanto infondata è l'impressione che l'autrice si serva di questo sfondo storico per prendere posizione su problematiche d'attualità, legate al tema del “fine-vita”. In realtà, senza facili certezze, il libro tocca temi universali: la maternità, le scelte che tutti siamo chiamati a fare, il confine tra il giusto e l'ingiusto, la crescita interiore che è, insieme, nascita e morte.
Protagonista del romanzo è, infatti, Tzia Bonaria, un'anziana donna che, su richiesta dei parenti, aiuta gli agonizzanti a compiere l'ultimo passo, liberandoli da intollerabili sofferenze. Quest'attività di Bonaria è avvolta dal mistero: si svolge di notte, in segreto, ed è accompagnata e ritualizzata da procedure di tipo magico, che trasformano la figura dell' “accabadora”, facendone un'ultima, pietosa “madre”. Una simile rappresentazione avrebbe un carattere puramente storico-etnografico, se non fosse resa drammatica dal fatto che noi vediamo tutto attraverso gli occhi di Maria, una figlia non voluta che Bonaria ha preso con sé come “fili'e anima”. Ciò introduce nel libro il tema della maternità elettiva, del legame che non viene dal sangue, ma dall'amore e dall'accoglienza, e contemporaneamente mette in scena la fortissima divaricazione tra due culture: quella dell'anziana legata a tradizioni ancestrali e quella della giovane donna che ha orrore di ciò che scopre e se ne va, ma solo per tornare e comprendere che non bisogna mai dire: “Di quest'acqua io non ne berrò.”
Le due donne simboleggiano dunque il drammatico conflitto tra il mondo arcaico, in cui una collettività stringe in silenzio una rete di patti condivisi, e la modernità incalzante, che pone nuove difficili domande. A queste domande il romanzo non dà risposte precostituite, limitandosi a portare alla luce le tante facce dell'immenso tema della vita e dei suoi due estremi: la nascita e la morte.

Matilde Morotti

mercoledì 1 febbraio 2012

Uomo e donna li creò - verso "Modi bruschi. Antropologia del maschio" di Franco La Cecla


Simone de Beauvoir era convinta che un uomo non si sarebbe  mai messo a scrivere un libro sulla situazione particolare dell’essere  maschio. Per molto tempo, almeno nella cultura occidentale,  il maschile non è stato tema di studio. Maschi si nasce o si diventa? Il desiderio ha un sesso oppure è solo un diverso travestimento di un desiderio identico? Libido, istinti, pulsioni, possono essere riconducibili ad un’ unica lettura?

Nel frattempo le donne, sulla condizione femminile, hanno spaccato il capello in quattro. Hanno indagato dentro diversi mondi, dal biologico al sociale, dallo storico al politico, lavorando anche per loro. Si sono organizzate per aprire gli occhi ai miopi, per smentire i bugiardi, per decapitare i giganti, per smascherare le  loro stesse complicità, e tentare di riscrivere storia.

Secondo Franco La Cecla, antropologo (Modi bruschi, ed. elèuthera), le donne hanno prodotto anche miseri stereotipi sugli umani di sesso maschile, e provocato reazioni altrettanto stereotipate e misere da parte di molti di loro (un piccato orgoglio maschile, oppure un’autoflagellazione umiliata, più rara).

 “Come se - dice La Cecla - la politicizzazione delle identità sessuali avesse spento la capacità di scavare, di costruire un’ archeologia delle identità sessuali”. Come se la granitica posizione politically correct, che tende a identificare la mascolinità con il dominio, non ci avesse lasciato la libertà di guardare, di osservare meglio, di cercare e anche di trovare. Maschio e femmina non sono due attributi idraulici – dice La Cecla - due diverse maniere di eccitarsi, sono due diverse antropologie. Siamo prudenti dunque a generalizzare, e nell’attribuire i nostri stessi desideri all’altro genere (così come sbaglieremmo se volessimo proiettare il nostro sentire sui nostri antenati o  trasferirlo su altre culture). Relativizziamo!

L'antropologia potrebbe avere un grosso ruolo da giocare nei Gender Studies, perchè fa andare avanti i fenomeni, fa proseguire gli scavi archeologici dell'identità senza farsi imbrigliare da comodi ideologismi.

E’ vero, e fino qui ci siamo. Ma poi?  Dove lo troveremo questo uomo, se lo troveremo.  L’antropologia ci dice che la mascolinità fa parte di una pratica, di un campo d’ azione, di maniere introiettate a un tale livello da sembrare naturali,  e nella durezza (i modi bruschi) della costruzione maschile c'è un’ ambiguità da comprendere: si diventa maschi rinunciando a morbidezze e rotondità, perchè questa è la condizione. L'identità taglia via delle cose, e dunque siamo parziali (uomini e donne). Non sarà  in questa stessa parzialità l'origine del desiderio dell'altro? Non sarà proprio questa incompletezza che ci rende interessanti agli occhi dell'altro? Dunque un incontro è possibile solo in termini di malinteso, c’è una sorta di rimpianto nel guardare il femminile per tutto ciò che maschile non è, e un uguale rimpianto nel tentativo di dare al femminile tutto ciò che il maschile pensa di essere, e non è.

“Le donne in definitiva non sapranno mai cos’è davvero la mascolinità e gli uomini saranno delusi quando crederanno di averla trovata. Le identità sessuali devono sfuggire di mano come anguille. Chi volesse levar loro il liquido vitale del malinteso si troverebbe tra le mani solo organi freddi”.

Un bel libro, politicamente scorretto, da leggere con sospetto e gratitudine.

mercoledì 25 gennaio 2012

Uomo e donna li creò - 14 gennaio 2012 - Una famiglia americana

Oltre cinquecento pagine fortemente volute da Joyce Carol Oates che spesso, nelle interviste, ammette di scrivere lunghe storie per la difficoltà di separarsi dai suoi personaggi. In ogni pagina, ciascuna indispensabile all'evolversi della storia, traspare questa passione della scrittrice che comunica autenticità a tutta la stesura del romanzo.

La storia della famiglia Mulvaney è ripercorsa attraverso i ricordi del figlio minore Judd. Questo stratagemma spiega una prima caratteristica di questo volume della Oates: lo stile narrativo.
I temi lanciati e approfonditi solo a distanza di tempo, il continuo andirivieni cronologico tra presente e passato, tra realtà e ricordi, l'arte di indugiare e disseminare indizi se può risultare artificioso rispetto al naturale susseguirsi degli eventi nella realtà, è però quello che rende accattivante il ritmo narrativo. Basta considerare l'uso del corsivo che diventa il segno, anche grafico, per esprimere il pensiero, il pensiero inconscio, il ricordo tabù che può ferire e che scandisce il ritmo della storia rendendola più intima e reale.

Due le chiavi di lettura a cui la narrazione si è prestata: da un lato la cultura, e nello specifico quella della società americana, e, dall'altra, la natura umana, quella che spiega sentimenti e comportamenti dei personaggi di questa storia.
Simili a 'maschere pirandelliane' questi personaggi si muovono in una comunità dominata da bigottismo ed ipocrisia, obbligati ad aderire al modello di famiglia che l'America impone, costretti a partecipare ai riti sociali che garantiscono riconoscimento ed integrazione nella comunità.

In questo contesto è l'imprevisto, un unico passo falso, quello che può infrangere il sogno americano e che al contempo rivela, però, la vera natura dei personaggi. Diventiamo così partecipi della loro vita di perdenti.
L'evento imprevisto, che annulla ogni precario equilibrio, è la violenza subita dalla giovane Marianne che coglierà impreparata lei, la sua famiglia e tutta la comunità che li circonda.

Marianne subisce uno stupro che vivrà con vergogna e sensi di colpa, ma subirà anche l'allontanamento dalla famiglia che si rivelerà poi la sua occasione di riscatto: lontano dalla famiglia potrà crescere affrancandosi dallo stereotipo di “ragazza pon-pon” vestita 'fragole e panna'.

Suo padre è la causa dell'allontanamento di Marianne, ma forse è anche la vittima sacrificale di questa vicenda: lui che aveva sempre cercato il consenso sociale (riuscendo a farsi ammettere al club cittadino), non riesce a superare il dolore di non aver trovato giustizia per sua figlia e con la sua morte permetterà alla famiglia di ritrovarsi e di guardare al futuro.

Complessa anche la figura della madre che da un lato sembra doversi adeguare al ruolo che le compete all'interno della famiglia e dall'altro è animata da amore sincero nei confronti del marito e dei figli, tutti uniti da un comune 'lessico familiare' che li rende complici nell'affrontare anche le difficoltà. Quando l'imprevisto li travolgerà, sarà suo il compito di 'resistere' e trovare una via di salvezza per la famiglia. Infatti sarà lei a scegliere di allontanare la figlia da casa e con questo sacrificio cercherà di riportare la serenità tra i restanti membri della famiglia.

A questi personaggi, messi in crisi dagli eventi, fa da contraltare una comunità che non perdona e che, fedele ai suoi falsi valori, contribuisce ad innescare una catena di eventi che condurranno alla completa distruzione di questa famiglia.

Solo Patrick, il secondo dei figli, riuscirà a rompere gli schemi stereotipati della loro comunità e, assumendo il ruolo di giustiziere, vendicherà la famiglia. Lui, lo studioso di scienza, impersonerà lo spirito darwiniano e trasformerà il momento della 'frattura' nella condizione necessaria per l'evoluzione del singolo e della società.

lunedì 16 gennaio 2012

Il salotto del martedì - 10 gennaio 2012 - Ternitti



Mario Desiati, Ternitti, Mondadori 2011

Libro interessante questo di Mario Desiati, anche se non del tutto omogeneo nello svolgimento. Ci sono in realtà due libri in uno: la prima parte, storico neorealistica, racconta l'emigrazione dal Salento in Svizzera negli anni Sessanta per lavorare nelle fabbriche di Eternit. La seconda parte segue la storia di Mimì, donna orgogliosa ed energica che, tornata al paese dalla Svizzera, cresce da sola, senza marito, la figlia concepita al tempo dell'emigrazione. Nella seconda parte emerge l’amore dello scrittore per la sua regione, il Salento, di cui ricorda antichi riti, come quello che accompagna la morte e le tante feste di paese, quasi un ricordo antropologico che riporta agli studi di De Martino su questa regione. Alcune frasi e parole in dialetto sottolineano il senso di appartenenza ad una terra, ad una comunità. Il libro si presta all'approfondimento di temi importanti, quali l'emigrazione, la pericolosità dell'amianto, la sfida verso le antiche tradizioni, ma anche la loro ricchezza e l’importanza che rivestono nel creare “memoria”.

Nel confronto sul libro si è notata una predilezione dello scrittore per i personaggi femminili, in cui esprime più energia e forza rispetto ai personaggi maschili, rappresentati soprattutto da Biagio, il fratello della protagonista, e da Ignazio, il ragazzo di Mimì, che vengono travolti da paure e debolezze; l’autore prova un senso di comprensione e affetto per queste persone, ma non ne nasconde i limiti.
Notevole è la capacità dello scrittore di presentare situazioni e momenti della vita quotidiana, come la raccolta delle lenzuola o il rito del caffè, che evocano ricordi di condivisione e complicità. Interessanti anche le riflessioni sulla differenza tra gentilezza e cordialità e sulla bellezza, che si prestano a confronti ed approfondimenti. La scrittura del libro è misurata e scorrevole, non pone problemi di lettura, mentre nella struttura c'è ancora qualche stridore, soprattutto nel finale. Risulta talora eccessivo il numero di storie che l’autore propone e c’è qualche forzatura nel loro svolgimento.
In conclusione il libro si presta all'approfondimento di temi interessanti, suscita domande e riflessioni di grande attualità, invita alla conoscenza di una terra antica e di grande ricchezza, il Salento.


Edda Reggiani

martedì 10 gennaio 2012

Uomo e donna li creò - verso "Una famiglia americana" di Joyce Carol Oates

“Eravamo i Mulvaney, vi ricordate di noi? Forse pensavate che la nostra famiglia fosse più grande. Ho incontrato spesso persone convinte che noi Mulvaney fossimo virtualmente un clan… Per parecchio tempo ci avete invidiato, poi ci avete compianto. Per parecchio tempo ci avete ammirato, poi avete pensato: Bene! E’ quello che si meritano…”

E’ Judd, il figlio minore, il piccolo di casa (Piccolo, Fossette, Belfaccino, Musone, Ranger…) che ci guida nella grandezza e nel declino della famiglia Mulvaney, a fare la conoscenza con ognuno di loro. Il padre, apprezzato artigiano, a capo dell’impresa Mulvaney tetti e coperture, uomo solido dai modi cordiali, sicuro che onestà e lavoro ben fatto gli meriteranno una indiscussa reputazione di artigiano serio e di buon padre di famiglia (tipo simpatico, forte e tollerante, innamorato della moglie). Corinne, la madre, dedita alla cura della casa e dei fornelli (dell’orto, del giardino, del magazzino di modesto antiquariato, della stalla) che veglia sul benessere dei figli e del marito (dei cani cavalli gatti pappagalli conigli), donna pia, ma non bigotta, fa della casa un posto incantevole, un luogo di gioia, di vivere e di tolleranza.

Mike Jr., il fratello grande, quasi adulto al momento della storia, sportivo, festaiolo, che lavora nell’impresa del padre. Patrick taciturno, intellettuale, appassionato di letteratura, di scienze e di matematica che, per un colpo di zoccolo di cavallo, ha perso un occhio. Poi c’è Marianne (per la madre Germoglio), unica figlia, gloria del padre. Bella e gentile, fonte di ammirazione e invidia (anche di gelosia e sarcasmo da parte degli amici della scuola). Troppo bella? Troppo buona? Forse troppo perfetta. Marinane suscita l’amore dei ragazzi piu timidi. Infine Judson Andrew, più familiarmente Judd.

Nulla sembra temere questa famiglia, unita da una solidarietà incrollabile perché, come dice il capo famiglia “Noi Mulvaney siamo legati dal cuore”. Fino a che questa bella armonia crepa e cade a pezzi nel giorno di San Valentino, nel febbraio del 76, l’indomani di una festa da ballo organizzata dal liceo
  Mont-Ephraim. Un avvenimento doloroso, e tutto quello che ne seguirà, che manda in briciole l’equilibrio di una famiglia esemplare.

Nessuno ne uscirà indenne. I Mulvaney, mortificati e feriti di fronte a un colpo della sorte tenteranno, indifesi, ognuno con i propri mezzi, di superare la prova e di fare rinascere l’armonia dei giorni felici. E ognuno di loro dovrà far fronte all’ottusità e al disprezzo della comunità per tentare di mettere in salvo, se non il mito e la realtà dell’unione, almeno se stessi. Joice Carol Oates penetra l’intimità di una famiglia della middle class americana di fronte all’ipocrisia e l’intolleranza di una società di “ben pensanti”, dove la tolleranza non si applica che in stretti e ipocriti limiti che non è opportuno oltrepassare.

Ricco di buone intenzioni e di precetti umanitari, innaffiati alla sorgente protestante, questa società americana nasconde sotto i tappeti e i sorrisi di circostanza i germi del tradimento diffamante nei confronti di chi ha “peccato”. Più facile rimuovere coloro che con le loro azioni gettano un ombra sulla “reputazione” della comunità.

E’ una critica amara e feroce quella di Joice Carol Oates, che prende di mira gli aspetti malfamati e malfamanti della classe media americana, abitata da personaggi irresistibili agli occhi del lettore che, preda della crudeltà della comunità, si tuffano come in fuga dentro loro stessi alla ricerca di una forza che possa metterli in salvo. E che possa in definitiva impedire di diventare a loro volta portatori di odio, stupidità e intolleranza.

Elena Bellei

lunedì 2 gennaio 2012

Il salotto del martedì - verso "Ternitti", di Mario Desiati

Mario Desiati, Ternitti, Mondadori 2011

17 dicembre 2011: il sindaco di Casale Monferrato accetta 18 milioni come risarcimento per le 1800 morti legate all'attività della “fabbrica del cancro”, l' “Eternit”. Il maxi-processo di Torino si avvia così, tra le polemiche, verso la conclusione, ma la tragedia dell'amianto continua, perché il mesotelioma pleurico (la malattia riconducibile alle terribili fibre) ha un lunghissimo periodo di latenza ed è impossibile calcolare quante persone siano state esposte, negli anni, alle esalazioni mortali.
È dentro questo argomento di scottante attualità che scava il libro del giovane autore pugliese Mario Desiati. Protagonisti del romanzo sono infatti gli abitanti del Salento, emigrati in Svizzera per lavorare nella fabbrica del cemento-amianto e via via tornati, uno dietro l'altro, vittime del nemico invisibile, non meno che della criminale leggerezza di chi ne ha sfruttato il lavoro senza curarsi di proteggere la loro salute (già dagli anni '60 si sapeva in tutto il mondo che l'amianto era cancerogeno).
“Ternitti” è la storpiatura dialettale del nome Eternit, ma è anche il termine salentino per indicare il tetto, cioè, simbolicamente, quella sicurezza che gli emigranti hanno perseguito a prezzo della vita.
Quindi un romanzo di denuncia, legato ai temi del lavoro; ma anche una storia d'amore e di coraggio, incentrata sul personaggio di Mimì, che vediamo partire ragazzina per la Svizzera e seguiamo per tutta la sua vita di donna libera, forte ed anticonformista. Mimì, che ha accettato una maternità difficile ed ha con gli uomini un rapporto privo di sottomissione , che è per le compagne di lavoro un simbolo di lotta , è anche una donna “antica”, che sa ascoltare la voce degli antenati. Un personaggio complesso, quindi, legato da una parte alla modernità, dall'altra ai temi ancestrali della tradizione meridionale: “È nell'infanzia che si maturano certi poteri, quando si cresce solitari. Mimì i suoi poteri li aveva sviluppati da bambina, quando per interi pomeriggi si esercitava a parlare con la natura e immaginava un mondo sconfinato e benigno di cui lei era parte”.

Matilde Morotti