lunedì 14 novembre 2011

Il salotto del martedì - 8 novembre 2011 - La vita autentica



Vito Mancuso, La vita autentica, Cortina 2009



Il saggio affronta un tema di grande momento, dato l’odierno disorientamento generale, in cui, per usare una frase ad effetto, l’ “avere” e l’ “apparire” prendono il sopravvento sull’ “essere”. Questa contrapposizione tra “avere”, “apparire” ed “essere” risulta un po’ fastidiosa, ma intanto rende l’idea. Che cos’è dunque la vita autentica? Mancuso prova a indicarcela scorrendo le tesi e le contraddizioni di tutta la filosofia da Platone ad Heidegger e fornendo così al lettore un utile termine di paragone per farsi un’idea propria della problematica. Inoltre, come avverte nella introduzione, il percorso che egli propone è aperto a tutti, laici e credenti: non è necessario cioè essere credenti per perseguire un ideale di vita autentica. Ci riesce in questa operazione? Sì e no. Sì perché l’argomentazione, come è stato osservato, è dialettica, aperta alla discussione e alla confutazione e non ricalca l’andamento puramente asseverativo tipico dei teologi di stretta osservanza; no, perché in conclusione, fa riferimento a una serie di valori assoluti, il bello, il giusto e il vero, che non sembrano conseguire logicamente da una impostazione, a suo stesso dire, basata sulla relazione dell’individuo col mondo e con gli altri individui. Ma andiamo con ordine.
La vita non può dirsi autentica per il solo fatto di esserci, e parlando di uomini non si può fare di tutte le erbe un fascio: deve pur esserci una differenza tra un uomo e un “quaquaraqua”. Chiunque, osserva Mancuso, deve essersi posto almeno qualche volta questa domanda, perché a nessuno è ignoto l’inganno, o il tradimento, o l’abbandono per averlo subito o per esserne stato complice o autore.
Il saggio si snoda per tre capitoli: “La vita come libertà”; “L’autenticità”; “Perché la vita autentica”, e cerca di mettere a fuoco i motivi esterni (condizionamenti socio-culturali) e interni del disagio che ci costringe all'inauteticità, per trovare una via d’uscita nella assunzione di una propensione etico-riflessiva.
La domanda d’apertura è vasta come il mare: che cos’è la vita? La risposta è quanto mai problematica. Religione (Bibbia), filosofia, scienza giungono ciascuna per le vie che sono loro proprie a posizioni antitetiche. Nella Bibbia si scopre che la vita appare di volta in volta come “fenomeno armonico e ben governato”, ma anche come “non giusta, non razionale, non ben governata, e non contiene nessuna logica che ne rispecchi l’autore.” Se rivolgiamo la domanda alla filosofia le cose non vanno meglio: per alcuni è una cosa desiderabile, confortata da un senso provvidenziale e razionale, per altri un fenomeno imprevedibile dominato dal caso; oggi come nell’antichità si levano voci disperate per dire che “meglio sarebbe per l’uomo non esser nato”. Se interroghiamo la scienza le cose non cambiano; si parla dell’universo come di uno spazio inospitale e indifferente o, al contrario, connaturato, favorevole all’uomo e al suo sviluppo. Voci analoghe arrivano dall’astrofisica e dalla biologia. In conclusione, se “medesimi dati oggettivi” si dispongono a così “diverse interpretazioni” perché diverse sono le “rispettive visioni del mondo”, come orientarsi? Riemergono le antinomie della kantiana ragion pura, che nulla può sul mistero dell’universo, non sapendo se sia finito o infinito, continuo o discontinuo, determinato o indeterminato…
Non sappiamo se la mancanza di un universo trasparente alla ragione precluda un approccio fiducioso con l’universo, anche se manca la certezza, la “pietra” di cui Mancuso parla a proposito di una costruzione che poggi su basi stabili; non sappiamo nemmeno se tale base stabile presupponga il superamento delle antinomie e abbia bisogno almeno di “quella causa prima, comunemente chiamata Dio” di cui si parla da Aristotele in poi. Sembra che Mancuso si richiami piuttosto al bisogno di un dio (con la minuscola), forse meno assente del Dio aristotelico, dalla presenza discreta, che per esserci non ha bisogno di essere inconfutabile.
Determinismo e caso segnano strade entrambe fallaci, per lo meno nel senso che la prima paga il suo meccanicismo rassicurante con una rinuncia di senso che prima o poi interviene a rivendicare i suoi diritti; la seconda, all’opposto, per quanto si apra a tutte le possibilità, prima o poi deve fare i conti con la necessità di escluderne alcune, molte, la maggior parte; il caso legittima tutto e niente; il determinismo, oltre ad essere repulsivo, è incapace di disegnare una prospettiva che non sia in sostanza la ripetizione del già noto. Mancuso non intende sfuggire a questo dilemma: “Se la vita si presenta come contraddizione, rispettare la contraddizione consentendo a ciascuno l’esercizio della libertà è il modo migliore di rispettare la vita”. Perché “nel bene e nel male, la questione della libertà concerne il nucleo più intimo dell’antropologia […] la domanda che per Kant riassume tutto il senso del pensiero: Che cos’è l’uomo?”.
Alle scienze dello spirito, che Dilthey separa nettamente dalle scienze naturali, Mancuso assegna il compito di “delineare i criteri di autenticità della vita umana”. Dopo Kant sono accadute tali cose che non è pensabile lasciare alla scienza il compito che, a ben vedere, essa neppure pretende, cioè di decidere il nostro destino, tanto più ora che la stessa scienza è discorde e incapace di trovare una soluzione ai suoi problemi. E crediamo che anche questo voglia dire Mancuso quando afferma che “la vita è tanto più umana quanto più è libera [...]; riflettere sull’autenticità significa mettere a tema il buon uso della libertà per far sì che risulti buona e non cattiva, giusta e non ingiusta, vera e non falsa, bella e non brutta…”. Una relazione, quella tra il sapere scientifico e quello umanistico, in cui ognuno è coinvolto. Come accade, per esempio, nelle pagine che partendo da Cartesio giungono alle neuroscienze. “Cartesio […] alla ricerca di un fondamento del tutto certo […] invece di affidarsi alla sicurezza del sapere consolidato e della fede (era credente) si buttò nelle braccia del dubbio (costruttivo): chi cerca la verità deve una volta nella vita dubitare di tutto”. Un metodo, dunque, che passa attraverso il dubbio e l’errore: dubito, fallor, ma sempre cogito, ergo sum: se “io penso”, prima dovrò ben esistere come cosa pensante! A coloro che contro-argomentano avvalendosi, sia pure impropriamente di alcuni risultati delle neuroscienze, Mancuso risponde che il mondo della coscienza, della libertà “non è indagabile con nessuna delle tecniche di neuroimaging”. Una risposta che vuole soprattutto allertarci sui pericoli di un facile scientismo, contro il quale invita a praticare il dubbio metodico costruttivo di Cartesio. Così a proposito di Heidegger, se per “vivere per la morte” si deve intendere il lascito che ognuno vuol lasciare di sé come un impegno che egli si assume durante la vita (ma è questo il senso di Heidegger?) crediamo che sia ampiamente da condividere. M al vivere per la morte non si può non contrapporre il “vivere per la vita”, che non significa abbandonarsi alle pulsioni più spontanee, ma cercare quel proprio, eigen (Eigentlichkeit= autenticità) che in mezzo al grande magma della nostra interiorità ci contraddistingue, e perseguirlo.
Un passaggio particolarmente importante è quello in cui di descrive la morale di un Callicle, il personaggio platonico del Gorgia, il quale sostiene che vi è una legge naturale, la legge del più forte, al quale è legittimo soddisfare le proprie pulsioni a danno degli altri; per Callicle le leggi imposte dalla società, non sono altro che il modo con cui i deboli distorcono la natura cercando di impedire ai forti di realizzare se stessi, ossia di vivere autenticamente. Alle tesi di Callicle, Socrate contrappone un altro ideale di vita autentica, quella ispirata all’idea del bene nel consorzio armonico con gli altri cittadini della polis. A questo punto l’autore ci propone una breve rassegna dei Callicle della storia, tra i quali rifulge ovviamente Hitler. Ma gli argomenti che egli porta a sostegno della tesi socratico-platonica sono fondati su una non dimostrata e non dimostrabile tendenza insita nell’uomo a convergere, per sua stessa natura, verso l’allargamento armonico della vita e non verso la sopraffazione e la conseguente disgregazione. La tesi di Callicle, a parte il fatto che si contraddice da sé quando afferma che la sopraffazione dei forti porta come conseguenza l’unione dei deboli e l’istituzione della legge, può essere neutralizzata assai meglio senza far riferimento a valori assoluti, ma sulla base di un’etica utilitaristica alla Stuart Mill, per esempio. A tale proposito vorremmo citare un esempio sovrano: quando ormai Hitler era sul punto di scatenare la guerra che, oltre a infliggere ai popoli inenarrabili sofferenze si concluse con la sconfitta della “razza superiore” e la distruzione della Germania, un'anziana signora ebbe il coraggio di scrivergli esortandolo a non metter in pratica il suo proposito, perché, siccome egli voleva conquistare il mondo, tutto il mondo gli si sarebbe rivoltato contro e la guerra l’avrebbe persa. Perché l’episodio è assolutamente istruttivo e perspicuo? Perché quella donna non fece appello a qualità morali che sapeva non avrebbero in alcun modo influito su Hitler; fece appello al solo argomento che egli, nel suo delirio di onnipotenza, poteva recepire: “perderai la guerra”. In sostanza, e generalizzando: stiano attenti i “forti” a non suscitare la collera dei “deboli”. Ma non possiamo fermarci a sottolineare le ragioni dell’utilitarismo che non necessariamente divergono da quelle dell’idealismo. Se accettiamo la relazione come fondamento della realtà, conseguentemente è dalla stessa relazione che deve scaturire il principio di una vita autentica; e tale principio non può allora non assumere le sembianze di un’etica della comunicazione (Apel, Habermas), laddove il principio cui ispirare il proprio comportamento assume la forma, in nessun modo pregiudicata, della discussione libera da dominio, il cui principio trascendentale sia “vinca l’argomento migliore”.
In realtà, la relazione di cui parla Mancuso sembra declinare insensibilmente in una sorta di naturalismo fondato sulla struttura dell’io, dell’essere, del mondo. Se uno si chiede cosa ci sta sotto questo naturalismo (naturalismo significa darsi la rassicurazione che nonostante i su e giù della storia ciò che è “naturale”, essendo autentico, troverà uno sbocco positivo) la risposta sembra scontata: il dio della teologia. A noi sembra che questa conclusione non possa essere suffragata: è proprio dell’uomo (della cultura) di assumersi una responsabilità che non prevede alcuna rete di protezione. Con ciò intendiamo sostenere, contro il sottostante platonismo che sembra caratterizzare l’opera di Mancuso, che la bellezza, la bontà e la giustizia, secondo noi sono frutto unicamente di relazione.
Sia detto infine, ma queste sono sottigliezze, che anche il termine “autentico” risulta un po’ fastidioso, nel senso che inevitabilmente rimanda a qualcosa di essenziale che costituirebbe la natura umana e al quale in qualche modo alla fin fine non resta che richiamarci. Perché non usare al suo posto il termine aristotelico di “vita buona”? Anche l’altro ingrediente indispensabile alla vita autentica ci pare sospetto: ci riferiamo alla “speranza”. La speranza fa parte delle virtù teologali e se Mancuso la include necessariamente nella prospettiva di una vita autentica, finisce con ciò col delimitare a credenti nella vita eterna la possibilità di tale vita, contro l’assunto iniziale. Anche qui il lettore laico preferirebbe il termine “progetto”. Io posso avere un progetto di vita: in tal caso, anche se so di morire, posso sentirmi realizzato avendo perseguito coerentemente tale progetto. Ovviamente non ogni progetto è degno di essere perseguito, ma questo vale anche per la speranza.
C’è un altro punto che suscita perplessità. Dopo aver elencato tutte le innumerevoli storture, fonti di dolore che caratterizzano questo nostro mondo, l’autore conclude, alla maniera di Leibniz, che comunque il mondo è nel suo insieme buono e che la vita vale la pena di essere vissuta. La discussione in merito non ha alcun senso se non nell’ambito di una teodicea (benché imperfetto questo è il migliore dei mondi possibili o giù di lì): il mondo c’è, la vita c’è, quale che sia dobbiamo cavarcela. Bisogna riconoscere tuttavia che essendo l’uomo un ente naturale, prodotto di una lunga evoluzione, un certo grado di armonia col mondo naturale non può non esserci. Ma a questa idea, affinché non risulti pigramente consolatoria, vale la pena di contrapporre la denuncia di Leopardi: la natura è del tutto indifferente ai bisogni dell’uomo. All’uomo spetta di sfruttarne ragionevolmente le possibilità e di fronteggiarne solidarmente i disastri a ciò essendo stata “ordinata in pria l’umana compagnia”. E su un tale progetto, senza dubbio alcuno, troveremo fianco a fianco Vito Mancuso assieme a tutti gli uomini di buona volontà.
A cura di Mirna Ferrarini


Lettura da La vita autentica



Intervista a Vito Mancuso su La vita autentica

mercoledì 2 novembre 2011

Uomo e donna li creò - verso "Sii bella e stai zitta" di Michela Marzano


Michela Marzano, Sii bella e stai zitta. Perché l'Italia di oggi offende le donne, Mondadori 2010.
Il primo libro del Gdl, dedicato quest’anno a "Maschile e Femminile" (titolo: "Uomo e donna li creò") è Sii bella e stai zitta. Perché l’Italia di oggi offende le donne, di Michela Marzano, filosofa italiana trasferita in Francia, paese dove ancora si muovono energie del pensiero e dove sulla carta di identità si può scrivere “professione filosofa”.
Nata e cresciuta in Italia, laureata alla Normale di Pisa, dove ha conseguito il titolo di dottore di ricerca, la Marzano diventa giovanissima professore ordinario alla Università Descartes di Parigi, nell’era della fuga degli italici cervelli.
“Le Nouvel Observateur” la cita come uno tra i più brillanti pensatori della nuova scena culturale francese, e le riviste italiane non esitano a titolare “un’italiana scelta tra i migliori di Francia”, rivendicando una inopportuna paternità/maternità, che solo mamma e papà biologici possono vantare con orgoglio, perché se Michela Marzano fosse rimasta nel suo paese sarebbe probabilmente stata spenta, come altre brillanti lampadine luminose e illuminanti, dalla recessione/stagnazione del pensiero che ha colpito i talenti.
Peggiore ancora della recessione economica perché, se le macchine e le fabbriche prima o poi si rimetteranno in funzione, i cervelli saranno definitivamente smarriti e quelli che ancora resisteranno certamente umiliati, o troppo stanchi o tacitati.
Sii bella e stai zitta, sottotitolo Perché l’Italia di oggi offende le donne, piace perché cita Freud e Jovanotti, Lacan e Pretty woman.
Come dire, un libro colto alla portata, un testo “nazionalpopolare” di una mente sopraffina, dove il linguaggio filosofico diventa linguaggio divulgativo senza perdere la forza del pensiero e il rigore logico/argomentativo.
Per ragionare sul perché l’Italia di oggi offende le donne, secondo la più consolidata pratica filosofica, Marzano comincia da un’altra domanda, che prima di lei altri pensatori si erano posti: cos’è una donna e che differenza esiste tra un uomo e una donna? E una seconda domanda, tristemente attuale, più impietosa e più difficile quasi della prima: che cos’è l’Italia di oggi?
E le risposte la Marzano le cerca nella Storia, nella cultura del nostro paese, ma soprattutto le cerca nel corpo delle donne. Dentro la verità del corpo, di un corpo troppo esposto, caricaturizzato, umiliato, martoriato e violato.
Un corpo che - ascoltato - suggerisce e guida, un corpo che – inascoltato - si allontana e ti aliena, ti ammala, continuando a custodire un desiderio a tua insaputa, frastornato dal desiderio indotto e imposto.
Sarà dunque quella la verità che ci rende diverse? Ma dove sta, dov’è nascosta?
Il rigurgito sonoro e volgare di cultura machista che ha attraversato l’Italia negli ultimi vent’anni vuole confondere e distrarre, e come dice Marzano, creare “l’impossibilità di accedere al desiderio”.
Come dire: attenzione bambine vestite di tulle, principessine alla corte del principe ranocchio, ragazze griffate, olgettine, veline, letterine, meteorine, state facendo un gioco non vostro.
Ma questa nebbia dorata, polvere di stelle soffiata sugli occhi, comincia a far lacrimare di brutto, irrita, danneggia ben più delle otto ore che sembran poche, enormemente di più della schiena piegata sui libri, più delle attese sfibranti del concorso per entrare di ruolo, e produce (piano, un po’ troppo piano) un crescendo di indignazione, di rabbia, di pathos civile, che è quello che i genitori dovrebbero insegnare ai figli e alle figlie e gli insegnanti dovrebbero trasmettere ai ragazzi e alle ragazze nelle scuole. Avete presente la Tata Lucia? quella di Sos Tata? Inchiodatevi da sole le regole scritte in cameretta. Regola prima: Trovare una voce. Il corpo ve la suggerirà. E non smettere di urlare.


Elena Bellei

giovedì 27 ottobre 2011

Il salotto del martedì - verso "La vita autentica" di Vito Mancuso

Vito Mancuso, La vita autentica, Cortina 2009

Professore di Teologia moderna e contemporanea presso l'Università San Raffaele di Milano, autore del best seller L'anima e il suo destino (Cortina 2007), Vito Mancuso potrebbe sembrare un pensatore alla moda, reso ormai celebre da svariati passaggi televisivi e da violente stroncature da parte di testate cattoliche come “L'Osservatore Romano” e “Civiltà cattolica”.
Ma proviamo a leggere le sue pagine con animo sgombro da pregiudizi, e sentiremo una voce chiara che, con semplicità nutrita di letture bibliche e filosofiche, pone a tutti noi domande che ci interrogano nel profondo:c he cosa fa di un uomo un vero uomo? Cosa fa sì che la sua vita diventi autentica, cioè vera, buona, giusta? In che cosa consiste la libertà interiore?
Non sono questioni astratte, da addetti ai lavori. A ciascuno di noi è capitato di trattare ed essere trattato in modo non autentico, perché i rapporti umani sono spesso falsati da mascherature, falsità ed opportunismi. Spesso mentiamo agli altri perché non abbiamo il coraggio di dire la verità a noi stessi; soltanto liberandoci dalle nostre menzogne (dice Mancuso) potremo uscire dalla nostra finitezza e realizzare il nostro vero (e libero) sé interiore. “La vita autentica è all'insegna del viaggio, dell'uscita da sé verso la realtà... Per alcuni il viaggio verso l'autenticità sarà un esodo verso una patria, per altri solo un esodo senza patria, un'Odissea senza Itaca. Penso però che per tutti valgano le celebri parole dell'Ulisse dantesco, secondo le quali, alla luce della nostra essenza di uomini, la vita autentica è quella vissuta all'insegna del bene (virtute) e dell'amore per la verità (canoscenza)”.
Una lettura impegnativa, ma ricca di stimoli anche per il laico e il non filosofo che voglia affrontare la riflessione sui grandi temi dell'esistenza.
(a cura di Matilde Morotti)

giovedì 20 ottobre 2011

Leggere/Scrivere - Scrivere/Leggere - Corso di scrittura con Ugo Cornia

Parte il corso di scrittura "Leggere/Scrivere - Scrivere/Leggere", condotto dallo scrittore Ugo Cornia. I lavori del gruppo sono documentati nel blog http://www.comune.modena.it/biblioteche/leggerescrivere/.

Perché un corso di scrittura sul blog dei gruppi di lettura? Perché - come si capisce anche dal titolo scelto dal conduttore - leggere e scrivere sono due gesti strettamente connessi: non si scrive se non si legge. Così ogni incontro sarà costituito da una introduzione e da letture a cura di Ugo Cornia, da esercitazioni pratiche e poi dalla lettura collettiva dei testi dei partecipanti.

Il corso è a numero chiuso (minimo 15, massimo 25 iscritti). La quota di partecipazione è di 90 euro. I dieci incontri, a cadenza settimanale, si svolgeranno il martedì dalle 19 alle 21 nei giorni: 15, 22 e 29 novembre 2011; 6, 13 e 20 dicembre; 10, 17 e 24 gennaio 2012; 7 febbraio.

-Info ai numeri:

059 2032798/2931/2940

-Iscrizioni in biblioteca, al punto informativo di Sala Panaro, 1° piano, a partire dal 2 novembre



Leggere e scrivere, di Ugo Cornia

Tante volte, di pomeriggio quando è tardi, magari in quei periodi di luce calante come l’attuale che in un certo senso ti riempiono naturalmente di tristezza, allora uno non sa cosa fare ma sente che gli cresce dentro il magone e vorrebbe magari impiccarsi e inizia a chiedersi come trovare una corda e qualcosa su cui far passare la corda, ma la casa è moderna e senza travi, e lui magari invece di impiccarsi si mette a scrivere qualcosa; oppure meditava di trovare una pistola, sempre per spararsi un colpo in testa e farla finita, ma una pistola non ce l’ha e non frequenta abitualmente gente della mala per procurarsela, quindi non sa come fare quando un bel momento gli viene in mente che suo nonno era cacciatore e possedeva una doppietta, va in solaio a cercare questa doppietta e sposta tutto ma non trova la doppietta, allora telefona a sua zia per sapere che fine ha fatto la doppietta del nonno, e sua zia gli dice “nessuno aveva il porto d’armi, nessuno andava più a caccia, non sapevamo cosa farcene della doppietta, l’abbiamo regalata. Perché, a che cosa ti serviva la doppietta?”. Lui però a quel punto non dice a sua zia “mi serviva perché volevo spararmi un colpo, ma le dice che di colpo gli era venuta in mente la doppietta e voleva sapere che fine aveva fatto. E però dopo si mette a scrivere una invettiva segreta contro la zia e la madre che hanno regalato questa doppietta in un modo che secondo lui è stato troppo leggero, come se possedere una doppietta fosse completamente inutile. Soltanto che scrivendo l’invettiva poi gli vengono in mente tanti altri rancori e diverbi che inizia a scrivere un romanzo e va a finire che non si spara più. Anzi, quando legge le prime pagine della sua invettiva, dove c’è sempre il problema che non potrà usare la doppietta per spararsi, il problema di spararsi gli sembra ormai superato. Questi casi di cui abbiamo parlato sopra illustrano benissimo che la scrittura, come del resto la lettura, per esempio la lettura dei filosofi stoici, hanno spesso un grande potere curativo, sono arti terapeutiche. Per di più spesso possono anche essere divertenti, così il tempo vola. Poi per di più ancora possono anche essere noiose, e se sono noiose sarebbe addirittura meglio così le giornate non finiscono mai, cioè durano di più, e a uno gli sembra di vivere cent’anni e magari ne vive solo sessanta.

venerdì 7 ottobre 2011

Il salotto del martedì - 4 ottobre 2011 - Libertà, di Jonathan Franzen






Un’altra famiglia al centro delle storie e delle analisi psicologiche di Jonathan Franzen, la famiglia Berglund, a partire dalle sue radici familiari, personali, strettamente autobiografiche, per continuare nelle ramificazioni relazionali con gli amici d’infanzia, del college e della vita matura.
Patty e Walter si trovano a vivere una fase di crisi dopo che i figli hanno lasciato la casa: Jessica vive lontana per frequentare l’Università, Joey, ancora molto giovane, ha lasciato la famiglia con un gesto di ribellione e di grave rifiuto, andando a vivere coi vicini di casa, per stare vicino a Connie, la ragazzina alla quale è molto legato. Patty, che nei confronti di Joey ha mostrato un amore preferenziale, soffre questo distacco come uno sfregio, un lutto così profondo che la porta alla depressione e alla dipendenza dall’alcol. I due genitori colti, benestanti, progressisti faticano non poco a gestire questi cambiamenti: dai loro comportamenti educativi si aspettavano altri risultati! Tutto ora è rimesso in gioco, Patty dubita di aver scelto Walter per vero amore, e finisce per tradirlo con Richard, musicista rock, amico del marito: questo rapporto è vissuto con sensi di colpa, con passione, ma senza una vera libertà. Walter, incapace di stare accanto a Patty, così cambiata e distaccata, si dedica completamente alla difesa dell’ambiente, utilizzando l’azione un po’ compromettente di una fondazione miliardaria che da una parte mira allo sfruttamento delle risorse energetiche e dall’altra si applica alla salvezza di specie protette di uccelli o alla lotta contro l’aumento eccessivo della popolazione della Terra.
Joey marca la sua differenziazione dalla famiglia, cercando il successo e il danaro: la sua scelta lo porta a contatto con l’America degli affari della guerra in Iraq, con l’America che costruisce verità ai propri fini per mantenere il potere politico e soprattutto economico.
Dopo aver condotto le loro vite per vie diverse, spesso dolorose e cariche di grandi ripensamenti, i due genitori si ritrovano e si ricostruisce anche un dialogo con i figli su nuove basi.
Uomini, donne, ragazzi, vecchi che cambiano, si trasformano, cercando se stessi nel corpo vivo della società americana, tra gli anni ottanta e gli anni 2000. Una società prima in ascesa fiduciosa, talora un po’ credula e poi spaurita, arrabbiata, spesso rabbiosamente individualista.
L’America della Libertà, della Verità, della superiorità morale, della crescita senza limiti vacilla: chi siamo? dove è andata a finire la nostra innocenza? la nostra superiorità morale? apparteniamo a un paese diviso all’interno delle famiglie, tra sobborghi e metropoli, tra vicini di casa, tra passato e futuro?
Una storia familiare e di maturazione personale come tante altre, ma anche dell’America messa alla prova dall’autoanalisi di donne e di uomini della classe media, che si interrogano sul loro ruolo di genitori e di parte cospicua della società, nel momento in cui le comunità locali diventano sempre più portatrici di interessi individuali meramente egoistici.
A questo punto si deve riconoscere che la narrazione di Franzen fa la differenza per la forte attenzione a ogni sviluppo psicologico ed emotivo: una vera e propria sapienza analitica applicata alle condizioni dei suoi personaggi.
La narrazione ha due parti essenziali, incentrate nell’analisi che la protagonista fa dell’autobiografia (redatta su consiglio del suo terapeuta): nella prima vengono ricostruite, con un'autoanalisi minuziosa, e si potrebbe dire di liberazione, talora quasi ironica, le relazioni di Patty con la madre, con il padre e le sorelle, il rapporto di dedizione con l’amica ossessiva, la competitività ingarbugliata sul campo da gioco della pallacanestro, le scelte di madre e di moglie; nella seconda parte, che viene presentata come “Una specie di epistola di Patty Berglund per il lettore”, c’è il racconto della costruzione faticosa, ma positiva di una biografia autonoma della protagonista, che accetta la solitudine per ricercare i legami con la famiglia d’origine, con i propri bisogni e la propria vocazione.
Altri capitoli essenziali sono dedicati a Walter; viene ricostruita la sua origine: una famiglia svedese immigrata all’inizio del ventesimo secolo in cerca di libertà, benessere e indipendenza, con caratteristiche peculiari di rabbia, dissenso, isolamento. Walter però coltiva la sua differenza nel senso di responsabilità: responsabilità verso la famiglia, l’ambiente, l’amicizia. Il suo lutto sta proprio nel dover accettare che ogni buona strada comporta dei compromessi. In questi capitoli viene a galla la passione ecologista dell’autore, la sua esperienza di osservatore della natura, l’analisi piuttosto pessimista dei rapporti tra capitale, politica e ambiente.
Al centro del romanzo fa da motore il rapporto dialettico depressione/libertà; la depressione appartiene all’uomo e alla società quando entrano nel cammino della consapevolezza e dell’indipendenza. Depressione, perché non si è più certi di sé, di quanto è stato costruito dalle generazioni passate, perché si avverte il cemento franante delle relazioni personali, la ragnatela delle bugie, delle falsità del potere. La trama delle storie individuali e delle famiglie mostra la faticosa ricerca di altre basi fondative per un patto che favorisca legami più liberi nelle famiglie, nelle piccole comunità, nella Nazione, tra cittadini e Stato.
Cosa chiedevano all’America le famiglie d’origine emigrate dall’Europa? Spazi “selvaggi” di libertà dove costruire, nel rischio e nella responsabilità, comunità ed individualità originali, nutrite dell’orgoglio e della certezza di essere unici. I loro eredi, la nuova classe media, inquieta e rabbiosa, amaramente riconoscono che i padri, le classi dirigenti e il potere economico non sono esenti da macchie, che l’America della natura libera e selvaggia è ridotta, da una parte a riserve naturali di libertà condizionata per uomini e animali, e dall’altra a sobborghi ordinati e lindi, dove scopri che il tuo vicino ti odia, ti disprezza e diffida di te; che le donne ancora competono facendo i conti con devastanti sensi di colpa.
Alla libertà dei grandi spazi si sono sostituite le metropoli, dove si può ritrovare l’accettazione delle diversità, dove confluiscono ancora una volta uomini e donne da ogni parte del mondo, sperando nella libertà di esprimersi e di giocare le proprie caratteristiche di originalità.
In un saggio del 1996, Franzen ha scritto che lo scrittore di romanzi si carica di tutto il dolore dei personaggi che rappresentano la società intera; anche in Libertà l’autore vuole dare un quadro corale della società americana (in particolare della costa orientale) carica di tensione, poco riconoscibile nelle nuove generazioni, consapevole del declino politico, morale ed economico. Alla base della scrittura di Franzen c’è il problema di preservare l’individualità e la complessità in mezzo al frastuono, alla durezza, alla violenza dei tempi, alle distrazioni della cultura di massa.
Il suo messaggio finale tuttavia esprime mitezza e gentile fiducia nella possibilità di reggere la verità, di ricominciare a parlarsi, di offrire e saper accettare gesti gratuiti di vicinanza. Fiducia, infine, nell’istinto così come si può osservare nel miracolo di un uccellino che infine ce la fa a riprodursi.
Quando la depressione riesce a mantenersi su un fondamento di responsabilità verso di sé, verso la famiglia, la società e l’ambiente, riconduce gli uni agli altri e libera dalla violenza della rabbia .
(a cura di Luisa Magnani)

giovedì 6 ottobre 2011

Uomo e donna li creò




Parte il gruppo di lettura della biblioteca Delfini condotto da Elena Bellei. Filo conduttore il rapporto uomo-donna. Il gruppo si incontrerà il sabato mattina dalle 10 alle 12, a partire da sabato 12 novembre, in sala conferenze. Nella colonna di destra, troverete il calendario degli incontri e la presentazione del percorso a cura di Elena Bellei.

Ci si può iscrivere dal 12 ottobre, telefonando ai numeri:

059 2032978 / 059 2032931 / 059 2032940

martedì 4 ottobre 2011

Il salotto del martedì - Verso "Libertà" di Jonathan Franzen

Si riparte con i gruppi di lettura (e non solo...) della stagione 2011-2012.

Parte per primo il gruppo di lettura "Il salotto del martedì", organizzato e gestito dall'Università per la libera età Natalia Ginzburg. Per leggere la presentazione del percorso 2011-2012, cliccate nella barra a fianco su "Salotto del martedì". Sempre nella colonna a fianco, il calendario degli incontri.
A breve saranno pubblicate anche le informazioni sul nuovo gruppo di lettura condotto da Elena Bellei, "Uomo e donna li creò" e sul nuovo corso di scrittura "Leggere/Scrivere - Scrivere/Leggere", condotto da Ugo Cornia.


Il gruppo "Il salotto del martedì" ha letto durante l'estate il libro di Jonathan Franzen Libertà, e dedicherà quindi il primo incontro a scambiarsi impressioni e opinioni su questo libro, che Matilde Morotti, una delle due conduttrici, introduce così:
Chi conosce Le correzioni, sa che uno dei temi preferiti di Jonathan Franzen è la “vera famiglia americana”, quella in cui i genitori cercano di tirare su i figli in modo perfetto e naturalmente falliscono. Anche in Libertà (il romanzo che il presidente Obama ha deciso di leggere durante le vacanze) c'è una famiglia apparentemente esemplare, con il padre e la madre che restaurano con grande impegno una villetta vittoriana e si prodigano nell'educazione dei due figli; amatissimo e fonte d'orgoglio per la madre soprattutto il figlio maschio, il biondo Joey.
Passa il tempo e si scopre che Joey ha spezzato il cuore della mamma andando a vivere con gli odiati volgarissimi vicini; d'altra parte la madre sprofonda nelle depressione anche a causa del fallimento del suo matrimonio: ha sposato infatti il “bravo ragazzo” Walter, pur essendo da sempre innamorata dell'amico di lui, la rockstar Richard.
Una storia di famiglia, quindi, i cui temi sono l'amore, il matrimonio, l'educazione dei figli.
Ma Franzen è uno scrittore fluviale, e le 622 pagine costituiscono un vasto affresco che ambisce a darci un quadro esauriente della società americana di fine-inizio millennio, dall'era dei figli dei fiori all'11 settembre. Oltre alla famiglia,un altro argomento-cardine è l'ecologia, dato che il protagonista maschile, Walter, è un ambientalista convinto e decide (sia pure in modo un po' contraddittorio) di salvare la “dendroica cerulea”, un uccellino americano in via d'estinzione. Purtroppo, per raggiungere lo scopo, fa un patto col diavolo, cioè con la grande compagnia che , in cambio della salvezza dell'uccellino, decide di sfrattare duecento abitanti per scavare la cima di alcune montagne del West Virginia.
Insomma un romanzo di vasto respiro, ricco di personaggi ed argomenti, che mette in luce le tortuosità, gli errori e i compromessi attraverso cui si snoda la vita di tutti.