giovedì 25 novembre 2010

Leggere con Ugo Cornia - verso "Centuria", di Giorgio Manganelli


Non so come si possa parlare di questo libro e della sua bellezza e stranezza. Un modo forse non sbagliato potrebbe essere quello di fare l’elenco parziale dei suoi vari personaggi. Che tipo di personaggi sono? C’è un signore di media cultura e costumi decorosi, un signore di buoni studi e umori moderatamente malinconici, il signore vestito di scuro dalla camminata attenta e pensosa che sa di essere inseguito, i signori che vengono a questa fermata ad attendere il treno e generalmente muoiono nell’attesa. C’è quel signore che attraversa Piazza Indipendenza e che regge tra le mani il capo che gli hanno appena mozzato, e che è un martire della fede, l’imperatore che giunge in Cornovaglia, un signore grasso, con barba, dal vestito un po’ sgualcito, che alle dieci e trenta del mattino si accorse di avere la facoltà di compiere miracoli, il fantasma che è annoiato, l’animale giglio, i dinosauri, una persona inesistente che abita un appartamento, il drago, il signore vestito di grigio che è un’allucinazione, un illustre fabbricante di campane, una fata del paese delle fate che un giorno sbagliò treno, il capitano del vascello fantasma, il grido, una voragine custode, una donna che ha partorito una sfera. Poi ce n’è tanti altri di personaggi che non elenco qui. La domanda conseguente è che tipo di azioni possono fare questi personaggi, per esempio una fata che ha sbagliato treno, oppure una voragine custode. Io questo libro l’ho letto e riletto tante volte, mi sembra la più bella serie mai scritta di biografie e momenti di vita di esseri piacevolmente inesistenti o originali, volevo dire marginali, ma marginali ha un senso negativo, e originale vorrei che venisse inteso come uno un po’ strambo, che di nascosto e dentro casa sua non è mai riuscito a imparare le regole del normale comportamento perché partecipa a un mondo mentale differente. A leggerlo non si smette mai di imparare qualcosa di importante, anche se non saprei precisare cosa. È un po’ come se quando stai guidando ti venisse in mente che da qualche parte, nella stessa città dove stai guidando, c’è un TIR invisibile che gira anche lui e chiunque può farci un frontale contro, nessuno sa come fare per evitarlo, ogni tanto qualcuno ci deve sbattere contro.

Ugo Cornia, conduttore del Gruppo di lettura "Leggere con Ugo Cornia"

venerdì 19 novembre 2010

Un libro, un film - verso 'Il lungo addio', di Raymond Chandler

Per quelli che amano i polizieschi d’azione, fatti di violenza, alcol, droga e dark ladies procacciatrici di sventure, i romanzi di Raymond Chandler fanno al caso loro.

Il linguaggio è quello spiccio ("cercai qualcosa da mettere sotto i denti… mandai giù un cocktail tutto d’un fiato… pensai che la cosa migliore fosse tagliare la corda…") e il protagonista, l’investigatore Philip Marlowe, è un duro, senza peli sulla lingua, ma a guardar bene intimamente etico e di buon cuore, reso cinico e sprezzante dal mondo sordido della metropoli.

Un sottobosco di personaggi dal sapore pulp, che spiazzano il lettore con barocchi colpi di scena, popolano gli spazi di Marlowe. Tipi che prendono la vita di petto, aggressivamente, che non hanno paura dei lati oscuri dell’esistenza e che Marlowe (Chandler) guarda con apparente distacco ma in verità scruta, soppesa, viviseziona con fine psicologia, fino a ricercarne i più umani 'perché' (il perché di tutto quell’alcol, il perché del potere corrotto, dei suicidi, dei tradimenti, dei delitti) e li rivela attraverso una sapiente semina di indizi e dialoghi brevi e brillanti.

Anche Il lungo addio, scritto nel '53, (in un momento estremamente triste della sua vita a causa della malattia incurabile dell'amatissima moglie, che morirà l'anno successivo) è una combinazione di questi ingredienti: raffinatezza stilistica, uno sguardo impassibile, probabile pretesto per una riflessione più ampia.

L’inizio: casualmente il detective Philip Marlowe si imbatte in Terry Lennox, personaggio un po’ inquietante, bevitore impenitente, che lavora nel mondo del cinema, marito di Sylvia, figlia di un miliardario. I due simpatizzano e si incontrano di tanto in tanto per bere un bicchiere. Un giorno Marlowe, assecondando il desiderio di Lennox che vuole andarsene, decide di accompagnarlo alla frontiera messicana, ma al suo ritorno una sorpresa lo aspetta. Sylvia è stata trovata morta ammazzata, Lennox è sospettato d’omicidio e Marlowe viene accusato di complicità e finisce in galera...("Avevo bisogno di fortuna... diavolo ne avevo bisogno a vagoni…"). Dunque l’amicizia è tradita. Lennox si è servito di lui. Il solitario Marlowe, convinto di avere trovato un amico, si deve ricredere.

Dopo escono dall’ombra altri personaggi, complicati intrecci parentali, interni alto borghesi, mogli infelici, scrittori dall'apparente successo ma umanamente falliti, il tutto costantemente annaffiato da fiumi di alcol.

Un libro sugli ideali infranti? Sui codici d’onore spezzati? Sul potere? Sulla solitudine e la corruzione metropolitana? Sugli inconsolabili addii? Provare a leggere... e farsi un’idea!

"La letteratura seria non esiste" diceva Chandler convinto dell’ utilità estetica delle sue storie. L’autore, uomo borghese, prodotto della middle class americana, cresciuto in Inghilterra, sposato con una modella bellissima, ex commercialista licenziato per problemi di alcol, era intenzionato con i suoi romanzi a creare un nuovo genere giallo, fatto di gusto fine, di trame di commedia, di sottofondi romantici, insomma un genere più vicino alla strada ma non basso come la strada. Il successo gli ha dato ragione.

Elena Bellei, conduttrice del GdL 'Un libro, un film'

mercoledì 17 novembre 2010

Il salotto del martedì - 9 novembre 2010 - La macchia umana

Philip Roth, La macchia umana, Einaudi.
Un romanzo illeggibile, che esalta la condotta di un personaggio immorale, il quale, incapace di accettare la propria condizione d’origine, vive una vita di bugie, di falsità, di maschere, di inganni?
Un altro romanzo maschilista, come tutti i romanzi di Philip Roth?
Una splendida tessitura di innumerevoli storie, sulla trama della storia di Coleman Silk?
Il dono di uno scrittore fertile e generoso?
Dove ci siamo collocati? contro Coleman e Faunia ? "abbiamo operato" per il loro esilio morale?
Oppure ci siamo affiancati a Zuckerman, il narratore, nella sua investigazione, calda di amicizia ed empatica, di una porzione di umanità che sta per gran parte di essa?
Piccolo campionario dei nostri sentieri di esplorazione dell’opera di Philip Roth, uno scrittore che favorisce domande più che risposte.
Tutti i personaggi di questo affresco americano custodiscono segreti, macchie segrete.
Perché Coleman, brillante professore, preside di facoltà attivo ed efficace, che è "nero", ma con tratti che possono farlo passare per "bianco", negli anni della segregazione sceglie di lasciarsi alle spalle le sue radici e di vivere la sua singolare rimozione? Perché Faunia, che ha vissuto perdite crudeli e violenze familiari, sceglie un profilo di vita senza qualità, nascondendo a tutti la propria cognizione del dolore? Perché Delphine Roux (in un certo senso l’antagonista di Coleman), brillante studiosa, esilia la sua giovinezza avida di vita in un’appartata università americana? Perché Les Farley, ex marito di Faunia, reduce della guerra del Vietnam, è perso irrimediabilmente in un orrore rabbioso, minaccioso, vendicativo? Ogni rivelazione dei loro segreti porta in sé il ragionevole dubbio che la verità non si possa mai cogliere pienamente, che non si possa costruire una storia di purificazione, una narrazione lustrale: … noi lasciamo una macchia, lasciamo una traccia, lasciamo la nostra impronta. Impurità, crudeltà, abuso, errore, escremento, seme: non c’è altro mezzo per essere qui…
Storie parallele, ciascuna nella propria singolarità, che diventano interessanti nel momento del "disastro", quando l’energia vitale che fa succedere le cose, la rabbia che difende, la seduzione che cattura, vengono giocate dal Caso.
Lo spirito del romanzo è spirito di complessità. Ogni romanzo dice al lettore: "Le cose sono più complicate di quanto tu pensi". Parola di Milan Kundera.

(a cura di Luisa Magnani)

[nella foto Philip Roth]

lunedì 15 novembre 2010

Leggere con Ugo Cornia - 3 novembre 2010 - La promessa

Primo incontro del gruppo e confronto a più voci su un giallo sui generis, che si dichiara fin dal sottotitolo (requiem per il romanzo giallo) e anticipa subito le conclusioni: “un fatto non può tornare come torna un conto, perché noi non conosciamo mai tutti i fattori necessari ma soltanto pochi elementi per lo più secondari. E ciò che è casuale, incalcolabile, incommensurabile ha una parte troppo grande”.
Di seguito, una piccola cronaca in presa diretta dello scambio tra i lettori e il conduttore. Le conclusioni sono aperte e, dato il libro di cui si parla, non potrebbe che essere così.


Ugo Cornia, che non ama i gialli, l'ha letto una decina di volte, catturato da questa particolarità: diventa matto chi ha fatto l'ipotesi giusta, come se la follia fosse più 'coerente' della normalità. Un esperimento perfetto incappa in un'eccezione statisticamente irrilevante, sufficiente però a determinare la storia.

Non c'è tutta questa differenza tra killer e poliziotto, forse il secondo non è migliore del primo. Colpisce l'elemento ossessivo di tutto il libro, che relativizza bene e male (Rossana). Matthai, il poliziotto protagonista, giura una cosa che non riesce a fare e finisce ubriaco; l'ebbrezza cresce, e monta man mano che gli insuccessi si accumulano, in un parallelismo tra giuramento e ubriachezza (Fausto). Il narratore, comandante H., e Matthai sono servitori pubblici, che vivono in tempi pesanti simili agli attuali: “da quando gli uomini politici deludono in misura tanto grave … la gente spera che almeno la polizia sappia mettere ordine nel mondo”. Se pensiamo che il romanzo è stato pubblicato nel 1958, anche il tema del reato sessuale a danno di una adolescente è una formidabile anticipazione di realtà (Grazia).

C'è differenza se una frase come questa frase la dice uno svizzero o un italiano. In un saggio politico (Gorbacev e Havel: le ragioni della speranza, 1991) Dürrenmatt fa un discorso sulla Svizzera e le galere, per concludere che in Svizzera non ce n'è bisogno perché la Svizzera è una galera da sempre. L'austriaco Thomas Bernhard fa discorsi non dissimili. Nel mondo tedesco la sfiducia nei partiti, anche quelli di sinistra, è vent'anni in anticipo rispetto all'Italia (UC).

E' un romanzo che, senza l'ambientazione svizzera, perderebbe connotazione. Montalbano non sarebbe impazzito, semplicemente perché non si sarebbe mai aspettato una soluzione 'perfetta' (Mirella). E' una riscrittura 'svizzera' di Cappuccetto rosso: il bosco, il cestino.... (UC). La verità ti acceca, come in Edipo.... Si sente tutta la tragedia, e la solitudine, di chi cerca la verità (Irene).

La promessa non è fondamentale, il racconto potrebbe funzionare anche senza, eppure gli dà il titolo.... Tutto è irrazionale, a cominciare dalla promessa di una cosa impossibile. Del giallo ha solo la struttura, ma in realtà è un romanzo filosofico. L'assurdità della vita e la sua imprevedibilità vanificano ogni illusione di razionalità (Enrico). Quanto a questo, potrebbe anche intitolarsi L'incidente in automobile.... Là dove i rapporti tra persone sono così disemotivi, una promessa conta. Dürrenmatt è contemporaneamente figlio e padre di un pastore, ha un'idea teologica di verità, male e delinquenza: la si coglie anche in altri testi, Il giudice e il suo boia, Il pensionato (UC). Va da sé che ogni promessa è un atto di fede. Questo non è un giallo classico, perché nessuno è davvero innocente. La promessa è un debito, un'idea di salvezza, ma c'è un qualche posto per gli eroi sulla terra? E' il romanzo di un moralista. Quello che Matthiae vuol cancellare è il dolore di quei genitori, il dolore del mondo. E' un perdente, ma complesso e sfaccettato come tutti i personaggi contemporanei, che non sono mai tutti buoni, tutti cattivi, tutti innocenti (Luisa). C'entra la Svizzera e la sua cultura, c'entra l'esperimento, ma la promessa non torna, c'è una cesura strana, che non spiega l'abbrutimento che segue. La vecchia che muore è terribilmente mediocre (Nadia). Colpisce come descrive il mondo dei poliziotti: logica e dettaglio. Mentre invece 'il caso' è trattato con frettolosità, tirato via, quasi estraneo al resto del romanzo. Sembrano quasi due mani diverse (Marta). E' un libro fatto di scatole cinesi, un giallo dentro il giallo e allo stesso tempo una riflessione sul giallo: un requiem, perché il giallo semplifica una realtà molto più complessa. (Cecilia). Mi ha colpito la scena dei bambini all'aereoporto, che dà forza e motivo alla promessa. Da lì muove uno scatto di passione, anche se è crudele che il bene sia beffato dalla verità. Il bene può anche non pagare (Alessandra). Il ruolo del caso in tutta la storia è ironico (Mariella), o forse tragico (Alessandra).

Il giallo è un genere edulcorante rispetto alla morte, che ha sempre una spiegazione, una ragione profondamente umana. Il giallo dà delle risposte, è consolatorio. Ma è un'ironia che non fa ridere, perché nella realtà si muore lo stesso, anche se non c'è nessuno che ti ammazza (UC).
Questo romanzo anticipa la discussione tra giallo e noir, tra legge e giustizia. Mentre il giallo spiega ed è consolatorio, il noir lo è molto meno (Emilio).

L'idea di Dürrenmatt è che il mondo è irrimediabile. La realtà è quel che è e, se provi a migliorarla, peggiora. I romanzi non danno messaggi di fondo in senso chiaro, se no sarebbero saggi. C'è un richiamo, voluto, al personaggio Von Gunten di Walser, un'ironia sotto traccia che rende ogni cosa incerta (UC).
Nel personaggio della vecchia colgo un simbolo della decadenza borghese. La fine di un potere raramente è eroica. Questi personaggi piccolo-borghesi non sono tanto mostruosi quanto 'finiti' (Grazia). L'espressione più grande del cinismo è che il male viene rappresentato come una favola, alla fine della bambina uccisa ti interessa poco (Alessia). Matthai non è cinico, è 'sperimentale'. Non è simpatico, ma ci si affeziona, perché il suo estro scientifico è il cuore della storia (UC).

Alla fine, il gruppo si divide sull'ultimo capitolo: c'è chi ne avrebbe fatto a meno, e chi avrebbe preferito un finale diverso.

Ma non sarebbe stato lo stesso libro. Matthai non è Don Chisciotte, che scambia i mulini a vento per giganti. Qui c'è la particella x o y, che ti aspetteresti qui o lì, e che va da tutt'altra parte. La verità non si presenta mai dove dovrebbe essere, e questo slittamento così contemporaneo dei piani non ci sarebbe senza l'ultimo capitolo (UC).

lunedì 8 novembre 2010

Un libro, un film - 28 ottobre 2010 - Lo straniero


Come nel libro - trasposizione in letteratura dell’esperienza filosofica di Camus - anche durante la discussione teniamo distinte le due parti che compongono Lo straniero. Suddivisione che si rivela indispensabile per chiarire la personalità del protagonista, Meursault.

Ma chi è Meursault? Un uomo insensibile o sensibile fino all'eccesso? Una figura positiva o negativa? Un individuo infantile o talmente maturo da avere trasceso le velleità umane?

Nella prima parte tutto sembra scivolargli addosso, tanto che la morte della madre è una seccatura da liquidare in fretta. Oltre a non voler vedere nemmeno la salma, oltre a provare insofferenza per il caldo soffocante anziché commozione durante il funerale, non si pone alcun dubbio morale nell’andare a fare il bagno con Marie il giorno successivo alle esequie.

L'impressione dominante è che Meursault si lasci vivere. La sua esistenza vagamente irresponsabile, apparentemente senza valori o punti fermi che ne puntellino le scelte, in qualche modo infastidisce.

 Meursault non prova emozioni, ma sensazioni forti: è ipersensibile al sole, al calore, ai rumori, agli odori. La poesia e la sensibilità, per lui, sono tutte racchiuse in una fisicità estrema, in un mondo fatto di percezioni in cui i sensi prevalgono su tutto, come per i bambini. La sua umanità è tutta incentrata sul 'qui e ora'. Privo di memoria, di spessore, è tutto preso nell'immediato. Non è in grado di pensare al futuro - non ha alcun sussulto all'idea di trasferirsi a Parigi come gli propone il capo-ufficio -, così come non trae conforto dalle esperienze del passato. Privo di interiorità, senza sovrastrutture, appare come un essere appartenente non alla società umana, ma al mondo naturale. È pre-morale, aperto a tutte le possibilità: non sa scegliere, ma si fa scegliere, con modalità, ancora una volta, non dissimili da quelle dei bambini. Non è in grado di gestire la libertà, in particolare quando essa significhi entrare in contrasto con altri esseri umani.

Ma il mondo dell'infanzia morale, così a lungo conservata, finisce con «quattro colpi secchi [battuti] sulla porta della sventura», gli spari che uccidono un uomo e conducono Meursault ad una nuova fase della vita. Così termina, in maniera drastica, anche la prima parte del libro.

Con il processo, Meursault sembra iniziare a prendere coscienza di sé. Finalmente, non senza una certa soddisfazione da parte del lettore, comincia ad avere un'identità definita, non più evanescente e tutta sensoriale, come era stata per metà del libro.

Eppure, non è così chiaro se Meursault subisca realmente un’evoluzione o, al contrario, resti immutabile in un contesto, all’opposto, variato. Forse, davvero tangibile è solo un maggior grado di consapevolezza di sé del protagonista: quando Meursault entra in cella, pur rimanendo uguale e coerente con se stesso, diviene cosciente delle proprie peculiarità di essere umano, pur così diverso dagli altri esseri umani.

Questa consapevolezza, sembra accompagnare Meursault ad una certa felicità, quella di chi incontra e abbraccia la dolce indifferenza del mondo. Meursault sa che tutte le vite si equivalgono; che non esiste merito; che non c'è bene né male. Egli si dissolve nel mondo perché ne condivide la medesima indifferenza per gli uomini e le loro convenzioni sociali, impersonate alternativamente dal giudice o dal prete.

La coscienza dell’assurdità del vivere consente a Meursault di raggiungere uno stato di accettazione della morte imminente, una condizione di preparazione che può essere accostata alla readiness di Amleto.

Ecco che, alla luce della seconda parte, è possibile rileggere i comportamenti di Meursault nella prima. La sua indifferenza assume un nuovo significato: non è dunque la noncuranza di chi non ha interesse nel mondo, ma l’imperturbabilità di chi ha già sofferto e, in qualche modo, sublimato.

Parimenti, il rapporto con la madre, insignificante nella prima parte, rivive durante la sua prigionia, in vari flash back in cui riemerge il passato. Diviene palese come Meursault amasse la madre non solo di un amore filiale, ma di una stima ormai adulta: ne apprezzava il forte istinto di sopravvivenza e ribellione che l'aveva portata a ricominciare, a trovarsi un fidanzato, a vivere. Il rifiuto di vedere la madre morta non è più quindi un elemento negativo in assoluto, ma l’ennesimo segno di coerenza a favore della negazione dell’ipocrisia. La stessa coerenza in nome della quale non approfitta di nessuna delle attenuanti che lo potrebbero salvare in tribunale, o non sconfessa nessuno degli atteggiamenti criticati durante il processo. Meursault è quindi estraneo, straniero a tutto ciò che si palesa come convenzione ipocrita.

Infine, il titolo del libro pone l’accento sulla totale mancanza della dimensione storico-geografica, visto che l’ambientazione manca completamente di riferimenti al mondo arabo e alle tensioni politiche che Visconti avrebbe voluto sottolineare nella sua trasposizione cinematografica.

martedì 2 novembre 2010

Il salotto del martedì - verso "La macchia umana", di Philip Roth

Quando daranno il Nobel a Philip Roth? I lettori se lo chiedono da tempo, affascinati da questo scrittore statunitense di origini ebraiche, autore di vasti affreschi come i romanzi che costituiscono la cosiddetta “trilogia americana”: Pastorale americana (premio Pulitzer 1997), Ho sposato un comunista e, infine, La macchia umana (2000).
Il protagonista di quest'ultimo romanzo, Coleman Silk, ha costruito la sua vita su una menzogna e la porta avanti con così feroce determinazione da rompere i ponti con la sua stessa madre. Nessuno, nel campus in cui per quasi quarant'anni è stato professore e preside di facoltà, può immaginare il suo segreto, la macchia che, come tutti, Coleman si porta addosso e che ne segna l'indecifrabile destino.
Questo è uno dei “fili” che percorrono il libro: ogni vita umana è un abisso e la verità che ci riguarda è infinita. “Per quanto il mondo sia pieno di gente che va in giro credendo di conoscerti, di conoscere te o il tuo vicino, l'ignoto è davvero senza fondo”.
E figurarsi cosa succede se, a queste persone che credono di conoscerti, sembra di scoprire un piccolo scandalo che ti riguarda, che rovescia l'immagine che finora si sono fatti di te. Questo capita: a Coleman, del tutto innocente, sfugge una parola insidiosa che, interpretata maliziosamente, porta nella sua vita il disordine, il caos, la barbarie. Il destino che l'eroe (possiamo davvero definirlo così) si era forgiato, sbarazzandosi delle proprie origini e inventando la propria vita, cade a pezzi, distrutto dal falso perbenismo e dall'ipocrisia. Il tutto sullo sfondo dell'America bigotta dello scandalo Lewinsky, quando il segreto di Clinton venne a galla suscitando un'orgia di moralismo e di meschinità.
Ma il caos contiene in sé un elemento di chiarificazione, in quanto questo momento terribile della vita di Coleman si rivela infine come l'ultima possibilità di confrontarsi con la verità dell'esistenza. Ciò avviene grazie all'incontro con la femminilità violata, trasgressiva e alla fine salvifica di Faunia, che riporta il vecchio professore in contatto con la parte più dionisiaca di sé. È “l'ultimo amore”(esplicito il richiamo a Morte a Venezia), l'ultima possibilità di abbandonarsi alla turbolenza e all'intensità della vita.
È quasi impossibile render conto della molteplicità di messaggi, di piani di lettura, di storie e personaggi che anima questo libro densissimo. Ai temi accennati se ne affiancano molti altri, tutti condensati in una figura emblematica, dalla disperazione dei reduci dal Vietnam, rappresentata dal marito di Faunia, alle difficoltà d'apprendimento dei piccoli dislessici, allievi della figlia di Coleman.
Il tutto, per di più, filtrato attraverso lo sguardo dell'io narrante, che ancora una volta è l'alter ego di Roth, Nathan Zuckerman: questo complica ulteriormente il punto di vista, offrendoci l'autore come personaggio.
La macchia umana ci offre contemporaneamente un'immagine credibile di un determinato periodo storico e uno scandaglio gettato sulle profondità dell'animo umano, universale come la tragedia greca che il professor Coleman conosce così bene.


Matilde Morotti, gruppo di lettura "Il salotto del martedì"

venerdì 29 ottobre 2010

Il film che non si trova. 'Lo straniero'. Regia di Luchino Visconti, Italia 1967. Interpreti Marcello Mastroianni e Anna Karina


La versione italiana di questo film è irreperibile in VHS/DVD.

Le vicende che ne hanno segnato la produzione possono spiegare, anche se solo in parte, il suo destino, questa sorta di damnatio memoriae.

Subito dopo l’improvvisa scomparsa di Camus e sull’onda del rinnovato interesse per il romanzo, Dino De Laurentis ne acquistò i diritti cinematografici ma, nel contratto Francine Camus, vedova dello scrittore, si garantì la scelta del regista e il controllo costante sul lavoro di adattamento, anche attraverso un collaboratore di sua fiducia. Per i ruoli dei protagonisti  Visconti pensò inizialmente ad Alain Delon e a Claudia Cardinale ma poi – troppo giovane lui e troppo bella lei -  furono scelti Marcello Mastroianni e  Anna Karina.

Furono necessarie sei diverse stesure dello script prima di arrivare al copione definitivo,  nel novembre del 1966. La vedova Camus insistette per una riduzione assolutamente fedele al testo e pretese che fossero eliminati tutti i riferimenti anche larvati alle tensioni sociali e razziali dell’Algeria del periodo.  Mortificò in questo modo l’idea originaria di Visconti che avrebbe voluto rileggere la storia di Meursault alla luce dell’evoluzione storica dei fatti d’Algeria e  sottolineare il valore simbolico dell’arabo ucciso e del suo gesto.
Il 1° dicembre 1966 iniziarono le riprese jn francese, ad  Algeri;  la stagione particolarmente fredda e piovosa impedì di girare la scena dell’omicidio, che fu realizzata in giugno a Sperlonga, sul litorale tirreno.

Dopo l’approvazione di Francine Camus, il 6 settembre 1967 il film fu presentato ufficialmente in concorso alla 28° mostra del cinema a Venezia, in versione italiana con, tra gli altri, Edipo Re di Pasolini e Belle de Jour di Buňuel che vinse il Leone d’Oro. Fra il 14 ottobre 1967 (rappresentazione in prima nazionale a Roma)  e la fine del 1968 il film fu proiettato in Italia e nelle principali capitali europee. Inizialmente Visconti difese il suo film contro le critiche più severe sottolineando le affinità profonde che lo legavano allo scrittore francese:

“Se Camus fosse ancora vivo, insieme noi avremmo modificato l’aspetto di Meursault. Questo non è sicuro. Ma la morte li ha resi entrambi intangibili. E’ per questo che io ho rispettato, ho cercato anche l’autenticità nei minimi dettagli … ma che mi hanno aiutato a ritrovare il clima  in cui l’opera è stata creata, portandomi così alla sua realtà più profonda…Ho più affinità che non si creda con Meursault. Lo stesso disprezzo per una certa forma di stupidità di alcuni uomini, di quella stupidità involontaria, in ogni caso inconsapevole, che li conduce ad ogni sorta di vigliaccherie e di tirannie. La sua rivolta per un’esistenza passiva e solitaria è cionondimeno una rivolta contro i tabù eretti dalla religione e una società ipocrita” .

Negli anni successivi però tradì più volte la volontà di prendere le distanze da quest’opera, fino a rimuoverla definitivamente. A causa del veto di Francine Camus, Visconti non aveva potuto realizzare l’interpretazione moderna che ancora esiste nella prima sceneggiatura, scritta con la collaborazione di Georges Conchon.

 “Lo straniero ora è l’illustrazione di un libro e non c’è la mia vera partecipazione come c’è negli altri miei film, anche nel senso di un’interpretazione della realtà. Quindi, Lo straniero più che un figlio nato male è un figlio nato con delle limitazioni … l’autore di un’opera cinematografica è l’autore di un’opera a sé... La pagina scritta è solo un punto di partenza. Ed è un non-senso chiedere a un regista di film una fedeltà assoluta a un testo letterario”.

Ricorda Suso Cecchi D’Amico:

 “ Lo straniero non l’abbiamo mai riguardato con Luchino. Quand’era malato, ha voluto rivedere in videocassetta tutti i suoi film, tranne Ludwig che non voleva vedere affatto perché era mutilato; Lo straniero era come dimenticato”.

[Tratto da:  Leonardo De Franceschi, Il film Lo straniero di L. Visconti. Dalla pagina allo schermo, Fondazione Scuola Nazionale di Cinema 1999]

A cura di Rita Borghi