martedì 22 marzo 2011

Il salotto del martedì - 15 marzo 2011 - "Cecità", di Josè Saramago


Non si diventa ciechi da un momento all’altro e la cecità non è un male contagioso. Ma, nel romanzo di Saramago, accade esattamente il contrario: la cecità colpisce inesorabile nel giro di un attimo, un attimo prima ci vedi, un attimo dopo non ci vedi più. Questa cecità epidemica, da cui prende le mosse il racconto, è già un evento problematico, e perciò racchiuso in una metafora: non si tratta di una normale cecità, ma di occhi perfetti, su cui cala una cortina bianca lattiginosa, “uno splendore luminoso”, “un’illusione di luce”.
A questo proposito l’autore afferma che si tratta di un romanzo realistico, di un realismo un po’ particolare perché ricorre all’allegoria, cioè a un modo di raccontare in cui si fa ricorso a metafore e simbolismi.
Dopo i primi improvvisi casi di cecità, gli eventi precipitano a ritmo incalzante: dapprima l’isolamento in un ex manicomio, un isolamento che si trasforma in breve in una segregazione, cui segue la progressiva degradazione morale, la fame, lo stupro, la morte; una “discesa all’inferno” non voluta, ma neppure contrastata, certamente sofferta.
La vicenda prende le mosse dal “giorno dopo”, quando l’imprevisto si è già verificato, è accaduto qualcosa che paralizza la scienza, il senso comune, e i provvedimenti, nonché aggravare la situazione, si rivelano vani.
“Tutta la sporcizia di cui trabocca l’inferno di Cecità non si trova solo lì, c’è anche intorno a noi, basterebbe vederla”; nella discussione queste parole ci avvicinano un po’ alla meta: se la cecità “buia” è propria di chi anche volendo non può vedere, quella “bianca” corrisponde simmetricamente alla cecità di chi non vede pur potendo.
Il manicomio separato dal resto del mondo da mura di protezione fa venire in mente per spontanea associazione i campi di concentramento nazisti, e altre esperienze equivalenti che nel mondo non mancano. Ma il richiamo risulta per molti aspetti poco convincente: i nostri personaggi non si trovano lì per motivi politici o per razzismo, come accadde ad Auschwitz; essi non si sentono colpiti da folle ingiustizia, condividono, anzi, i motivi cautelari di salute pubblica che hanno imposto la loro quarantena. Ignorano semmai che tale provvedimento ha motivi poco nobili, è stato preso in tutta fretta per il timore di incorrere in penalizzazioni elettorali. Comunque sia, è interessante osservare che nel passaggio dallo spazio della medicina a quello del potere politico quello che è solo un dubbio scientifico (il contagio), un sospetto, e come tale suggerirebbe un atteggiamento cauto, prende la forma di una rapida risoluzione amministrativa: che poi, anziché contagio, sia solo casuale simultaneità, nel qual caso non c’è quarantena che valga, poco importa. Il medico intravede il rischio, il ministero si aggrappa al principio dell’interesse pubblico, una cosa sola è certa: la quarantena potrebbe durare “quarant’anni”, una condanna a morte.
Però il morbo non si arresta, “quanti ciechi occorrono per fare una cecità”? La questione non è ovviamente statistica, non basta che il numero dei ciechi diventi superiore a quello dei vedenti; ma non basta forse nemmeno che qualche vedente continui a vederci. Nel romanzo di vedenti ce n'è uno solo, la moglie del medico, e dunque il mondo sfugge al controllo con un’accelerazione impressionante e la possibilità di sopravvivenza si fa sempre più esile. Incombe l’ombra terrorizzante di una “cecità” finale, apocalittica.
Forse anche per questo Saramago ha scelto di non dare un nome ai suoi personaggi, sono semplicemente un medico, la moglie del medico, la ragazza con gli occhiali… persone comuni, a cui non serve un nome per attraversare eventi catastrofici. Non sono semplici vittime, però, perché si dice, nel corso del processo di agnizione di un personaggio, che ciechi lo erano anche prima di diventarlo.
Tante cecità, dunque, ciascuna nutrita di indifferenza, sospettosa, sorda ai bisogni degli altri e del mondo, concentrata su qualche tornaconto personale. In questo senso l’esperienza della segregazione potrebbe essere letta come una serie di prove, attraverso le quali diventa possibile recuperare la vista, un senso di umanità perduta.
Date le condizioni disumane del manicomio, la sopravvivenza impone alla piccola comunità di organizzarsi. In questo modo, almeno fino a quando il numero dei ciechi si contiene entro limiti sostenibili, resistere è possibile.
C’è anche la netta impressione, a onor del vero, che le figure femminili mostrino e conservino una cecità meno devastante, sia prima che l’arrivo dei “ciechi malvagi” (accaparratori, stupratori, delinquenti) faccia precipitare gli eventi a livelli di depravazione inaudita, sia perché sono loro, le donne, a mostrarsi capaci, sia pure in extremis, di quello scatto di dignità che, solo, può porre fine alla segregazione e, con l’aiuto della fortuna, aprire le porte della prigione. Forse per questo sembrano godere di una maggiore benevolenza da parte del narratore; un riconoscimento di “genere”, che dà credito all’ennesima constatazione che le donne sembrano percepire maggiormente l’evenienza del “male” prodotto dall’indifferenza e, forse per questo, dimostrano una più accorta apertura alla speranza.
Ma cos’è questo romanzo? Un racconto fantastico? Una favola allegorica? Un romanzo utopistico? Forse è ozioso perdere tempo per attribuirgli l’etichetta di un genere, perché, si fa notare, a prescindere dall’interpretazione dell’allegoria iniziale, la si accetti o la si ignori, il racconto possiede un taglio realistico e politicamente impegnato. D’accordo, soprattutto in questi giorni. Tuttavia all’orecchio non cessa di ronzare il dubbio che ciò che accade nel mondo abbia a che vedere in qualche modo con quell’allegoria, con quella “cortina fumogena” che non viene dal nulla e che sarebbe sperabile che producesse solo in sede di elaborazione letteraria le estreme conseguenze del suo potenziale distruttivo.
Fuori dal manicomio le cose non vanno meglio, al contrario: se dentro, in qualche modo, una sia pur minima parvenza di organizzazione aveva garantito la sopravvivenza dei ciechi, fuori c’è l’anarchia: la città (il suo fantasma) è percorsa da orde che assaltano botteghe, supermercati, edifici pubblici, chiese, alla ricerca, gli uni contro gli altri, di cibo e riparo (ma allora, osserva qualcuno, aveva ragione quel filosofo dell’homo homini lupus). È un mondo abbandonato dagli uomini e da Dio. Qualcuno, in un ultimo barlume di luce sacrilega, ha bendato gli occhi delle statue e cancellato con un colpo di vernice quelli dei dipinti di una chiesa: “chi non vede non merita di vedere”.
Dov’è la salvezza? A che cosa aggrapparsi?
In questa desolazione, in un momento in cui la disperazione ha raggiunto l’apice, c’è un cane che non aggredisce ma offre la sua amicizia in cambio delle lacrime che la donna gli lascia bere. Si tratta del breve conforto di un attimo, poi? Altri tormenti, altre visioni da incubo, poi una pioggia che giunge a spazzar via un po’ di tanto sporco e sofferenza, infine nello stesso ordine con il quale sono diventati ciechi, tutti riprendono a vedere.
Ma non siamo sicuri che si tratti di un “lieto fine”, rimane quella domanda: si può diventar ciechi se già prima non lo si era? E che cosa questa “discesa all’inferno” ha cambiato nei personaggi? È vero che hanno imparato qualcosa, nel senso che sapere che esiste il mal di testa non è lo stesso che soffrire di emicrania, però non è dato sapere se alla fine ci vedano come prima di diventare ciechi, o in un altro modo, e tanto meno se quest’altro modo sia o no anch’esso una forma di cecità. Forse una risposta è contenuta in Saggio sulla lucidità, che riprende Cecità, titolo originale: Saggio sulla cecità.
A questo punto bisognerebbe rileggere il libro, che in prima lettura è di grande impatto emotivo, ma meno facile di quanto sembri. Meriterebbero un’adeguata osservazione il linguaggio, lo stile e soprattutto gli interventi della voce narrante che sono numerosissimi e posseggono una gamma assai vasta e illuminante di registri linguistici. Ma il tempo è scaduto.
[a cura di Mirna Ferrarini]

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