lunedì 12 dicembre 2011

Uomo e donna li creò - 3 dicembre - Leielui

La rincorsa affannosa di Lei e Lui, continuamente interrotta e rilanciata dallo squillo del cellulare, è descritta da De Carlo con un taglio cinematografico e un'ampia profusione di dettagli. Da cosa è giustificata questa scelta stilistica? Se da un lato è indubbio che, nella quotidianità, quasi tutte le storie d'amore sono lunghe, lente e noiose, dall'altro la letteratura mostra numerosi esempi di vicende banali narrate in modo appassionante e scorrevole.

De Carlo racconta una storia doppia, alternando le prospettive di Lei e di Lui, personaggi tutt'altro che epici che occupano uno spazio di stereotipi e luoghi comuni. Per quanto fastidiosi, questi stereotipi sono attinti dalla realtà in cui vive il lettore, e forse è proprio questo a renderli irritanti: dato che li conosciamo già fin troppo bene, per quale ragione dovremmo leggere un testo che ce li riepiloga uno ad uno?

Ci si può allora domandare se questo approccio possa essere in qualche modo illuminante nell'analisi del rapporto uomo-donna. La questione in gioco diventa perciò la seguente: che cosa vuole realmente raccontare Leielui? Si tratta di un libro effettivamente banale, o piuttosto ricco di spunti interessanti, ma diluiti e inariditi dalla lunghezza eccessiva della narrazione? Ad esempio, i sogni iniziali dei protagonisti (il volo di Lei, il libro imputridito di Lui) si eclissano per molte, forse troppe pagine. D'altra parte, in una realtà così particolareggiata e stereotipata c'è pochissimo spazio per i sogni; anche il lettore dovrebbe mettere da parte i propri.

sabato 3 dicembre 2011

Il salotto del martedì - verso "Non lasciarmi", di Kazuo Ishiguro




Kazuo Ishiguro, Non lasciarmi, Einaudi 2006


Nato a Nagasaki nel 1954, ma emigrato con la famiglia in Gran Bretagna nel 1960, Kazuo Ishiguro scrive in inglese ed è considerato uno dei massimi scrittori britannici, anche se nei suoi libri resta l'eco della cultura d'origine.
Chi legga il suo Quel che resta del giorno (da cui è stato tratto un bel film con Anthony Hopkins) si troverà immerso in un universo molto british, con argenti lustri, maggiordomi impettiti e ardori sentimentali covati per anni sotto la cenere, per non parlare di un senso di crepuscolare rassegnazione e di rinuncia a modificare il proprio destino.
Anche questo Non lasciarmi (2005) descrive un paesaggio molto inglese: un collegio abbastanza d'élite, immerso nel verde della campagna, in cui gli studenti sono educati alla vita interiore, alla bellezza, all'arte e sono incoraggiati ad esprimere la loro creatività. Eppure, fin dall'inizio, in questo mondo apparentemente privilegiato si rivela un'incrinatura, una crepa che si approfondirà sempre di più, portandoci con delicatezza insinuante nel cuore nero di un mistero che resterà comunque in parte inesplorato. Perché i ragazzi non ricevono visite dai genitori? Che cosa sono le “donazioni” di cui si parla fin dalle prime pagine? Perché alcuni insegnanti non riescono a nascondere un senso di ribrezzo nei confronti dei loro allievi? E perché a questi ultimi è fatto divieto tassativo di fumare?
L'io narrante dal nome kafkianamente amputato (Kathy H.) segue il filo dei suoi ricordi e c'è, in questo riavvolgersi del nastro della memoria, molto di non detto, di esitante e continuamente interrotto. Alla fine noi pensiamo di aver capito, ma ci resta un dubbio: che storia ci è stata raccontata, in realtà? Forse questa è l'utopia a rovescio di un possibile mondo in cui la scienza ha valicato i confini dell'etica. Oppure una favola, un mito che (non) spiega il mistero della creazione, di come nasce e muore la vita. O, ancora, un romanzo d'amore, in cui i protagonisti hanno, a dispetto di tutto, una fede incrollabile nella loro capacità di piegare il destino grazie alla forza dei sentimenti. Il suggerimento più illuminante potrebbe essere quello che ci dà l'autore stesso, quando in un'intervista interpreta il romanzo come una metafora della vita umana.
Effettivamente si potrebbe dire che tutti noi, come i ragazzi di Hailsham, siamo gettati nella vita e non sappiamo perché; qualcuno, fuori e sopra di noi, detta regole che non capiamo e solo quando è troppo tardi ci rendiamo conto che la vita è breve e noi non l'abbiamo ancora vissuta.
Rileggendo in questa prospettiva i romanzi di Ishiguro, si vede che le parole “troppo tardi” ne costituiscono il tema dominante: è troppo tardi per recuperare, per vivere in un altro modo, per evitare di sprecare la vita.
Eppure, in tanto pessimismo, resta una luce: l'amore e la memoria dell'amore. Kathy si attacca ai ricordi come a una consolazione, perché le persone che ama sono scomparse e la memoria diventa qualcosa di prezioso, cui ci si può aggrappare senza disperarsi: “Se avessi aspettato abbastanza,una minuscola figura sarebbe apparsa all'orizzonte in fondo al campo e a poco a poco sarebbe diventata più grande, finché non mi fossi resa conto che era Tommy, e lui mi avrebbe fatto un cenno di saluto con la mano, forse mi avrebbe chiamata”.














Matilde Morotti

giovedì 1 dicembre 2011

Uomo e donna li creò - verso "Leielui" di Andrea De Carlo

“Se poi troverà un uomo davvero sulla sua lunghezza d’onda gli spiegherà il segreto semplice dello stare in aria. In effetti le piacerebbe poter condividere questa sensazione, avere qualcuno con cui esplorare le possibilità degli avvitamenti e delle capriole, degli inseguimenti in su e in giù, puntando verso il cielo attraverso le nuvole…..” .


Con un sogno comincia la storia di Clare Moletto, americana, di origini italiane, precaria in un call center, separata da Luigi, uscita da una brutta storia con Alberto, fidanzata di Stefano, prossimamente innamorata di Daniel. Clare sogna di volare. Ma… “Non c’è nessun fiume fresco sotto di lei, solo le lenzuola scomposte del suo letto singolo. Nella sua piccola stanza nel brutto piccolo appartamento al primo piano nella periferia sudovest di Milano”.

Anche Daniel (i due non si sono ancora incontrati) sogna. E’ in una casa in affitto nel sud della Francia, c’è un giardino e uno laghetto d’acqua stagnante dove galleggia un libro, e ci sono due scoiattoli che se lo mangeranno.

L’angoscia che sta dentro al sogno profetico non è tanto diversa da quella che accompagna Daniel nella vita reale (lui è uno scrittore che ha esaurito la sua vena creativa).

Lei è bella, tonica, sfuggente, si sposta, corre (a piedi), appena può scappa, e cerca il vero amore.

Anche lui corre, ma in macchina, inseguendo qualcosa. Corre bevendo vodka, (ha una vecchia Jaguar) e fortunatamente ha un incidente, non grave, così incontra Clare e s’innamora.

L’artista parzialmente maledetto, il cinismo del mondo moderno, il fidanzato borghese con la mamma appresso, i sensi di colpa di lei, l’ex fidanzato violento, e anche la festa in spiaggia con falò e chitarra, sono fin troppo prevedibili per non credere in una strizzatina d’occhio col lettore. (“Un paio di inverni fa quando si era rotto l’impianto di riscaldamento (lui) aveva preso a bruciare i libri nel camino del soggiorno”). Addirittura!

Pare tutto già visto in questo Leielui (titolo scritto tutto unito come a dire che la fusione dei due amanti è autentica e che l’amore totalizzante esiste davvero). Ma oltre a questo l’autore di Treno di panna e Uccelli da gabbia e da voliera cosa vuole suggerire? Forse che Uomini e Donne vivono dentro i loro stessi stereotipi, recite sociali, pantaloni e sottane sbagliate, ma rassicuranti. (Molti gli aperitivi nella parte milanese del libro, fateci caso. E al cameriere si chiede… “Un Negroni sbagliato”, ovvero con ingredienti riveduti e corretti). Allora bisognerà darsi da fare per passare oltre lo sbaglio, oltre la cortina delle finte identità, per trovare una donna in carne ed ossa sotto il blezerino o un uomo nudo e crudo sotto la corazza. Darsi da fare, muoversi, correre. C’è un grande movimento nella storia: spostamenti fisici e mentali, viaggi, fughe e inseguimenti, attacchi scorretti, scuse, provocazioni e rispostacce, reazioni a catena. Quasi un appello: l’amore è movimento, salviamoci dalla staticità del rapporto, salviamoci dalla noia, magari anche dalla morte. Donne e uomini, sembra volerci dire De Carlo, hanno occhi diversi per guardarsi dentro e per guardare fuori, parole e pensieri lontani fra loro anni luce, differenti memorie, differenti ferite. Chissà che le loro infinite differenze non si possano ricomporre in un titolo unico se ci si lavora su, se si fa piazza pulita delle finte illusioni, se si cerca un po’ più di verità dentro se stessi. Almeno provarci. Poi prima o dopo questo Negroni dovrà pure avere un nome. Se non è un Negroni cos’è?

martedì 22 novembre 2011

Uomo e donna li creò - 12 novembre - Sii bella e stai zitta

È possibile affrontare un tema delicato e complesso come quello della condizione femminile nell'Italia di oggi con uno stile semplice e divulgativo, senza cadere nella banalità? Secondo Michela Marzano, autrice di Sii bella e stai zitta, la risposta è affermativa. Tale approccio semplifica inevitabilmente le questioni in gioco; tuttavia, dato l'intento educativo, oltre che illustrativo, che guida il lavoro di Marzano, la scelta di uno stile accessibile risulta pressoché necessaria.

Ma quali sono le ragioni di un approccio di questo tipo? È realmente necessario impostare un saggio su un criterio educativo? Il libro risponde esattamente a questa domanda: la situazione attuale è dovuta anche (principalmente?) a una mancanza di educazione, che mette a repentaglio buona parte delle conquiste del passato recente. Ma cosa si intende, più precisamente, per "educazione"? Marzano identifica una relazione di influenza reciproca tra valori e diritti: se i valori vengono persi, i diritti non vengono rivendicati; se i diritti vengono persi, i valori difficilmente sopravvivranno alle nuove generazioni. Tanto i valori quanto i diritti sono a repentaglio; sono però i primi ad essere più fragili, in quanto privi di un riconoscimento formale. Perché, allora, i valori sottostanti a quei diritti conquistati con tanta fatica si sono rivelati così cagionevoli?

La società italiana attuale tende a presentare la subordinazione femminile come un dato di fatto; per quanto questo fatto sia tutt'altro che dato, viene ribadito in modo continuo e martellante (Marzano cita numerosi esempi, basti pensare a molte delle pubblicità che occupano i nostri schermi) al punto che non sembrano esistere alternative ad un ruolo subordinato e degradato della donna.

Proprio la mancanza di un modello alternativo è ciò a cui l'educazione dovrebbe porre rimedio: tanto l'educazione domestica e scolastica, quanto quella "sociale". Considerata la generale idiosincrasia (se non esplicita avversione) della televisione verso i temi dei diritti femminili, l'unico significativo strumento di educazione sociale rimane il caro vecchio libro. In questa prospettiva, quanto fa Marzano è allora scrivere un libro accessibile a un pubblico più ampio possibile. Affinché il progetto dia frutti, altri volumi dovranno seguire, che affrontino il problema ad una maggiore profondità; ma, data la situazione attuale, la scelta di un approccio divulgativo non è tanto una questione di stile, piuttosto una necessità.

lunedì 14 novembre 2011

Il salotto del martedì - 8 novembre 2011 - La vita autentica



Vito Mancuso, La vita autentica, Cortina 2009



Il saggio affronta un tema di grande momento, dato l’odierno disorientamento generale, in cui, per usare una frase ad effetto, l’ “avere” e l’ “apparire” prendono il sopravvento sull’ “essere”. Questa contrapposizione tra “avere”, “apparire” ed “essere” risulta un po’ fastidiosa, ma intanto rende l’idea. Che cos’è dunque la vita autentica? Mancuso prova a indicarcela scorrendo le tesi e le contraddizioni di tutta la filosofia da Platone ad Heidegger e fornendo così al lettore un utile termine di paragone per farsi un’idea propria della problematica. Inoltre, come avverte nella introduzione, il percorso che egli propone è aperto a tutti, laici e credenti: non è necessario cioè essere credenti per perseguire un ideale di vita autentica. Ci riesce in questa operazione? Sì e no. Sì perché l’argomentazione, come è stato osservato, è dialettica, aperta alla discussione e alla confutazione e non ricalca l’andamento puramente asseverativo tipico dei teologi di stretta osservanza; no, perché in conclusione, fa riferimento a una serie di valori assoluti, il bello, il giusto e il vero, che non sembrano conseguire logicamente da una impostazione, a suo stesso dire, basata sulla relazione dell’individuo col mondo e con gli altri individui. Ma andiamo con ordine.
La vita non può dirsi autentica per il solo fatto di esserci, e parlando di uomini non si può fare di tutte le erbe un fascio: deve pur esserci una differenza tra un uomo e un “quaquaraqua”. Chiunque, osserva Mancuso, deve essersi posto almeno qualche volta questa domanda, perché a nessuno è ignoto l’inganno, o il tradimento, o l’abbandono per averlo subito o per esserne stato complice o autore.
Il saggio si snoda per tre capitoli: “La vita come libertà”; “L’autenticità”; “Perché la vita autentica”, e cerca di mettere a fuoco i motivi esterni (condizionamenti socio-culturali) e interni del disagio che ci costringe all'inauteticità, per trovare una via d’uscita nella assunzione di una propensione etico-riflessiva.
La domanda d’apertura è vasta come il mare: che cos’è la vita? La risposta è quanto mai problematica. Religione (Bibbia), filosofia, scienza giungono ciascuna per le vie che sono loro proprie a posizioni antitetiche. Nella Bibbia si scopre che la vita appare di volta in volta come “fenomeno armonico e ben governato”, ma anche come “non giusta, non razionale, non ben governata, e non contiene nessuna logica che ne rispecchi l’autore.” Se rivolgiamo la domanda alla filosofia le cose non vanno meglio: per alcuni è una cosa desiderabile, confortata da un senso provvidenziale e razionale, per altri un fenomeno imprevedibile dominato dal caso; oggi come nell’antichità si levano voci disperate per dire che “meglio sarebbe per l’uomo non esser nato”. Se interroghiamo la scienza le cose non cambiano; si parla dell’universo come di uno spazio inospitale e indifferente o, al contrario, connaturato, favorevole all’uomo e al suo sviluppo. Voci analoghe arrivano dall’astrofisica e dalla biologia. In conclusione, se “medesimi dati oggettivi” si dispongono a così “diverse interpretazioni” perché diverse sono le “rispettive visioni del mondo”, come orientarsi? Riemergono le antinomie della kantiana ragion pura, che nulla può sul mistero dell’universo, non sapendo se sia finito o infinito, continuo o discontinuo, determinato o indeterminato…
Non sappiamo se la mancanza di un universo trasparente alla ragione precluda un approccio fiducioso con l’universo, anche se manca la certezza, la “pietra” di cui Mancuso parla a proposito di una costruzione che poggi su basi stabili; non sappiamo nemmeno se tale base stabile presupponga il superamento delle antinomie e abbia bisogno almeno di “quella causa prima, comunemente chiamata Dio” di cui si parla da Aristotele in poi. Sembra che Mancuso si richiami piuttosto al bisogno di un dio (con la minuscola), forse meno assente del Dio aristotelico, dalla presenza discreta, che per esserci non ha bisogno di essere inconfutabile.
Determinismo e caso segnano strade entrambe fallaci, per lo meno nel senso che la prima paga il suo meccanicismo rassicurante con una rinuncia di senso che prima o poi interviene a rivendicare i suoi diritti; la seconda, all’opposto, per quanto si apra a tutte le possibilità, prima o poi deve fare i conti con la necessità di escluderne alcune, molte, la maggior parte; il caso legittima tutto e niente; il determinismo, oltre ad essere repulsivo, è incapace di disegnare una prospettiva che non sia in sostanza la ripetizione del già noto. Mancuso non intende sfuggire a questo dilemma: “Se la vita si presenta come contraddizione, rispettare la contraddizione consentendo a ciascuno l’esercizio della libertà è il modo migliore di rispettare la vita”. Perché “nel bene e nel male, la questione della libertà concerne il nucleo più intimo dell’antropologia […] la domanda che per Kant riassume tutto il senso del pensiero: Che cos’è l’uomo?”.
Alle scienze dello spirito, che Dilthey separa nettamente dalle scienze naturali, Mancuso assegna il compito di “delineare i criteri di autenticità della vita umana”. Dopo Kant sono accadute tali cose che non è pensabile lasciare alla scienza il compito che, a ben vedere, essa neppure pretende, cioè di decidere il nostro destino, tanto più ora che la stessa scienza è discorde e incapace di trovare una soluzione ai suoi problemi. E crediamo che anche questo voglia dire Mancuso quando afferma che “la vita è tanto più umana quanto più è libera [...]; riflettere sull’autenticità significa mettere a tema il buon uso della libertà per far sì che risulti buona e non cattiva, giusta e non ingiusta, vera e non falsa, bella e non brutta…”. Una relazione, quella tra il sapere scientifico e quello umanistico, in cui ognuno è coinvolto. Come accade, per esempio, nelle pagine che partendo da Cartesio giungono alle neuroscienze. “Cartesio […] alla ricerca di un fondamento del tutto certo […] invece di affidarsi alla sicurezza del sapere consolidato e della fede (era credente) si buttò nelle braccia del dubbio (costruttivo): chi cerca la verità deve una volta nella vita dubitare di tutto”. Un metodo, dunque, che passa attraverso il dubbio e l’errore: dubito, fallor, ma sempre cogito, ergo sum: se “io penso”, prima dovrò ben esistere come cosa pensante! A coloro che contro-argomentano avvalendosi, sia pure impropriamente di alcuni risultati delle neuroscienze, Mancuso risponde che il mondo della coscienza, della libertà “non è indagabile con nessuna delle tecniche di neuroimaging”. Una risposta che vuole soprattutto allertarci sui pericoli di un facile scientismo, contro il quale invita a praticare il dubbio metodico costruttivo di Cartesio. Così a proposito di Heidegger, se per “vivere per la morte” si deve intendere il lascito che ognuno vuol lasciare di sé come un impegno che egli si assume durante la vita (ma è questo il senso di Heidegger?) crediamo che sia ampiamente da condividere. M al vivere per la morte non si può non contrapporre il “vivere per la vita”, che non significa abbandonarsi alle pulsioni più spontanee, ma cercare quel proprio, eigen (Eigentlichkeit= autenticità) che in mezzo al grande magma della nostra interiorità ci contraddistingue, e perseguirlo.
Un passaggio particolarmente importante è quello in cui di descrive la morale di un Callicle, il personaggio platonico del Gorgia, il quale sostiene che vi è una legge naturale, la legge del più forte, al quale è legittimo soddisfare le proprie pulsioni a danno degli altri; per Callicle le leggi imposte dalla società, non sono altro che il modo con cui i deboli distorcono la natura cercando di impedire ai forti di realizzare se stessi, ossia di vivere autenticamente. Alle tesi di Callicle, Socrate contrappone un altro ideale di vita autentica, quella ispirata all’idea del bene nel consorzio armonico con gli altri cittadini della polis. A questo punto l’autore ci propone una breve rassegna dei Callicle della storia, tra i quali rifulge ovviamente Hitler. Ma gli argomenti che egli porta a sostegno della tesi socratico-platonica sono fondati su una non dimostrata e non dimostrabile tendenza insita nell’uomo a convergere, per sua stessa natura, verso l’allargamento armonico della vita e non verso la sopraffazione e la conseguente disgregazione. La tesi di Callicle, a parte il fatto che si contraddice da sé quando afferma che la sopraffazione dei forti porta come conseguenza l’unione dei deboli e l’istituzione della legge, può essere neutralizzata assai meglio senza far riferimento a valori assoluti, ma sulla base di un’etica utilitaristica alla Stuart Mill, per esempio. A tale proposito vorremmo citare un esempio sovrano: quando ormai Hitler era sul punto di scatenare la guerra che, oltre a infliggere ai popoli inenarrabili sofferenze si concluse con la sconfitta della “razza superiore” e la distruzione della Germania, un'anziana signora ebbe il coraggio di scrivergli esortandolo a non metter in pratica il suo proposito, perché, siccome egli voleva conquistare il mondo, tutto il mondo gli si sarebbe rivoltato contro e la guerra l’avrebbe persa. Perché l’episodio è assolutamente istruttivo e perspicuo? Perché quella donna non fece appello a qualità morali che sapeva non avrebbero in alcun modo influito su Hitler; fece appello al solo argomento che egli, nel suo delirio di onnipotenza, poteva recepire: “perderai la guerra”. In sostanza, e generalizzando: stiano attenti i “forti” a non suscitare la collera dei “deboli”. Ma non possiamo fermarci a sottolineare le ragioni dell’utilitarismo che non necessariamente divergono da quelle dell’idealismo. Se accettiamo la relazione come fondamento della realtà, conseguentemente è dalla stessa relazione che deve scaturire il principio di una vita autentica; e tale principio non può allora non assumere le sembianze di un’etica della comunicazione (Apel, Habermas), laddove il principio cui ispirare il proprio comportamento assume la forma, in nessun modo pregiudicata, della discussione libera da dominio, il cui principio trascendentale sia “vinca l’argomento migliore”.
In realtà, la relazione di cui parla Mancuso sembra declinare insensibilmente in una sorta di naturalismo fondato sulla struttura dell’io, dell’essere, del mondo. Se uno si chiede cosa ci sta sotto questo naturalismo (naturalismo significa darsi la rassicurazione che nonostante i su e giù della storia ciò che è “naturale”, essendo autentico, troverà uno sbocco positivo) la risposta sembra scontata: il dio della teologia. A noi sembra che questa conclusione non possa essere suffragata: è proprio dell’uomo (della cultura) di assumersi una responsabilità che non prevede alcuna rete di protezione. Con ciò intendiamo sostenere, contro il sottostante platonismo che sembra caratterizzare l’opera di Mancuso, che la bellezza, la bontà e la giustizia, secondo noi sono frutto unicamente di relazione.
Sia detto infine, ma queste sono sottigliezze, che anche il termine “autentico” risulta un po’ fastidioso, nel senso che inevitabilmente rimanda a qualcosa di essenziale che costituirebbe la natura umana e al quale in qualche modo alla fin fine non resta che richiamarci. Perché non usare al suo posto il termine aristotelico di “vita buona”? Anche l’altro ingrediente indispensabile alla vita autentica ci pare sospetto: ci riferiamo alla “speranza”. La speranza fa parte delle virtù teologali e se Mancuso la include necessariamente nella prospettiva di una vita autentica, finisce con ciò col delimitare a credenti nella vita eterna la possibilità di tale vita, contro l’assunto iniziale. Anche qui il lettore laico preferirebbe il termine “progetto”. Io posso avere un progetto di vita: in tal caso, anche se so di morire, posso sentirmi realizzato avendo perseguito coerentemente tale progetto. Ovviamente non ogni progetto è degno di essere perseguito, ma questo vale anche per la speranza.
C’è un altro punto che suscita perplessità. Dopo aver elencato tutte le innumerevoli storture, fonti di dolore che caratterizzano questo nostro mondo, l’autore conclude, alla maniera di Leibniz, che comunque il mondo è nel suo insieme buono e che la vita vale la pena di essere vissuta. La discussione in merito non ha alcun senso se non nell’ambito di una teodicea (benché imperfetto questo è il migliore dei mondi possibili o giù di lì): il mondo c’è, la vita c’è, quale che sia dobbiamo cavarcela. Bisogna riconoscere tuttavia che essendo l’uomo un ente naturale, prodotto di una lunga evoluzione, un certo grado di armonia col mondo naturale non può non esserci. Ma a questa idea, affinché non risulti pigramente consolatoria, vale la pena di contrapporre la denuncia di Leopardi: la natura è del tutto indifferente ai bisogni dell’uomo. All’uomo spetta di sfruttarne ragionevolmente le possibilità e di fronteggiarne solidarmente i disastri a ciò essendo stata “ordinata in pria l’umana compagnia”. E su un tale progetto, senza dubbio alcuno, troveremo fianco a fianco Vito Mancuso assieme a tutti gli uomini di buona volontà.
A cura di Mirna Ferrarini


Lettura da La vita autentica



Intervista a Vito Mancuso su La vita autentica

mercoledì 2 novembre 2011

Uomo e donna li creò - verso "Sii bella e stai zitta" di Michela Marzano


Michela Marzano, Sii bella e stai zitta. Perché l'Italia di oggi offende le donne, Mondadori 2010.
Il primo libro del Gdl, dedicato quest’anno a "Maschile e Femminile" (titolo: "Uomo e donna li creò") è Sii bella e stai zitta. Perché l’Italia di oggi offende le donne, di Michela Marzano, filosofa italiana trasferita in Francia, paese dove ancora si muovono energie del pensiero e dove sulla carta di identità si può scrivere “professione filosofa”.
Nata e cresciuta in Italia, laureata alla Normale di Pisa, dove ha conseguito il titolo di dottore di ricerca, la Marzano diventa giovanissima professore ordinario alla Università Descartes di Parigi, nell’era della fuga degli italici cervelli.
“Le Nouvel Observateur” la cita come uno tra i più brillanti pensatori della nuova scena culturale francese, e le riviste italiane non esitano a titolare “un’italiana scelta tra i migliori di Francia”, rivendicando una inopportuna paternità/maternità, che solo mamma e papà biologici possono vantare con orgoglio, perché se Michela Marzano fosse rimasta nel suo paese sarebbe probabilmente stata spenta, come altre brillanti lampadine luminose e illuminanti, dalla recessione/stagnazione del pensiero che ha colpito i talenti.
Peggiore ancora della recessione economica perché, se le macchine e le fabbriche prima o poi si rimetteranno in funzione, i cervelli saranno definitivamente smarriti e quelli che ancora resisteranno certamente umiliati, o troppo stanchi o tacitati.
Sii bella e stai zitta, sottotitolo Perché l’Italia di oggi offende le donne, piace perché cita Freud e Jovanotti, Lacan e Pretty woman.
Come dire, un libro colto alla portata, un testo “nazionalpopolare” di una mente sopraffina, dove il linguaggio filosofico diventa linguaggio divulgativo senza perdere la forza del pensiero e il rigore logico/argomentativo.
Per ragionare sul perché l’Italia di oggi offende le donne, secondo la più consolidata pratica filosofica, Marzano comincia da un’altra domanda, che prima di lei altri pensatori si erano posti: cos’è una donna e che differenza esiste tra un uomo e una donna? E una seconda domanda, tristemente attuale, più impietosa e più difficile quasi della prima: che cos’è l’Italia di oggi?
E le risposte la Marzano le cerca nella Storia, nella cultura del nostro paese, ma soprattutto le cerca nel corpo delle donne. Dentro la verità del corpo, di un corpo troppo esposto, caricaturizzato, umiliato, martoriato e violato.
Un corpo che - ascoltato - suggerisce e guida, un corpo che – inascoltato - si allontana e ti aliena, ti ammala, continuando a custodire un desiderio a tua insaputa, frastornato dal desiderio indotto e imposto.
Sarà dunque quella la verità che ci rende diverse? Ma dove sta, dov’è nascosta?
Il rigurgito sonoro e volgare di cultura machista che ha attraversato l’Italia negli ultimi vent’anni vuole confondere e distrarre, e come dice Marzano, creare “l’impossibilità di accedere al desiderio”.
Come dire: attenzione bambine vestite di tulle, principessine alla corte del principe ranocchio, ragazze griffate, olgettine, veline, letterine, meteorine, state facendo un gioco non vostro.
Ma questa nebbia dorata, polvere di stelle soffiata sugli occhi, comincia a far lacrimare di brutto, irrita, danneggia ben più delle otto ore che sembran poche, enormemente di più della schiena piegata sui libri, più delle attese sfibranti del concorso per entrare di ruolo, e produce (piano, un po’ troppo piano) un crescendo di indignazione, di rabbia, di pathos civile, che è quello che i genitori dovrebbero insegnare ai figli e alle figlie e gli insegnanti dovrebbero trasmettere ai ragazzi e alle ragazze nelle scuole. Avete presente la Tata Lucia? quella di Sos Tata? Inchiodatevi da sole le regole scritte in cameretta. Regola prima: Trovare una voce. Il corpo ve la suggerirà. E non smettere di urlare.


Elena Bellei

giovedì 27 ottobre 2011

Il salotto del martedì - verso "La vita autentica" di Vito Mancuso

Vito Mancuso, La vita autentica, Cortina 2009

Professore di Teologia moderna e contemporanea presso l'Università San Raffaele di Milano, autore del best seller L'anima e il suo destino (Cortina 2007), Vito Mancuso potrebbe sembrare un pensatore alla moda, reso ormai celebre da svariati passaggi televisivi e da violente stroncature da parte di testate cattoliche come “L'Osservatore Romano” e “Civiltà cattolica”.
Ma proviamo a leggere le sue pagine con animo sgombro da pregiudizi, e sentiremo una voce chiara che, con semplicità nutrita di letture bibliche e filosofiche, pone a tutti noi domande che ci interrogano nel profondo:c he cosa fa di un uomo un vero uomo? Cosa fa sì che la sua vita diventi autentica, cioè vera, buona, giusta? In che cosa consiste la libertà interiore?
Non sono questioni astratte, da addetti ai lavori. A ciascuno di noi è capitato di trattare ed essere trattato in modo non autentico, perché i rapporti umani sono spesso falsati da mascherature, falsità ed opportunismi. Spesso mentiamo agli altri perché non abbiamo il coraggio di dire la verità a noi stessi; soltanto liberandoci dalle nostre menzogne (dice Mancuso) potremo uscire dalla nostra finitezza e realizzare il nostro vero (e libero) sé interiore. “La vita autentica è all'insegna del viaggio, dell'uscita da sé verso la realtà... Per alcuni il viaggio verso l'autenticità sarà un esodo verso una patria, per altri solo un esodo senza patria, un'Odissea senza Itaca. Penso però che per tutti valgano le celebri parole dell'Ulisse dantesco, secondo le quali, alla luce della nostra essenza di uomini, la vita autentica è quella vissuta all'insegna del bene (virtute) e dell'amore per la verità (canoscenza)”.
Una lettura impegnativa, ma ricca di stimoli anche per il laico e il non filosofo che voglia affrontare la riflessione sui grandi temi dell'esistenza.
(a cura di Matilde Morotti)