lunedì 16 maggio 2011
Il salotto del martedì - 10 maggio 2011 - La tigre bianca
È possibile essere dalla parte di un assassino?
Il dibattito sul libro di Aravind Adiga inizia da questo interrogativo.
Pare proprio che sia possibile! L’autore crea le premesse per considerare Balram, protagonista, nonché assassino, un personaggio positivo.
Dopo aver sopportato miseria, fatica e soprusi, si ribella alla sua condizione di servo-schiavo, su cui tentano di fare ricadere un crimine che non ha commesso, capro espiatorio della “casta” a lui superiore; l’unico modo che trova per uscirne è la rapina e l’omicidio del padrone.
È un libro di formazione, in cui il protagonista racconta la sua storia a ritroso, dalle ambizioni di ragazzo che non vuole essere bloccato dalla paura come i compagni e - unico - sale a “vedere il forte”, al privilegio di frequentare la scuola, grazie a suo padre, che considera lo studio l’unico modo “per essere uomo”. Diventerà autista della famiglia più in vista del villaggio e si trasferirà a Delhi, la sua scuola allargata. Qui osserva, impara, valuta fino a diventare assassino per difendere la propria libertà.
Approderà, fuggendo, a Bangalore, la città simbolo di uno sviluppo diverso, che permette movimento e libertà. Il finale del libro sembrerebbe pessimista, in quanto pare che omicidio e rapina siano l’unica forma di riscatto e successo, frutto della legge che ormai prevale secondo il protagonista: la legge della giungla.
In realtà è presente anche il desiderio di riscatto, attraverso l’istruzione e la bellezza, tanto che Balram coltiva il sogno di fondare una scuola che privilegi la poesia, ma sia anche realista: “una scuola senza Buddha e senza Gandhi”, che renda i ragazzi come suo nipote consapevoli delle loro capacità.
Il libro ci presenta un’India diversa dagli stereotipi classici, una società ancora chiusa nelle caste, falsamente democratica, preda di corruzione e violenza. Scritto in forma epistolare (il protagonista immagina di inviare le sue lettere al ministro cinese che verrà in visita a Bangalore) il testo ha un taglio quasi giornalistico e crea attesa attorno all'avvenimento che “cambierà la storia”.
Vi è un occhio attento, estremamente realistico sulla “nuova India”, che ci ha indotto, nel gruppo, a ragionare sulle scelte di sviluppo che stanno facendo India e Cina, sulle analogie, sulle differenze, sui “modelli” a cui si riferiscono.
Interessante la considerazione del protagonista, che si chiede ad un certo punto: “I poveri sognano di diventare ricchi e i ricchi che cosa sognano?”.
(Resoconto a cura di Edda Reggiani)
Il dibattito sul libro di Aravind Adiga inizia da questo interrogativo.
Pare proprio che sia possibile! L’autore crea le premesse per considerare Balram, protagonista, nonché assassino, un personaggio positivo.
Dopo aver sopportato miseria, fatica e soprusi, si ribella alla sua condizione di servo-schiavo, su cui tentano di fare ricadere un crimine che non ha commesso, capro espiatorio della “casta” a lui superiore; l’unico modo che trova per uscirne è la rapina e l’omicidio del padrone.
È un libro di formazione, in cui il protagonista racconta la sua storia a ritroso, dalle ambizioni di ragazzo che non vuole essere bloccato dalla paura come i compagni e - unico - sale a “vedere il forte”, al privilegio di frequentare la scuola, grazie a suo padre, che considera lo studio l’unico modo “per essere uomo”. Diventerà autista della famiglia più in vista del villaggio e si trasferirà a Delhi, la sua scuola allargata. Qui osserva, impara, valuta fino a diventare assassino per difendere la propria libertà.
Approderà, fuggendo, a Bangalore, la città simbolo di uno sviluppo diverso, che permette movimento e libertà. Il finale del libro sembrerebbe pessimista, in quanto pare che omicidio e rapina siano l’unica forma di riscatto e successo, frutto della legge che ormai prevale secondo il protagonista: la legge della giungla.
In realtà è presente anche il desiderio di riscatto, attraverso l’istruzione e la bellezza, tanto che Balram coltiva il sogno di fondare una scuola che privilegi la poesia, ma sia anche realista: “una scuola senza Buddha e senza Gandhi”, che renda i ragazzi come suo nipote consapevoli delle loro capacità.
Il libro ci presenta un’India diversa dagli stereotipi classici, una società ancora chiusa nelle caste, falsamente democratica, preda di corruzione e violenza. Scritto in forma epistolare (il protagonista immagina di inviare le sue lettere al ministro cinese che verrà in visita a Bangalore) il testo ha un taglio quasi giornalistico e crea attesa attorno all'avvenimento che “cambierà la storia”.
Vi è un occhio attento, estremamente realistico sulla “nuova India”, che ci ha indotto, nel gruppo, a ragionare sulle scelte di sviluppo che stanno facendo India e Cina, sulle analogie, sulle differenze, sui “modelli” a cui si riferiscono.
Interessante la considerazione del protagonista, che si chiede ad un certo punto: “I poveri sognano di diventare ricchi e i ricchi che cosa sognano?”.
(Resoconto a cura di Edda Reggiani)
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“Il prezzo del cibo non è più alla portata dei poveri. Le proteste contro la corruzione paralizzano da settimane il parlamento. Nel frattempo una serie di dispacci diplomatici statunitensi pubblicati da Wikileaks scredita una classe dirigente sfacciatamente falsa e venale. Il capo del governo, adorato da uomini d'affari e giornalisti stranieri, perde ogni autorità morale e diventa un’anatra zoppa.” Queste sono le considerazioni di Pankaj Mishra, sul suo paese, l’India, da poco apparse su “The Guardian”. E ancora “I dettagli rivelati da Wikileaks lasciano senza fiato…i dispacci rivelano l’infiltrazione di uomini d’affari e funzionari statunitensi nella politica indiana… nel 2008 un uomo vicino alla famiglia Nehru-Gandhi ha mostrato a un diplomatico statunitense due casse con 25 milioni di dollari in contanti: il denaro per convincere i parlamentari a votare a favore di un accordo nucleare tra India e Stati Uniti…”.
RispondiEliminaGli appassionati lettori dei romanzi di Suketu Mehta o di Aravind Adiga avevano già scandagliato quest’India nuova così vitale, energetica, ma anche intrisa di corruzione e di violenza a tutti i livelli. La più grande (in senso numerico) democrazia del pianeta è forse anche la più corrotta e comunque fa avanzare numerosi dubbi sulla sua autenticità. Ci può essere democrazia senza libertà, ma soprattutto senza quella libertà interiorizzata dal popolo e da individui senza paura?
Adiga riconosce che “l’affidabilità dei servi è la base dell’intera economia indiana, uno stato servile talmente radicato che se dai a un uomo la chiave della sua emancipazione te la scaglia addosso con un insulto”. Si tratta di una società ancora fortemente caratterizzata dalla schiavitù dei pregiudizi di casta incarnati nel costume, e da legami familiari stringenti; se questi sono i presupposti dell’inferno, per ogni individuo che aspira a proiettarsi in un futuro e in una speranza di cambiamento, avendo un progetto, non resta che liberarsi dalla paura e farsi soggetto di brutalità, proprio come fa Balram, il protagonista del romanzo.
Balram è uno che impara guardando, assimilando, imitando; con questo apre delle crepe nella società in cui vive. Non è certo la rivoluzione: tuttavia egli si trasforma, diventando più consapevole, padrone di uno sguardo capace di vedere la bellezza come forza rivoluzionaria e liberatrice: “Quando ci si accorge di cosa c’è di bello in questo mondo, smetti di essere schiavo” . Coltivare la bellezza, le emozioni, l’empatia, la cura nella sventura: qualcosa del genere diceva anche Simon Weil, reduce dall’esperienza insalvabile in luoghi di lavoro operaio dove si imprime per sempre il marchio della schiavitù.
Luisa Magnani