La vita non può dirsi autentica per il solo fatto di esserci, e parlando di uomini non si può fare di tutte le erbe un fascio: deve pur esserci una differenza tra un uomo e un “quaquaraqua”. Chiunque, osserva Mancuso, deve essersi posto almeno qualche volta questa domanda, perché a nessuno è ignoto l’inganno, o il tradimento, o l’abbandono per averlo subito o per esserne stato complice o autore.
Il saggio si snoda per tre capitoli: “La vita come libertà”; “L’autenticità”; “Perché la vita autentica”, e cerca di mettere a fuoco i motivi esterni (condizionamenti socio-culturali) e interni del disagio che ci costringe all'inauteticità, per trovare una via d’uscita nella assunzione di una propensione etico-riflessiva.
La domanda d’apertura è vasta come il mare: che cos’è la vita? La risposta è quanto mai problematica. Religione (Bibbia), filosofia, scienza giungono ciascuna per le vie che sono loro proprie a posizioni antitetiche. Nella Bibbia si scopre che la vita appare di volta in volta come “fenomeno armonico e ben governato”, ma anche come “non giusta, non razionale, non ben governata, e non contiene nessuna logica che ne rispecchi l’autore.” Se rivolgiamo la domanda alla filosofia le cose non vanno meglio: per alcuni è una cosa desiderabile, confortata da un senso provvidenziale e razionale, per altri un fenomeno imprevedibile dominato dal caso; oggi come nell’antichità si levano voci disperate per dire che “meglio sarebbe per l’uomo non esser nato”. Se interroghiamo la scienza le cose non cambiano; si parla dell’universo come di uno spazio inospitale e indifferente o, al contrario, connaturato, favorevole all’uomo e al suo sviluppo. Voci analoghe arrivano dall’astrofisica e dalla biologia. In conclusione, se “medesimi dati oggettivi” si dispongono a così “diverse interpretazioni” perché diverse sono le “rispettive visioni del mondo”, come orientarsi? Riemergono le antinomie della kantiana ragion pura, che nulla può sul mistero dell’universo, non sapendo se sia finito o infinito, continuo o discontinuo, determinato o indeterminato…
Non sappiamo se la mancanza di un universo trasparente alla ragione precluda un approccio fiducioso con l’universo, anche se manca la certezza, la “pietra” di cui Mancuso parla a proposito di una costruzione che poggi su basi stabili; non sappiamo nemmeno se tale base stabile presupponga il superamento delle antinomie e abbia bisogno almeno di “quella causa prima, comunemente chiamata Dio” di cui si parla da Aristotele in poi. Sembra che Mancuso si richiami piuttosto al bisogno di un dio (con la minuscola), forse meno assente del Dio aristotelico, dalla presenza discreta, che per esserci non ha bisogno di essere inconfutabile.
Determinismo e caso segnano strade entrambe fallaci, per lo meno nel senso che la prima paga il suo meccanicismo rassicurante con una rinuncia di senso che prima o poi interviene a rivendicare i suoi diritti; la seconda, all’opposto, per quanto si apra a tutte le possibilità, prima o poi deve fare i conti con la necessità di escluderne alcune, molte, la maggior parte; il caso legittima tutto e niente; il determinismo, oltre ad essere repulsivo, è incapace di disegnare una prospettiva che non sia in sostanza la ripetizione del già noto. Mancuso non intende sfuggire a questo dilemma: “Se la vita si presenta come contraddizione, rispettare la contraddizione consentendo a ciascuno l’esercizio della libertà è il modo migliore di rispettare la vita”. Perché “nel bene e nel male, la questione della libertà concerne il nucleo più intimo dell’antropologia […] la domanda che per Kant riassume tutto il senso del pensiero: Che cos’è l’uomo?”.
Alle scienze dello spirito, che Dilthey separa nettamente dalle scienze naturali, Mancuso assegna il compito di “delineare i criteri di autenticità della vita umana”. Dopo Kant sono accadute tali cose che non è pensabile lasciare alla scienza il compito che, a ben vedere, essa neppure pretende, cioè di decidere il nostro destino, tanto più ora che la stessa scienza è discorde e incapace di trovare una soluzione ai suoi problemi. E crediamo che anche questo voglia dire Mancuso quando afferma che “la vita è tanto più umana quanto più è libera [...]; riflettere sull’autenticità significa mettere a tema il buon uso della libertà per far sì che risulti buona e non cattiva, giusta e non ingiusta, vera e non falsa, bella e non brutta…”. Una relazione, quella tra il sapere scientifico e quello umanistico, in cui ognuno è coinvolto. Come accade, per esempio, nelle pagine che partendo da Cartesio giungono alle neuroscienze. “Cartesio […] alla ricerca di un fondamento del tutto certo […] invece di affidarsi alla sicurezza del sapere consolidato e della fede (era credente) si buttò nelle braccia del dubbio (costruttivo): chi cerca la verità deve una volta nella vita dubitare di tutto”. Un metodo, dunque, che passa attraverso il dubbio e l’errore: dubito, fallor, ma sempre cogito, ergo sum: se “io penso”, prima dovrò ben esistere come cosa pensante! A coloro che contro-argomentano avvalendosi, sia pure impropriamente di alcuni risultati delle neuroscienze, Mancuso risponde che il mondo della coscienza, della libertà “non è indagabile con nessuna delle tecniche di neuroimaging”. Una risposta che vuole soprattutto allertarci sui pericoli di un facile scientismo, contro il quale invita a praticare il dubbio metodico costruttivo di Cartesio. Così a proposito di Heidegger, se per “vivere per la morte” si deve intendere il lascito che ognuno vuol lasciare di sé come un impegno che egli si assume durante la vita (ma è questo il senso di Heidegger?) crediamo che sia ampiamente da condividere. M al vivere per la morte non si può non contrapporre il “vivere per la vita”, che non significa abbandonarsi alle pulsioni più spontanee, ma cercare quel proprio, eigen (Eigentlichkeit= autenticità) che in mezzo al grande magma della nostra interiorità ci contraddistingue, e perseguirlo.
Un passaggio particolarmente importante è quello in cui di descrive la morale di un Callicle, il personaggio platonico del Gorgia, il quale sostiene che vi è una legge naturale, la legge del più forte, al quale è legittimo soddisfare le proprie pulsioni a danno degli altri; per Callicle le leggi imposte dalla società, non sono altro che il modo con cui i deboli distorcono la natura cercando di impedire ai forti di realizzare se stessi, ossia di vivere autenticamente. Alle tesi di Callicle, Socrate contrappone un altro ideale di vita autentica, quella ispirata all’idea del bene nel consorzio armonico con gli altri cittadini della polis. A questo punto l’autore ci propone una breve rassegna dei Callicle della storia, tra i quali rifulge ovviamente Hitler. Ma gli argomenti che egli porta a sostegno della tesi socratico-platonica sono fondati su una non dimostrata e non dimostrabile tendenza insita nell’uomo a convergere, per sua stessa natura, verso l’allargamento armonico della vita e non verso la sopraffazione e la conseguente disgregazione. La tesi di Callicle, a parte il fatto che si contraddice da sé quando afferma che la sopraffazione dei forti porta come conseguenza l’unione dei deboli e l’istituzione della legge, può essere neutralizzata assai meglio senza far riferimento a valori assoluti, ma sulla base di un’etica utilitaristica alla Stuart Mill, per esempio. A tale proposito vorremmo citare un esempio sovrano: quando ormai Hitler era sul punto di scatenare la guerra che, oltre a infliggere ai popoli inenarrabili sofferenze si concluse con la sconfitta della “razza superiore” e la distruzione della Germania, un'anziana signora ebbe il coraggio di scrivergli esortandolo a non metter in pratica il suo proposito, perché, siccome egli voleva conquistare il mondo, tutto il mondo gli si sarebbe rivoltato contro e la guerra l’avrebbe persa. Perché l’episodio è assolutamente istruttivo e perspicuo? Perché quella donna non fece appello a qualità morali che sapeva non avrebbero in alcun modo influito su Hitler; fece appello al solo argomento che egli, nel suo delirio di onnipotenza, poteva recepire: “perderai la guerra”. In sostanza, e generalizzando: stiano attenti i “forti” a non suscitare la collera dei “deboli”. Ma non possiamo fermarci a sottolineare le ragioni dell’utilitarismo che non necessariamente divergono da quelle dell’idealismo. Se accettiamo la relazione come fondamento della realtà, conseguentemente è dalla stessa relazione che deve scaturire il principio di una vita autentica; e tale principio non può allora non assumere le sembianze di un’etica della comunicazione (Apel, Habermas), laddove il principio cui ispirare il proprio comportamento assume la forma, in nessun modo pregiudicata, della discussione libera da dominio, il cui principio trascendentale sia “vinca l’argomento migliore”.
In realtà, la relazione di cui parla Mancuso sembra declinare insensibilmente in una sorta di naturalismo fondato sulla struttura dell’io, dell’essere, del mondo. Se uno si chiede cosa ci sta sotto questo naturalismo (naturalismo significa darsi la rassicurazione che nonostante i su e giù della storia ciò che è “naturale”, essendo autentico, troverà uno sbocco positivo) la risposta sembra scontata: il dio della teologia. A noi sembra che questa conclusione non possa essere suffragata: è proprio dell’uomo (della cultura) di assumersi una responsabilità che non prevede alcuna rete di protezione. Con ciò intendiamo sostenere, contro il sottostante platonismo che sembra caratterizzare l’opera di Mancuso, che la bellezza, la bontà e la giustizia, secondo noi sono frutto unicamente di relazione.
Sia detto infine, ma queste sono sottigliezze, che anche il termine “autentico” risulta un po’ fastidioso, nel senso che inevitabilmente rimanda a qualcosa di essenziale che costituirebbe la natura umana e al quale in qualche modo alla fin fine non resta che richiamarci. Perché non usare al suo posto il termine aristotelico di “vita buona”? Anche l’altro ingrediente indispensabile alla vita autentica ci pare sospetto: ci riferiamo alla “speranza”. La speranza fa parte delle virtù teologali e se Mancuso la include necessariamente nella prospettiva di una vita autentica, finisce con ciò col delimitare a credenti nella vita eterna la possibilità di tale vita, contro l’assunto iniziale. Anche qui il lettore laico preferirebbe il termine “progetto”. Io posso avere un progetto di vita: in tal caso, anche se so di morire, posso sentirmi realizzato avendo perseguito coerentemente tale progetto. Ovviamente non ogni progetto è degno di essere perseguito, ma questo vale anche per la speranza.
C’è un altro punto che suscita perplessità. Dopo aver elencato tutte le innumerevoli storture, fonti di dolore che caratterizzano questo nostro mondo, l’autore conclude, alla maniera di Leibniz, che comunque il mondo è nel suo insieme buono e che la vita vale la pena di essere vissuta. La discussione in merito non ha alcun senso se non nell’ambito di una teodicea (benché imperfetto questo è il migliore dei mondi possibili o giù di lì): il mondo c’è, la vita c’è, quale che sia dobbiamo cavarcela. Bisogna riconoscere tuttavia che essendo l’uomo un ente naturale, prodotto di una lunga evoluzione, un certo grado di armonia col mondo naturale non può non esserci. Ma a questa idea, affinché non risulti pigramente consolatoria, vale la pena di contrapporre la denuncia di Leopardi: la natura è del tutto indifferente ai bisogni dell’uomo. All’uomo spetta di sfruttarne ragionevolmente le possibilità e di fronteggiarne solidarmente i disastri a ciò essendo stata “ordinata in pria l’umana compagnia”. E su un tale progetto, senza dubbio alcuno, troveremo fianco a fianco Vito Mancuso assieme a tutti gli uomini di buona volontà.
A cura di Mirna Ferrarini
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