martedì 14 giugno 2011
Ti consiglio un libro - Settanta acrilico trenta lana di Viola Di Grado
Come scrive Viola Di Grado!
Dopo aver visto la sovraccoperta del suo libro d’esordio, Settanta acrilico trenta lana (E/O 2011), tappezzata dalla lista dei premi letterari per i quali l’autrice è segnalata, o è candidata o è già vincitrice; dopo aver letto tutti i commenti strabilianti - «Formidabile prova di scrittura», «Una scrittura che sa impregnarsi del delirio grazie a un sicuro possesso dello strumento espressivo», «Scrittura poetica e corrosiva», «Viola Di Grado azzera la lingua e spinge le parole da risignificare verso un tono speciale», «una scrittura che ricorda la forza narrativa di Kitano immersa in una vasca di acqua gelata di poesia di Björk», e molti altri di questo tono (!) - volevo proprio scoprire se la ventitreenne catanese è davvero la nuova Virginia Woolf, oppure se si tratta della grande truffa del rock ‘n’ roll.
E con felicità - e pure un po’ di invidia per una giovanotta che sembra avere la maturità stilistica di una quarantenne - ho scoperto che non c’è trucco e non c’è inganno: Viola di Grado scrive davvero bene. A volte un po’ innamorata della sua stessa scrittura, a volte un po’ compiaciuta in una allure da dark lady, ma non c’è dubbio che ci sa fare con le parole.
E anche con le storie, perché la vicenda narrata è un ossessionante circolo vizioso di compulsioni e manie di una madre, di una figlia e – come se non bastasse – degli altri personaggi che a poco a poco si avvicinano a Camelia, la protagonista. Ogni figura sembra incapace di fuggire da un loop di sensi di colpa, odio, amore, crudeltà, desiderio, il tutto all’ombra di una cappa di monotonia che ha il colore del cielo grigio di Leeds.
E non vedo l’ora di vedere Viola Di Grado dal vivo, intervistata da Elisa Vignali a Modena, venerdì 8 luglio alle 18, all’interno del ciclo di incontri Di genere gentile. Donne che parlano di donne, che si tiene nel chiostro di Palazzo S. Margherita, all’interno dell’Estate modenese 2011.
lunedì 23 maggio 2011
Inni alla notte (con musica)

Tenera è la notte di parole! E rara. Di solito si preferisce dormire (se chiedete in giro ve lo confermeranno), oppure parlare sussurrato, o intendersi con altri modi e maniere. Ma per chi ama rifarsi le orecchie (una variante del rifarsi gli occhi) e sostituire il rumore di fondo con parole speciali, allora una notte (e una biblioteca) fanno davvero la festa.
Perché “ il cielo era così pieno di stelle, così luminoso, che a guardarlo veniva da chiedersi: è mai possibile che vi sia sotto questo cielo gente collerica e capricciosa?...”
Perché “È bella di notte la città…Le persone si perdonano i vizi. La luce del giorno accusa, lo scuro della notte dà l’assoluzione……Nessuno chiede conto di notte…Di notte la città è un paese civile”.
“Senti… mi vien la pelle d’oca” dice una signora seduta ad ascoltare i narratori della notte in zona Holden sui gradoni rossi. Mentre suona un clarinetto. “Dolce e chiara è la notte e senza vento e queta sopra i tetti e in mezzo agli orti posa la luna..”. “C’ho il libro dal tempo della scuola… sarà anche impolverato. Non va micca bene”.
… È una notte in Italia che vedi, questo darsi da fare questa musica leggera, così leggera che ci fa sognare.
Elena Bellei
Ricordando Tenera è la notte - letture ad alta voce per restare svegli (14 maggio 2011)
lunedì 16 maggio 2011
Il salotto del martedì - 10 maggio 2011 - La tigre bianca

Il dibattito sul libro di Aravind Adiga inizia da questo interrogativo.
Pare proprio che sia possibile! L’autore crea le premesse per considerare Balram, protagonista, nonché assassino, un personaggio positivo.
Dopo aver sopportato miseria, fatica e soprusi, si ribella alla sua condizione di servo-schiavo, su cui tentano di fare ricadere un crimine che non ha commesso, capro espiatorio della “casta” a lui superiore; l’unico modo che trova per uscirne è la rapina e l’omicidio del padrone.
È un libro di formazione, in cui il protagonista racconta la sua storia a ritroso, dalle ambizioni di ragazzo che non vuole essere bloccato dalla paura come i compagni e - unico - sale a “vedere il forte”, al privilegio di frequentare la scuola, grazie a suo padre, che considera lo studio l’unico modo “per essere uomo”. Diventerà autista della famiglia più in vista del villaggio e si trasferirà a Delhi, la sua scuola allargata. Qui osserva, impara, valuta fino a diventare assassino per difendere la propria libertà.
Approderà, fuggendo, a Bangalore, la città simbolo di uno sviluppo diverso, che permette movimento e libertà. Il finale del libro sembrerebbe pessimista, in quanto pare che omicidio e rapina siano l’unica forma di riscatto e successo, frutto della legge che ormai prevale secondo il protagonista: la legge della giungla.

Il libro ci presenta un’India diversa dagli stereotipi classici, una società ancora chiusa nelle caste, falsamente democratica, preda di corruzione e violenza. Scritto in forma epistolare (il protagonista immagina di inviare le sue lettere al ministro cinese che verrà in visita a Bangalore) il testo ha un taglio quasi giornalistico e crea attesa attorno all'avvenimento che “cambierà la storia”.
Vi è un occhio attento, estremamente realistico sulla “nuova India”, che ci ha indotto, nel gruppo, a ragionare sulle scelte di sviluppo che stanno facendo India e Cina, sulle analogie, sulle differenze, sui “modelli” a cui si riferiscono.
Interessante la considerazione del protagonista, che si chiede ad un certo punto: “I poveri sognano di diventare ricchi e i ricchi che cosa sognano?”.
(Resoconto a cura di Edda Reggiani)
giovedì 5 maggio 2011
Il salotto del martedì - verso "La tigre bianca", di Aravind Adiga

Beh, la Bangalore di cui si tratta in questo romanzo (Aravind Adiga, La tigre bianca, Einaudi) è tutta un'altra cosa. Centro mondiale della tecnologia e dell'outsourcing, la città è un grande cantiere a cielo aperto, piena di giovani che, nei grattacieli di vetro, “fanno delle cose al telefono per gli americani”. È la nuova India, quella che sta diventando, al fianco della Cina, una delle maggiori potenze economiche mondiali: la Luce, cui il protagonista riesce ad arrivare sfuggendo al mondo delle Tenebre, cioè ai raccapriccianti villaggi di fango in cui vivono i “ragni umani”.
L'autore, che è un giornalista trentenne, vincitore nel 2008 del Booker Prize, costruisce il libro attorno ad un'efficace metafora: la tigre che parla col dragone, l'imprenditore indiano autodidatta che scrive sette lettere al primo ministro cinese, raccontandogli il lato oscuro della nuova “shining India”. Per far questo, il protagonista descrive la sua ascesa sociale, che è però, contemporaneamente, anche una discesa negli abissi della corruzione. Perché il guaio è che questa rivoluzione indiana è accompagnata dalla violenza, dal sopruso, dall'inganno di una falsa democrazia, in cui gli ultimi riescono a sopravvivere solo conformandosi alla legge della giungla. E l' “imprenditore” che racconta come è riuscito a raggiungere il successo, per quasi tutto il libro non è un uomo d'affari, ma un servo. “In questo paese una manciata di uomini ha addestrato il restante 99,9 per cento a vivere in un perenne stato servile”.
Il tutto descritto con stile sarcastico e tagliente: una lettura interessante, anche se lascia l'amaro in bocca.
Matilde Morotti
martedì 3 maggio 2011
Un libro, un film - 28 aprile 2011 - Quel che resta del giorno

Ciò che caratterizza un grande maggiordomo è, secondo Stevens, la sua dignità. Sebbene una definizione accurata di questo valore non sia facile da individuare (vi sono infatti dedicate ampie pagine), a un grande maggiordomo sono richiesti assoluta lealtà e obbedienza verso il padrone e il massimo impegno e coerenza nell’adempimento del proprio lavoro, qualunque esso sia. Questo ideale è perfettamente incarnato da Stevens.
Le qualità vantate da Stevens sono tuttavia perseguite con eccessiva coerenza, rivelando un atteggiamento ottuso che imprigiona il maggiordomo nella sua vita professionale. Stevens è infatti “cieco” sia nei confronti della storia (gli errori di Lord Darlington) che dei sentimenti (i tentativi di Miss Kenton nei suoi confronti). Questa doppia “cecità”, sia verso il padrone che verso i sottoposti, rappresenta la staticità di una società classista di cui Stevens e Lord Darlington sono immagini fedeli.
Quando Stevens mette a fuoco tutto ciò, è ormai troppo tardi: Lord Darlington ha fallito e Miss Kenton si è accasata. Che cosa dunque resta del giorno? Una profonda solitudine, contro cui Stevens è abbastanza corazzato per non tramutarla in disperazione, in perfetta coerenza con il proprio ruolo. D’altra parte, la vita di Miss Kenton gli mostra che esistono molti modi di essere coerenti, tutti assolutamente dignitosi.
martedì 26 aprile 2011
Legger con Ugo Cornia - 20 aprile 2011 - W o Il ricordo d'infanzia

“W” è il titolo di una storia scritta dal protagonista nel corso della sua infanzia. Questa storia descrive le caratteristiche di un regime sportivo in un’isola della Terra del Fuoco. Analogamente a molti dispotismi storici, anche a W sembra essere in vigore la supremazia del più forte. In realtà, la vita su W è più che altro regolata dal caso: gli atleti devono infatti fronteggiare una vasta serie di ostacoli arbitrari e casuali, che rendono l’esito delle sfide imprevedibile anche quando le forze in gioco sono impari. La supremazia del più forte è in definitiva soltanto un’illusione destinata a sfociare nel disincanto, come la maggior parte delle utopie, sia infantili che adulte.
All’inizio, l’autore afferma di non avere ricordi d’infanzia. Il viaggio a W consiste quindi in un loro recupero. Quasi tutti i ricordi d’infanzia sono “corretti” da una lunga serie di note e di ricordi posteriori, che rivelano come i loro contenuti non corrispondano quasi mai all’effettivo svolgimento degli eventi. Questo significa forse che quei ricordi d’infanzia fossero falsi? No, perché un ricordo non può mai essere vero o falso; può semmai essere perduto o posseduto. Il recupero della memoria, che sia della realtà o dell’immaginazione, è ciò che conferisce senso a questo libro.
venerdì 22 aprile 2011
Un libro, un film - verso 'Quel che resta del giorno' di Kazuo Ishiguro
Stevens è convinto in cuor suo di aver servito l’umanità consacrando la vita al servizio di un grande uomo. A Darlington Hall, lussuosa dimora dell’impeccabile Lord Darlington, è davvero passata la Storia.
Ma nel corso di un viaggio solitario, spostando lo sguardo su orizzonti inediti, Stevens rivede sotto una luce nuova e struggente non solo il proprio passato ma anche il tragico epilogo della guerra per il suo paese e per l’Europa intera.
Le ragioni del viaggio appaiono da prima agli occhi di Stevens esclusivamente professionali (riportare a Darlington Hall Miss Kenton, la governante che in altri tempi prestò servizio nella prestigiosa dimora inglese). Ma il suo andare altrove non sarà che un tentativo di illuminare, prima che sia troppo tardi, “quel che resta del giorno”, metafora di un momento della vita in cui la comprensione tardiva e la ricerca affannosa di qualcosa perduto per strada si tramuta in tormento o in resa.
Ma cosa è perduto? Kazuo Ishiguro sceglie la figura del maggiordomo Stevens e dunque di un servitore, per raccontare una vicenda che si dipana all’ombra degli aventi della grande Storia. Ma un servitore di quale causa? Di una sua personale (e felice) causa per cui lottare è cosa giusta? Per una causa ideale, personale e universale insieme, che nobilita i gesti del servire?
È difficile dirlo e addirittura comprenderlo perché la realtà è deformata se la si guarda riflessa dagli argenti di Darlington Hall, ossessivamente lucidati, e rischia di perdere di verità sotto il peso delle convenzioni formali. Tanto da divenire essa stessa forma e non contenuto, vuoto rituale e non ragione e non sentimento. Cosa resta del cuore più autentico, cosa resta dell’ideale più alto, cosa resta della nostra stessa vita se (chissà perché e in quale punto della strada) si perde la via. È possibile ripartire da lì, dove ci si è lasciati confondere?
Resta infine un profondo rimpianto, una coscienza ferita che (chissà) proprio grazie a quella stessa ferita si rende più vigile, più vulnerabile al fresco della sera, più sensibile alla luce del crepuscolo. E resta in questo caso un grande romanzo.
Elena Bellei, conduttrice del GdL 'Un libro, un film'
Ma nel corso di un viaggio solitario, spostando lo sguardo su orizzonti inediti, Stevens rivede sotto una luce nuova e struggente non solo il proprio passato ma anche il tragico epilogo della guerra per il suo paese e per l’Europa intera.
Le ragioni del viaggio appaiono da prima agli occhi di Stevens esclusivamente professionali (riportare a Darlington Hall Miss Kenton, la governante che in altri tempi prestò servizio nella prestigiosa dimora inglese). Ma il suo andare altrove non sarà che un tentativo di illuminare, prima che sia troppo tardi, “quel che resta del giorno”, metafora di un momento della vita in cui la comprensione tardiva e la ricerca affannosa di qualcosa perduto per strada si tramuta in tormento o in resa.
Ma cosa è perduto? Kazuo Ishiguro sceglie la figura del maggiordomo Stevens e dunque di un servitore, per raccontare una vicenda che si dipana all’ombra degli aventi della grande Storia. Ma un servitore di quale causa? Di una sua personale (e felice) causa per cui lottare è cosa giusta? Per una causa ideale, personale e universale insieme, che nobilita i gesti del servire?
È difficile dirlo e addirittura comprenderlo perché la realtà è deformata se la si guarda riflessa dagli argenti di Darlington Hall, ossessivamente lucidati, e rischia di perdere di verità sotto il peso delle convenzioni formali. Tanto da divenire essa stessa forma e non contenuto, vuoto rituale e non ragione e non sentimento. Cosa resta del cuore più autentico, cosa resta dell’ideale più alto, cosa resta della nostra stessa vita se (chissà perché e in quale punto della strada) si perde la via. È possibile ripartire da lì, dove ci si è lasciati confondere?
Resta infine un profondo rimpianto, una coscienza ferita che (chissà) proprio grazie a quella stessa ferita si rende più vigile, più vulnerabile al fresco della sera, più sensibile alla luce del crepuscolo. E resta in questo caso un grande romanzo.
Elena Bellei, conduttrice del GdL 'Un libro, un film'
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